[N20-3] La coroncina
Posted: Thu Jan 14, 2021 8:08 pm
Per questo racconto ho dovuto seguire la traccia:
Un'ingiustizia. Il vostro protagonista potrà subirla o porla in essere. L'ingiustizia non deve necessariamente ledere un diritto, può essere un'offesa senza rilevanza giuridica purché sia atta ad arrecare un torto. I moventi e le reazioni non devono mancare nel racconto.
Boa: mettete uno dei due termini: "Aldilà" o "al di là".
Un'ingiustizia. Il vostro protagonista potrà subirla o porla in essere. L'ingiustizia non deve necessariamente ledere un diritto, può essere un'offesa senza rilevanza giuridica purché sia atta ad arrecare un torto. I moventi e le reazioni non devono mancare nel racconto.
Boa: mettete uno dei due termini: "Aldilà" o "al di là".
Lando proseguì lungo la via, curiosando qua e là e dando un'occhiata a quasi tutto, pur non essendo interessato a niente in particolare. Ogni tanto alzava lo sguardo a considerare le case, strette addossate l'una all'altra, e di una certa vetustà, o antichità; tanto che alcune sembravano risalire addirittura al medioevo, se non a prima. Un pittoresco scorcio della città vecchia, pensava Lando.
A un certo punto la fila ininterrotta di bancarelle però cessava; rimanevano qua e là soltanto i saltimbanchi, o i mimi; alcuni gesticolavano allegramente facendo ogni sorta di scherzo ai passanti; ma per lo più erano del tipo triste, ossia di quelli che se ne stanno fermi fermi immobili sempre nella stessa posa, e accennano a un movimento minuscolo, e magari a un sorriso, solamente quando il passante ha generosamente messo la monetina nel cappello, o nella ciotola posata lì davanti a loro.
Lando continuò a camminare. Non aveva una meta precisa; piuttosto, quella viuzza lo incuriosiva perché, in qualche modo, gli ricordava qualcosa; ma che cosa, non riusciva a farselo venire in mente.
C'erano ormai pochissimi passanti. Uno di questi, vedendolo, gli fece cenno col braccio, come per salutarlo, anzi disse amichevolmente: «Ehi Lando!»; al che, Lando non seppe fare di meglio che sollevare anche lui il braccio in segno di riconoscimento; per quanto non l'avesse riconosciuto per nulla: tutt'al più gli ricordava qualcuno che forse poteva avere incontrato, e magari frequentato, parecchi anni prima; e del quale però il ricordo, se c'era, sembrava volersene rimanere rannicchiato in un angolo del cervello.
A un tratto, però, gli si parò davanti un tale, che doveva essere di una certa importanza, a giudicare dall'aspetto: vestiva infatti un elegante completo blu scuro, e sfoggiava una cravatta a disegni in stile kashmir, che sembravano lapislazzuli. Costui lo apostrofò senza mezzi termini: «Ma dove stai andando? Guarda che il tribunale è da quella parte!»
«Prego?» chiese Lando, sbalordito.
«Lando! Non dirmi che hai bevuto di nuovo... Ma ti rendi conto di che giorno è oggi? Oggi abbiamo l'udienza!»
E nel dire "udienza" sollevò particolarmente il tono della voce, come a dare ad intendere di essere non solo profondamente irritato, di più: era indignato, era furioso. Lo prese rudemente per il braccio, e lo trascinò su una via trasversale: «Su, dài, cammina» disse, mentre Lando, che ancora non si faceva capace di quello che gli stava accadendo, si era però rassegnato a seguirlo. «Ma guarda te, se l'avvocato Lorenzo Baldini deve rovinarsi il buon nome, e tutto per fare della beneficenza a un imbecille, a un balordo, a un alcolizzato come te! Scommetto che non ti sei ripassato nemmeno la parte. Ti ricordi quello che devi dire, quando il giudice ti chiama a deporre? Ma figurarsi!» concluse, dopo aver dato un'occhiata di scorcio a Lando, che continuava a camminare come un automa, con la faccia inebetita, incapace della minima reazione.
Arrivarono al tribunale; all'entrata, c'era una folla di curiosi e di giornalisti, ansiosi di strappare all'avvocato, o magari ai diretti interessati, qualche dichiarazione fresca fresca, e possibilmente piccante, da dare in pasto alla cittadinanza sempre ghiotta di novità. Baldini spinse Lando su per la scalinata, borbottando «Non abbiamo niente da dichiarare», e poi all'interno del tribunale. Dettero le generalità alle guardie, ed entrarono nell'aula, affollatissima e rumorosa; ma tutti si zittirono immediatamente alla vista di Lando, e il clamore divenne un brusio sussurrato come di zanzare, o di mosche.
L'avvocato lo trascinò fino alla prima fila di sedie, sulla sinistra.
Lando si guardò intorno. Al di là del bancone, davanti a lui, c'erano due giudici in toga nera e berretto col fiocco; seduto alla sua sinistra l'avvocato; dietro, un'altra specie di giudice: un uomo sulla cinquantina, stempiato, grassottello e piuttosto sudato, che portava la toga aperta sul davanti, come se la vestisse con noncuranza, o con trascuratezza. Anche Baldini si era messo la toga.
Uno dei giudici sembrava in vena di battute, o così sembrò a Lando, perché disse: «Bene, vedo che abbiamo l'onore di avere con noi anche il ricorrente... Guardi che siamo qua tutti per lei, sa, signor Dionisi... Non è che ci stiamo divertendo... Vabbe'... Diamo allora formalmente inizio al procedimento. La parola al relatore.»
«Procediamo quindi alla lettura del ricorso presentato nella causa di divorzio dal qui presente Lando Dionisi...» iniziò a dire l'altro giudice, con voce distaccata e meccanica, come di uno che andasse di fretta. «A norma degli articoli...»
Sul lato destro dell'aula, in prima fila, Lando vide un altro avvocato in toga, e al di là di quello alcune persone che, immaginò, dovevano essere gli accusatori, o le parti lese, o qualcosa del genere. Fra loro c'era Arianna...
Allora ricordò. Aveva incontrato Arianna quando ambedue non avevano ancora compiuto i diciott'anni, a una festa scolastica, e se n'era innamorato subito. Così come lei, d'altra parte; dopo una settimana stavano già insieme, innamorati come si può essere a diciassette anni, o meglio: non come sono innamorati tutti quelli che si innamorano a diciassette anni, ma di più, pazzamente, selvaggiamente. Erano anni, del resto, in cui le cose accadevano facilmente, e riuscivano da sole; e tutti le accettavano così, come venivano. Lui era tanto innamorato che quando, dopo circa un mese, lei gli disse che era incinta, e che non era di lui, ma di qualcun altro, Lando si era fatto serio, ci aveva pensato su, e poi aveva risposto: «Vorrà dire che ci sposeremo prima», e lei gli era saltata al collo, come se non ci fosse stata dichiarazione d'amore più grande di quella.
L'altro era un tale Arnaldo Tesei, che all'epoca Lando ancora non conosceva. Arianna gli confessò che era stata un'imprudenza, una cosa che sapeva di non dover fare, ma l'aveva fatta; in ogni modo, Tesei se ne era subito partito per l'America, per via di un'irrinunciabile occasione di lavoro nel mondo dello spettacolo, che gli avevano procurato certi amici di famiglia assai influenti; e in effetti non si fece più vedere per molti anni.
«... quanto ai motivi che hanno fin qui impedito di giungere a una conciliazione» diceva intanto il giudice, «incluso il comportamento quanto meno ondivago del ricorrente, credo che la corte possieda ormai tutti gli elementi. A meno che non voglia dire qualcosa l'avvocato Baldini...»
Ma Lando non riusciva a seguire le parole del giudice, preso dal flusso dei ricordi che, ormai, lo incalzavano. Si erano sposati dopo pochi mesi, lui col vestito che gli aveva prestato suo padre, e che gli andava un po' lungo, Arianna col vestito bianco tenuto gonfio dal pancione; e in testa, la coroncina che gli aveva regalato lui. All'epoca, Lando aveva già cominciato a lavorare nella compagnia teatrale dello zio Guglielmo, che gli riservava le parti adatte alla sua età; e che con grande solennità, qualche giorno prima, gli aveva consegnato la sua prima busta paga. Lui era subito corso a comprare la coroncina, che aveva già adocchiato in gioielleria, e che gli costò l'intero stipendio. Non era una cosa di grande valore, ma gli piaceva perché, sul davanti, aveva otto gemme di colori diversi: azzurro, rosso, verde, giallo, e la gemma centrale, la più grande, era bianca, splendente.
«... e poi la disinvoltura, con cui la controparte ha continuato a cambiare le carte in tavola», diceva ora l'avvocato di Arianna, «lasciamo stare che ci fa capire chiaramente di che razza di personaggio stiamo parlando...»
«Obiezione!» saltò su Baldini.
«Accolta...» disse stancamente il giudice. «Lasciamo stare, appunto; veda di farla breve, avvocato.»
Lando si sporse in avanti per vedere se, dietro ad Arianna, ci fosse Gemma. Sì, c'era, infatti: bella come non l'aveva mai vista prima. Nello splendore dei suoi diciotto anni.
Gemma era la loro figlia. Non c'è avventura più emozionante nella vita di un uomo, pensava Lando, che giocare con la propria bambina, portarla ai giochi del parco, o alle feste di compleanno degli amichetti di scuola. Che bei tempi! Anche perché la carriera nello spettacolo, in quel periodo, gli stava andando decisamente bene. Dopo qualche anno, aveva formato una sua propria compagnia, insieme a un gruppo di coetanei; recitavano pièces un po' strampalate, fantasiose, ma che all'epoca andavano alla grande; e avevano scelto un nome altrettanto strampalato: "Il giardino dei miracoli". Non solo guadagnava bene, ma era il lavoro che aveva sempre sognato di fare; tanto più che la maggior parte delle commedie che rappresentavano, le aveva scritte lui stesso; e già gli era arrivata qualche proposta da un paio di famosi registi cinematografici.
«... fino ad arrivare alle molestie...» continuava imperterrito l'avvocato di Arianna.
«Avvocato, non lavori troppo di fantasia» lo interruppe il giudice, un po' infastidito. «Si attenga ai soli fatti accertati...»
I problemi erano cominciati quanto Tesei era ritornato dall'America, ricco sfondato, perché era diventato produttore cinematografico, e in città era sulla bocca di tutti. A Gemma non avevano ancora detto niente; aveva quindici anni, e avevano pensato, certo sbagliando, con il senno di poi, di informarla della sua vera paternità solo quando fosse diventata maggiorenne. Arnaldo Tesei si presentò a casa loro quasi con sufficienza, si potrebbe dire con una bella dose di sbruffoneria: «Ah, e quella sarebbe mia figlia, insomma? Che carina.»
Allora aveva cominciato a finire tutto. Gemma si era chiusa in un mutismo ostinato; a Lando non voleva nemmeno rivolgere la parola; si rifiutava di mangiare; stava fuori alle volte anche tutta la notte; quando c'era, girava per casa come un fantasma, evitando perfino di guardarlo negli occhi quando lo incontrava. La madre l'aveva portata anche dallo psicologo, senza ottenere alcun risultato. Ma poi aveva cominciato a cambiare anche lei. Benché poi Tesei non si fosse più fatto vedere o sentire, a parte qualche telefonata occasionale, Arianna sembrava portare il peso di un rimorso; quasi che sentisse che in qualche modo era colpa sua. Per colmo di disgrazia, la compagnia cominciò ad andare male: Lando non recitava più come una volta; i suoi famosi monologhi, le estrose improvvisazioni che l'avevano reso così popolare fra il pubblico, non gli riuscivano più bene, erano diventate tristi, imbarazzanti, penose. Gli ingaggi cominciavano a farsi sempre più difficili. Il fatto è che, un poco alla volta, si era dato al bere: di nascosto, sul far della notte, per la solitudine si apriva una bottiglia; e stava a pensare, a pensare, a pensare; e poi se ne apriva un'altra; e pensava; e la mattina ogni volta si meravigliava di essere riuscito a scolarsene così tante.
«... abbandono del letto coniugale...» continuava l'altro avvocato.
«Del tetto, avvocato» diceva il giudice; «e veda di concludere, per favore, se no qua facciamo notte.»
Alla fine Arianna aveva chiesto la separazione; lui se n'era andato di casa; e la figlia non l'aveva vista nemmeno più. Aveva trovato rifugio da una vecchia amica, Liliana, di cui si era poi innamorato, o almeno così si sforzava di credere. Il colmo dell’ironia era stato quando Tesei gli aveva proposto, per aiutarlo, di fare di tanto in tanto uno sketch pubblicitario per la sua televisione privata. Aveva ripreso a lavorare, benché saltuariamente; beveva un po'meno; e le cose sembravano andare meglio, anche se...
Baldini gli tirò una gomitata. «Sveglia!» gli disse con un tono di voce che voleva essere sussurrato, e che invece risuonò all'orecchio di Lando come una fucilata. Si rese allora conto che il giudice si stava rivolgendo proprio a lui.
«Su su Dionisi, la vogliamo fare questa deposizione spontanea, o ci ha per caso ripensato?»
«Muoviti» gli sparò un'altra fucilata Baldini. «E ricordati di dire solo quello che ti ho detto io. Vai!»
Lando si alzò, ed andò a sedersi alla sedia che un usciere gli stava indicando. Cercò di ricordare quello che doveva dire, ma non gli veniva in mente nulla. Sentiva, capiva che ora doveva parlare, ora o mai più: ma la lingua gli restava attaccata al palato, si rifiutava di muoversi. L'unico pensiero che gli girava per la mente era il dubbio, se quelle cose fossero già successe, o dovessero ancora accadere; come se gli sembrasse assurdo che gli stessero accadendo proprio in quel momento.
«Allora, Dionisi, vuole decidersi?» lo incalzava il giudice.
Il brusio dell'aula aumentava, ma lui non la vedeva nemmeno, l'aula. Vedeva solo gli occhi di Gemma, gli occhi che aveva da bambina, quando la portava al parco. Gli occhi di Arianna, con cui l'aveva guardato il giorno del matrimonio, quando si era presentata vestita di bianco, col pancione. Sembravano implorarlo, quegli occhi, come volessero dirgli: prova Lando, prova papà, dacci un'altra possibilità. Datti un'altra possibilità.
«Sì è vero» pensò Lando. «Un'altra possibilità.»
Vedeva solo gli occhi di Arianna e di Gemma, come stelle luminose nel cielo, tanto brillanti da oscurare tutto il resto. Accennarono a girare lentamente, oscillando su uno sfondo blu indaco, ipnotiche. Lando si sentì sollevare nell'aria, senza più punti di riferimento, senza sapere dove aggrapparsi, come se fluttuasse nel vuoto. Le stelle improvvisamente si spensero, e tutto si fece buio. Lando sentì che le gambe non lo reggevano, e si accasciò a terra.