Il demone di Sara
Posted: Sat Oct 12, 2024 5:17 pm
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Il demone di Sara
Sara accennava un sorriso, lasciando intravedere i suoi denti bianchi. I suoi occhi verdi, vivaci e giocosi, tradivano una certa attenzione.
«Dai! Siete lenti!» urlavano i loro compagni di gioco.
Al di là di quel fazzoletto bianco c’era Andrea, un bel morettino sorridente, con un accenno di barbetta. Era pronto a prendere quel fazzoletto, ma sembrava si stesse divertendo a prolungare quel gioco di finte. Anche Sara sembrava dello stesso parere.
Quel giorno il parco era più verde e luminoso del solito, irradiato da un sole caldo.
«Dai Sara! Ormai si fa buio» disse Lucilla, mentre aspettava in linea con i suoi compagni.
Perfino il ragazzino che reggeva il fazzoletto iniziava a perdersi, fissando le quattro nuvolette che decoravano il cielo.
Intanto Sara e Andrea se ne fregavano allegramente di quello che dicevano gli altri, si volevano godere quel momento: prima fintava lui, e lei era pronta a prenderlo, poi lo faceva lei, e lui reagiva allo stesso modo.
Lo stallo si sbloccò quando la ragazzina si decise a strappare il fazzoletto e correre al massimo verso i suoi compagni di squadra.
Andrea, colto di sorpresa, la inseguì. Sara era quasi arrivata alla linea, ma le gambe allenate di lui furono più veloci, e così la toccò dietro alla spalla, senza troppa foga, quasi a calibrare la forza per non farla cadere.
Si udirono i disappunti dei compagni di squadra di Sara, ma tutto finì con un sorriso generale. Specialmente tra i due ragazzi.
30 minuti dopo
Il sole iniziava a calare pian piano.
«Ciao Sara!» disse Andrea, insieme agli ultimi ragazzini presenti ancora nel parco.
Sara lo salutò felice, poi salutò anche gli altri. Infine si voltò verso la strada di casa.
Nessuno di quei giovanotti ci fece caso, ma quando si voltò, lo sguardo di lei cambiò: si fece più cupo.
Lucilla ci fece caso, non ebbe neanche bisogno di guardarla in faccia. La conosceva bene.
La prese per mano e le disse: “ti accompagno”.
Sara la guardò e tornò a sorridere.
Le due amiche camminavano sul margine della strada, quando ogni tanto qualche auto di passaggio le “ricordava” di stare defilate.
Il tragitto di casa non era poi così lungo; quel tanto che basta per parlare un po’.
«Bello il tramonto» esclamò Lucilla, mentre la piccola palla arancione scompariva dietro ai tetti di alcuni condomini.
«Molto.»
Ci fu qualche secondo di silenzio, poi Sara riprese a parlare: «sai Luci, ora mi sento meglio. Sento che… posso farcela. Penso di essere più forte», e scalciò un sassolino che si trovava sul suo cammino.
«Ma certo che puoi farcela, tu hai il sole dentro! E ci sono io…»
«Lo so, sono fortunata con te. Se non ti avessi…»
«Te lo ripeterò sempre: non si può cambiare il passato, per quanto doloroso sia, l’unica cosa da fare è guardare avanti!»
«Giusto, guardare avanti», disse Sara con un cauto ottimismo, «il peggio è passato».
«Così mi piaci!»
Le due erano quasi arrivate all’incrocio che le avrebbe separate, quando notarono una cosa molto strana. Un cavallo bianco accasciato in mezzo all’incrocio.
Si avvicinarono incredule all’animale. Il suo colore brillante spiccava in mezzo all’asfalto. Ma era chiaro che fosse in fin di vita.
«Che cosa ci fa un cavallo qua? Non sarà uno di quelli del maneggio?» chiese Lucilla.
«Non penso», rispose Sara, osservandolo attentamente, poi aggiunse: «non ci sono femmine così chiare».
Poi si avvicino al muso della cavalla, mettendosi in ginocchio a fianco a lei.
Era perfetta, muscolosa, elegante. Immobile, a parte gli occhi ambrati, che la fissavano con un velo di malinconia.
Il sole tramontò del tutto e l’incrocio rimase illuminato soltanto da qualche vecchio lampione.
Sara si fece seria in volto, quasi timorosa di accarezzarla. Poi lo fece: il suo manto era freddo come il ghiaccio, come se fosse già morta.
«Luci. Che cosa significa?»
Sara alzò lo sguardo in cerca della sua amica, ma non c’era più nessuno. Neanche un’auto che passasse di lì per sbaglio.
C’era solo lei, e quella cavalla morente. Tutto attorno un inquietante silenzio.
Fu in quel momento che il cuore di Sara iniziò a battere forte.
“LUCI!” urlò la giovane nel vuoto.
Poi abbassò lo sguardo verso l’animale, ma i suoi occhi erano cambiati, non c’era più traccia di colore, erano neri come l’abisso.
Sarà sobbalzò all’indietro e si ritrasse da quella bestia. La paura le stava prendendo il controllo. Ora iniziava a capire che cosa stesse succedendo…
«Basta! Io non voglio più giocare con te! Io… ti ho sconfitto» disse piangendo.
Il cielo era nero, privo di stelle, come un mantello sopra la testa di Sara. E iniziò a piovere. Non era acqua, erano gocce di quel mantello nero, puzzolenti di morte, che macchiavano come catrame tutto quanto: la strada, la luce gialla dei lampioni, i capelli ramati di Sara e il manto bianco della bestia.
“PERCHÈ NON C’È NESSUNO?”
Cercava di trattenere le lacrime, ma quando la morsa la chiudeva, l’anarchia del panico prendeva il sopravvento.
Iniziò a soffiare un vento freddo e tagliente, che copriva sempre più lo scroscio violento della pioggia.
Sara pensò che stesse per morire.
Poi, all’improvviso, il vento cessò. E poco dopo, anche la pioggia. Rimase solo il segno del temporale attorno a lei.
Tornò il silenzio più profondo, come se Sara fosse sospesa in una cartolina triste.
Si udì il suono degli zoccoli, che cresceva ogni volta di più, fino a che dall’angolo dell’incrociò si intravide un nero stallone. Imponente, con un’ombra sopra di esso.
Quando il cavallo si avvicinò, Sara notò che il fantino era con il collo riverso in avanti, e dondolava a ogni passo dell’animale.
Non riusciva a capire chi fosse, fino a che riconobbe quei capelli lunghi e quei jeans. Non si trattava di un fantino, ma della sua cara Lucilla.
Sara tirò su col naso. Aveva finito le lacrime, e iniziava a maturare dentro di sé un senso di fredda rassegnazione.
Lo stallone si fermò al centro dell’incrocio, a pochi metri da Sara. Li divideva soltanto il cadavere di quella cavalla bianca. Poi impennò.
Lucilla rotolo all’indietro e cadde a terra come un sacco della spazzatura. E lì ci rimase.
Lo stallone sbuffò, poi guardando Sara si abbassò sulle ginocchia e rimase in quella posizione.
Per un istante, tutto si fermò.
«Siamo solo io e te. Ancora una volta…»
Sara posò lo sguardo su Lucilla.
«Che stupida… pensare che non mi avresti più trovato», mormorò, osservando la cavalla, ora sporca e macchiata di pioggia scura.
«Non dici niente, eh! Lo so. Lo so… non c’è bisogno che dici nulla. So già tutto, solo che… pensavo di illudermi.»
Sara chiuse gli occhi e inspiro per lunghi secondi. Buttò fuori l’aria lentamente, soffiando con la bocca, come se stesse svuotandosi di un peso. Il suo cuore tornò a battere con una strana calma.
Poi aprì gli occhi, si prese pochi secondi, aggirò la cavalla e si diresse verso lo stallone.
Si udivano solo i suoi passi, mentre calpestavano le piccole pozzanghere che stagnavano dopo la tempesta.
Quando arrivò davanti allo stallone, Sara non esitò: montò in sella con sicurezza.
Lo stallone a quel punto si mise in piedi e aspettò.
Sara prese le redini dello stallone, poi guardò avanti, in quella strada buia.
Strinse delicatamente le gambe sui fianchi del cavallo e con voce ferma disse: “vai”.
Il demone di Sara
Sara accennava un sorriso, lasciando intravedere i suoi denti bianchi. I suoi occhi verdi, vivaci e giocosi, tradivano una certa attenzione.
«Dai! Siete lenti!» urlavano i loro compagni di gioco.
Al di là di quel fazzoletto bianco c’era Andrea, un bel morettino sorridente, con un accenno di barbetta. Era pronto a prendere quel fazzoletto, ma sembrava si stesse divertendo a prolungare quel gioco di finte. Anche Sara sembrava dello stesso parere.
Quel giorno il parco era più verde e luminoso del solito, irradiato da un sole caldo.
«Dai Sara! Ormai si fa buio» disse Lucilla, mentre aspettava in linea con i suoi compagni.
Perfino il ragazzino che reggeva il fazzoletto iniziava a perdersi, fissando le quattro nuvolette che decoravano il cielo.
Intanto Sara e Andrea se ne fregavano allegramente di quello che dicevano gli altri, si volevano godere quel momento: prima fintava lui, e lei era pronta a prenderlo, poi lo faceva lei, e lui reagiva allo stesso modo.
Lo stallo si sbloccò quando la ragazzina si decise a strappare il fazzoletto e correre al massimo verso i suoi compagni di squadra.
Andrea, colto di sorpresa, la inseguì. Sara era quasi arrivata alla linea, ma le gambe allenate di lui furono più veloci, e così la toccò dietro alla spalla, senza troppa foga, quasi a calibrare la forza per non farla cadere.
Si udirono i disappunti dei compagni di squadra di Sara, ma tutto finì con un sorriso generale. Specialmente tra i due ragazzi.
30 minuti dopo
Il sole iniziava a calare pian piano.
«Ciao Sara!» disse Andrea, insieme agli ultimi ragazzini presenti ancora nel parco.
Sara lo salutò felice, poi salutò anche gli altri. Infine si voltò verso la strada di casa.
Nessuno di quei giovanotti ci fece caso, ma quando si voltò, lo sguardo di lei cambiò: si fece più cupo.
Lucilla ci fece caso, non ebbe neanche bisogno di guardarla in faccia. La conosceva bene.
La prese per mano e le disse: “ti accompagno”.
Sara la guardò e tornò a sorridere.
Le due amiche camminavano sul margine della strada, quando ogni tanto qualche auto di passaggio le “ricordava” di stare defilate.
Il tragitto di casa non era poi così lungo; quel tanto che basta per parlare un po’.
«Bello il tramonto» esclamò Lucilla, mentre la piccola palla arancione scompariva dietro ai tetti di alcuni condomini.
«Molto.»
Ci fu qualche secondo di silenzio, poi Sara riprese a parlare: «sai Luci, ora mi sento meglio. Sento che… posso farcela. Penso di essere più forte», e scalciò un sassolino che si trovava sul suo cammino.
«Ma certo che puoi farcela, tu hai il sole dentro! E ci sono io…»
«Lo so, sono fortunata con te. Se non ti avessi…»
«Te lo ripeterò sempre: non si può cambiare il passato, per quanto doloroso sia, l’unica cosa da fare è guardare avanti!»
«Giusto, guardare avanti», disse Sara con un cauto ottimismo, «il peggio è passato».
«Così mi piaci!»
Le due erano quasi arrivate all’incrocio che le avrebbe separate, quando notarono una cosa molto strana. Un cavallo bianco accasciato in mezzo all’incrocio.
Si avvicinarono incredule all’animale. Il suo colore brillante spiccava in mezzo all’asfalto. Ma era chiaro che fosse in fin di vita.
«Che cosa ci fa un cavallo qua? Non sarà uno di quelli del maneggio?» chiese Lucilla.
«Non penso», rispose Sara, osservandolo attentamente, poi aggiunse: «non ci sono femmine così chiare».
Poi si avvicino al muso della cavalla, mettendosi in ginocchio a fianco a lei.
Era perfetta, muscolosa, elegante. Immobile, a parte gli occhi ambrati, che la fissavano con un velo di malinconia.
Il sole tramontò del tutto e l’incrocio rimase illuminato soltanto da qualche vecchio lampione.
Sara si fece seria in volto, quasi timorosa di accarezzarla. Poi lo fece: il suo manto era freddo come il ghiaccio, come se fosse già morta.
«Luci. Che cosa significa?»
Sara alzò lo sguardo in cerca della sua amica, ma non c’era più nessuno. Neanche un’auto che passasse di lì per sbaglio.
C’era solo lei, e quella cavalla morente. Tutto attorno un inquietante silenzio.
Fu in quel momento che il cuore di Sara iniziò a battere forte.
“LUCI!” urlò la giovane nel vuoto.
Poi abbassò lo sguardo verso l’animale, ma i suoi occhi erano cambiati, non c’era più traccia di colore, erano neri come l’abisso.
Sarà sobbalzò all’indietro e si ritrasse da quella bestia. La paura le stava prendendo il controllo. Ora iniziava a capire che cosa stesse succedendo…
«Basta! Io non voglio più giocare con te! Io… ti ho sconfitto» disse piangendo.
Il cielo era nero, privo di stelle, come un mantello sopra la testa di Sara. E iniziò a piovere. Non era acqua, erano gocce di quel mantello nero, puzzolenti di morte, che macchiavano come catrame tutto quanto: la strada, la luce gialla dei lampioni, i capelli ramati di Sara e il manto bianco della bestia.
“PERCHÈ NON C’È NESSUNO?”
Cercava di trattenere le lacrime, ma quando la morsa la chiudeva, l’anarchia del panico prendeva il sopravvento.
Iniziò a soffiare un vento freddo e tagliente, che copriva sempre più lo scroscio violento della pioggia.
Sara pensò che stesse per morire.
Poi, all’improvviso, il vento cessò. E poco dopo, anche la pioggia. Rimase solo il segno del temporale attorno a lei.
Tornò il silenzio più profondo, come se Sara fosse sospesa in una cartolina triste.
Si udì il suono degli zoccoli, che cresceva ogni volta di più, fino a che dall’angolo dell’incrociò si intravide un nero stallone. Imponente, con un’ombra sopra di esso.
Quando il cavallo si avvicinò, Sara notò che il fantino era con il collo riverso in avanti, e dondolava a ogni passo dell’animale.
Non riusciva a capire chi fosse, fino a che riconobbe quei capelli lunghi e quei jeans. Non si trattava di un fantino, ma della sua cara Lucilla.
Sara tirò su col naso. Aveva finito le lacrime, e iniziava a maturare dentro di sé un senso di fredda rassegnazione.
Lo stallone si fermò al centro dell’incrocio, a pochi metri da Sara. Li divideva soltanto il cadavere di quella cavalla bianca. Poi impennò.
Lucilla rotolo all’indietro e cadde a terra come un sacco della spazzatura. E lì ci rimase.
Lo stallone sbuffò, poi guardando Sara si abbassò sulle ginocchia e rimase in quella posizione.
Per un istante, tutto si fermò.
«Siamo solo io e te. Ancora una volta…»
Sara posò lo sguardo su Lucilla.
«Che stupida… pensare che non mi avresti più trovato», mormorò, osservando la cavalla, ora sporca e macchiata di pioggia scura.
«Non dici niente, eh! Lo so. Lo so… non c’è bisogno che dici nulla. So già tutto, solo che… pensavo di illudermi.»
Sara chiuse gli occhi e inspiro per lunghi secondi. Buttò fuori l’aria lentamente, soffiando con la bocca, come se stesse svuotandosi di un peso. Il suo cuore tornò a battere con una strana calma.
Poi aprì gli occhi, si prese pochi secondi, aggirò la cavalla e si diresse verso lo stallone.
Si udivano solo i suoi passi, mentre calpestavano le piccole pozzanghere che stagnavano dopo la tempesta.
Quando arrivò davanti allo stallone, Sara non esitò: montò in sella con sicurezza.
Lo stallone a quel punto si mise in piedi e aspettò.
Sara prese le redini dello stallone, poi guardò avanti, in quella strada buia.
Strinse delicatamente le gambe sui fianchi del cavallo e con voce ferma disse: “vai”.