[CC24] La Ciocia
Posted: Sun Feb 18, 2024 1:04 pm
Traccia 6. "Chi c'è dietro la maschera?"
Ogni anno, a Carnevale, Schignano si anima come mai durante il resto dell’anno. Quand’ero bambina era una gioia incredibile: non prendevo nemmeno il tombolo per lavorare, la mamma ci aiutava a metterci tutti in maschera, me e i miei fratellini, e correvamo in cima al paese, dove si vedono la valle, il lago e le montagne tutt’intorno. Era sempre pieno di gente, ché vengono anche da lontano a festeggiare, ed era bello vedere facce nuove e rivedere anche i miei cugini, che se ne sono andati a lavorare alla fabbrica in città. Dicono che si sta bene, che lavoro ce n’è, però mi mancano. Poi, tutti con la maschera, si suonava e ballava, e si mangiavano anche le galline che la mamma aiutava a sgozzare il giorno prima. Si fa anche adesso, in realtà. Ma non è più lo stesso da quando la mamma è sparita, al Carnevale dei miei tredici anni. E soprattutto non è lo stesso da quando l’ho rivista, anni dopo, proprio lo stesso giorno… Quando ormai, però, ero una donna.
Alcuni bisbigliavano che era stata rapita da qualche creatura del bosco, dopo essersi allontanata dalla festa. Ma papà ripeteva che se n’era andata, che era scappata in città perché le eravamo venuti in odio. Che era andata a lavorare nella grande fabbrica, sola. Diceva sempre «A quella non le è mai bastato stare qui con noi, a filare la lana e fare il pizzo come fanno tutte. Doveva andarsene a lavorare la seta. Per quella lì, niente è mai stato abbastanza». Poi ha smesso di parlare di lei. E ovviamente io, che sono la più grande, sono diventata la donna di casa e ho iniziato ad aiutare i miei fratellini. All’inizio ero triste e arrabbiata, poi anch’io ho smesso di pensare a lei. Almeno fino a quell’anno.
Il paese era già un gran vociare e sgridare i bambini, che scappavano nel bosco, tranne alcune piccole che piangevano i loro polli preferiti.
«Marco, Beppe, Tino, venite qua! Ohi, va’ che vi servono le maschere!», gridavo ai miei fratelli.
«Ma sì, lasciali stare… Son ragazzi», aveva detto papà, fumando la pipa.
«Ma come facciamo per la festa? E poi non sono più così piccoli, io alla loro età lavoravo già il doppio ed ero anche brava a filare. In più son giorni che spenno di qua e cucio di là, sempre per loro»
«E dai, non far la caponiera. Io son mesi che te lo dico, più cresci, più mi sembri quella là»
Questo mi ha fatto male e mi sono zittita. Papà ci è rimasto male:
«Su, su, non fare così. Io lo dico per il tuo bene. Adesso che sei una donna, è ora che pensi a trovare marito. Che ne dici del Davidino? Mi sembra che andiate d’accordo. E poi è un bel figliolo, e il lavoro non gli manca. Andiamo a parlargli dopo, alla festa. E dai che è Carnevale, sorridi un po’ per me e i tuoi fratelli»
«Agnese, perché quegli uomini hanno la faccia sporca e sono vestiti da femmina?» mi ha chiesto Marco, il più piccolo, che era tornato a prendere il suo costume. E papà gli ha spiegato ridendo:
«Vedi, sono vestiti da Ciocia, una vecchia moglie che non se ne sta mai zitta! Se non mi ascolta pure tua sorella diventerà così!»
Poco dopo è iniziata la festa e siamo andati a vedere il panorama, dalla cima del paese. Quel giorno non pioveva, si vedevano le montagne bianche e il lago, grandissimo, tutto grigio, che faceva da specchio alle nuvole. Guardando a Sud si vedeva anche la città. La guardavo e mi chiedevo come fosse e se davvero lì c’era la mamma. Chissà se anche dentro me, da qualche parte, c’era la mamma.
Pensavo questo quando, all’improvviso, ho visto uno strano personaggio. Sembrava una Ciocia, ma non era un uomo con la faccia dipinta. Era qualcuno di alto e snello, con una maschera nera, dall’espressione disperata. Sembrava proprio… una donna! Con le gambe lunghe e il seno. È rimasta a fissarmi per un po’ e poi, quando iniziava a scendere il buio, mi ha fatto cenno di seguirla e si è messa a camminare verso il bosco. Mi sono guardata intorno ma tra la folla, il rumore e la musica, nessun altro sembrava essersi accorto di lei.
«Ehi, non ti ho mai vista in paese, chi sei?», le ho detto, correndole dietro. Nessuna risposta.
«Ti ho chiesto chi sei! Perché te ne vai via?»
La strana Ciocia non rispondeva; continuava a salire sempre più in alto. Qualcosa mi diceva di proseguire.
Quando il sole è calato dietro la montagna, si è fermata in una radura. Non riconoscevo nulla di quel luogo; nemmeno il cielo, infuocato all’improvviso da un tramonto rosso cremisi.
«Benvenuta, Agnese», mi ha salutato una voce che ricordavo fin troppo bene.
«… Mamma?», ho detto con un fil di voce.
«Tua madre, così come la conoscevi, non esiste più. Io sono lei, ma lei è solo una parte di me.»
«Cosa?»
«Non ho molto tempo, cara Agnese. Dall’ultima volta che mi hai vista, sette anni fa, ho acquistato la libertà; ma persino la libertà ha dei limiti. Non ho potuto mostrarmi a te fino ad oggi, perché tu non eri pronta a vedermi»
«Sei davvero tu? Ma dove sei stata?!»
«Sono qui per salvarti, sorella»
«Sorella?!» a quel punto ero confusa, spaventata, furiosa, mentre la donna con la voce di mia madre continuava a guardarmi attraverso la maschera piangente, «Ma che dici, sono tua figlia! Prima mi abbandoni e ora non mi riconosci? Lo sai quanto è stata dura senza di te? Papà dice che ci odiavi e sei andata in città da sola, non mi ha neanche lasciata venire a cercarti… Non capisco perché ci detestavi tanto, ma se non vuoi rispondermi allora torna nella tua fabbrica di seta.»
La donna è rimasta un attimo in silenzio. Quando ha ricominciato a parlare, la voce le tremava:
«Questo stesso giorno, sette anni fa, io sono stata salvata, esattamente come puoi esserlo anche tu. Una donna mi ha condotta qui e mi ha mostrato la bellezza del mondo, le vette delle montagne, la profondità del lago, l’azzurro del cielo oltre le nuvole, le pianure, lontano da qui. Mi ha dato un assaggio della libertà. E mi ha promesso che, un giorno, sarei potuta tornare da te per darti tutto questo. Oh, piccola Agnese» ha sospirato, «è solo per questo che me ne sono andata! Solo perché sapevo che, un giorno, sarei potuta tornare a liberarti!»
Lentamente, ha portato la mano alla maschera nera.
«Riesci a capire perché sono venuta da te in questi panni?»
Ho scosso la testa, confusa.
«Vestita così, con questa maschera, sono la Ciocia. Sono ciò che il mondo vuole che io sia: una moglie, una madre. E una serva.»
Lentamente, si è scoperta il volto. Era davvero mia madre, ma non era più la stessa: la sua pelle emanava una luce calda, dorata. Erano passati sette anni, ma sembrava più giovane. Gli occhi non erano quelli mori che ricordavo, con intorno occhiaie e rughe, ma brillavano di luce verde.
«Guardami, Agnese! Guarda la vera me. Io sono ancora e sarò sempre la tua mamma, ma sono anche questo. Prendi le mie mani, e vedrai ciò che ho visto io! Puoi essere mia figlia, mia sorella e mia amica.»
Stava piangendo a dirotto, lacrime di smeraldo. Ma allo stesso tempo sorrideva. Era bellissima. In quel momento ho sentito che era proprio lei e che mi voleva bene. Ho fatto un passo verso di lei e gridando «Mamma! Mamma!» ho lasciato che mi tenesse le mani.
Fu un turbine di immagini, suoni, profumi. Ci libravamo in volo sulla valle, sopra verdi pascoli e ghiacciai; poi giù, planando come cormorani, e ancora più a fondo, come lucci trote alici negli abissi del lago; poi la città, le persone, sapore di cibi mai provati, corpi in movimento, parole scritte da bambini e bambine col calamaio sulla carta. Poi, di nuovo, mia madre, a braccia aperte, insieme ad altre donne con la maschera da Ciocia.
«Di’ il mio nome, Agnese! Solo il mio nome, e anche tu potrai gettare via la maschera!»
Ma non ce l’ho fatta; era tutto troppo.
«No, no! Ti rivoglio com’eri! Rivoglio solo mia mamma!»
Quando sono tornata in paese ero di nuovo sola.
«Agnese, dov’eri? Ho parlato con tuo padre e… Perché stai piangendo?»
Sono rimasta a fissare Davidino, sconcertato, per un tempo che mi è sembrato infinito.
«Non è niente… Non mi è mai piaciuto sgozzare le galline.»
Poi, per quel giorno, non ci ho più pensato. Ho rimesso la mia maschera e ho continuato a ballare.
Ogni anno, a Carnevale, Schignano si anima come mai durante il resto dell’anno. Quand’ero bambina era una gioia incredibile: non prendevo nemmeno il tombolo per lavorare, la mamma ci aiutava a metterci tutti in maschera, me e i miei fratellini, e correvamo in cima al paese, dove si vedono la valle, il lago e le montagne tutt’intorno. Era sempre pieno di gente, ché vengono anche da lontano a festeggiare, ed era bello vedere facce nuove e rivedere anche i miei cugini, che se ne sono andati a lavorare alla fabbrica in città. Dicono che si sta bene, che lavoro ce n’è, però mi mancano. Poi, tutti con la maschera, si suonava e ballava, e si mangiavano anche le galline che la mamma aiutava a sgozzare il giorno prima. Si fa anche adesso, in realtà. Ma non è più lo stesso da quando la mamma è sparita, al Carnevale dei miei tredici anni. E soprattutto non è lo stesso da quando l’ho rivista, anni dopo, proprio lo stesso giorno… Quando ormai, però, ero una donna.
Alcuni bisbigliavano che era stata rapita da qualche creatura del bosco, dopo essersi allontanata dalla festa. Ma papà ripeteva che se n’era andata, che era scappata in città perché le eravamo venuti in odio. Che era andata a lavorare nella grande fabbrica, sola. Diceva sempre «A quella non le è mai bastato stare qui con noi, a filare la lana e fare il pizzo come fanno tutte. Doveva andarsene a lavorare la seta. Per quella lì, niente è mai stato abbastanza». Poi ha smesso di parlare di lei. E ovviamente io, che sono la più grande, sono diventata la donna di casa e ho iniziato ad aiutare i miei fratellini. All’inizio ero triste e arrabbiata, poi anch’io ho smesso di pensare a lei. Almeno fino a quell’anno.
Il paese era già un gran vociare e sgridare i bambini, che scappavano nel bosco, tranne alcune piccole che piangevano i loro polli preferiti.
«Marco, Beppe, Tino, venite qua! Ohi, va’ che vi servono le maschere!», gridavo ai miei fratelli.
«Ma sì, lasciali stare… Son ragazzi», aveva detto papà, fumando la pipa.
«Ma come facciamo per la festa? E poi non sono più così piccoli, io alla loro età lavoravo già il doppio ed ero anche brava a filare. In più son giorni che spenno di qua e cucio di là, sempre per loro»
«E dai, non far la caponiera. Io son mesi che te lo dico, più cresci, più mi sembri quella là»
Questo mi ha fatto male e mi sono zittita. Papà ci è rimasto male:
«Su, su, non fare così. Io lo dico per il tuo bene. Adesso che sei una donna, è ora che pensi a trovare marito. Che ne dici del Davidino? Mi sembra che andiate d’accordo. E poi è un bel figliolo, e il lavoro non gli manca. Andiamo a parlargli dopo, alla festa. E dai che è Carnevale, sorridi un po’ per me e i tuoi fratelli»
«Agnese, perché quegli uomini hanno la faccia sporca e sono vestiti da femmina?» mi ha chiesto Marco, il più piccolo, che era tornato a prendere il suo costume. E papà gli ha spiegato ridendo:
«Vedi, sono vestiti da Ciocia, una vecchia moglie che non se ne sta mai zitta! Se non mi ascolta pure tua sorella diventerà così!»
Poco dopo è iniziata la festa e siamo andati a vedere il panorama, dalla cima del paese. Quel giorno non pioveva, si vedevano le montagne bianche e il lago, grandissimo, tutto grigio, che faceva da specchio alle nuvole. Guardando a Sud si vedeva anche la città. La guardavo e mi chiedevo come fosse e se davvero lì c’era la mamma. Chissà se anche dentro me, da qualche parte, c’era la mamma.
Pensavo questo quando, all’improvviso, ho visto uno strano personaggio. Sembrava una Ciocia, ma non era un uomo con la faccia dipinta. Era qualcuno di alto e snello, con una maschera nera, dall’espressione disperata. Sembrava proprio… una donna! Con le gambe lunghe e il seno. È rimasta a fissarmi per un po’ e poi, quando iniziava a scendere il buio, mi ha fatto cenno di seguirla e si è messa a camminare verso il bosco. Mi sono guardata intorno ma tra la folla, il rumore e la musica, nessun altro sembrava essersi accorto di lei.
«Ehi, non ti ho mai vista in paese, chi sei?», le ho detto, correndole dietro. Nessuna risposta.
«Ti ho chiesto chi sei! Perché te ne vai via?»
La strana Ciocia non rispondeva; continuava a salire sempre più in alto. Qualcosa mi diceva di proseguire.
Quando il sole è calato dietro la montagna, si è fermata in una radura. Non riconoscevo nulla di quel luogo; nemmeno il cielo, infuocato all’improvviso da un tramonto rosso cremisi.
«Benvenuta, Agnese», mi ha salutato una voce che ricordavo fin troppo bene.
«… Mamma?», ho detto con un fil di voce.
«Tua madre, così come la conoscevi, non esiste più. Io sono lei, ma lei è solo una parte di me.»
«Cosa?»
«Non ho molto tempo, cara Agnese. Dall’ultima volta che mi hai vista, sette anni fa, ho acquistato la libertà; ma persino la libertà ha dei limiti. Non ho potuto mostrarmi a te fino ad oggi, perché tu non eri pronta a vedermi»
«Sei davvero tu? Ma dove sei stata?!»
«Sono qui per salvarti, sorella»
«Sorella?!» a quel punto ero confusa, spaventata, furiosa, mentre la donna con la voce di mia madre continuava a guardarmi attraverso la maschera piangente, «Ma che dici, sono tua figlia! Prima mi abbandoni e ora non mi riconosci? Lo sai quanto è stata dura senza di te? Papà dice che ci odiavi e sei andata in città da sola, non mi ha neanche lasciata venire a cercarti… Non capisco perché ci detestavi tanto, ma se non vuoi rispondermi allora torna nella tua fabbrica di seta.»
La donna è rimasta un attimo in silenzio. Quando ha ricominciato a parlare, la voce le tremava:
«Questo stesso giorno, sette anni fa, io sono stata salvata, esattamente come puoi esserlo anche tu. Una donna mi ha condotta qui e mi ha mostrato la bellezza del mondo, le vette delle montagne, la profondità del lago, l’azzurro del cielo oltre le nuvole, le pianure, lontano da qui. Mi ha dato un assaggio della libertà. E mi ha promesso che, un giorno, sarei potuta tornare da te per darti tutto questo. Oh, piccola Agnese» ha sospirato, «è solo per questo che me ne sono andata! Solo perché sapevo che, un giorno, sarei potuta tornare a liberarti!»
Lentamente, ha portato la mano alla maschera nera.
«Riesci a capire perché sono venuta da te in questi panni?»
Ho scosso la testa, confusa.
«Vestita così, con questa maschera, sono la Ciocia. Sono ciò che il mondo vuole che io sia: una moglie, una madre. E una serva.»
Lentamente, si è scoperta il volto. Era davvero mia madre, ma non era più la stessa: la sua pelle emanava una luce calda, dorata. Erano passati sette anni, ma sembrava più giovane. Gli occhi non erano quelli mori che ricordavo, con intorno occhiaie e rughe, ma brillavano di luce verde.
«Guardami, Agnese! Guarda la vera me. Io sono ancora e sarò sempre la tua mamma, ma sono anche questo. Prendi le mie mani, e vedrai ciò che ho visto io! Puoi essere mia figlia, mia sorella e mia amica.»
Stava piangendo a dirotto, lacrime di smeraldo. Ma allo stesso tempo sorrideva. Era bellissima. In quel momento ho sentito che era proprio lei e che mi voleva bene. Ho fatto un passo verso di lei e gridando «Mamma! Mamma!» ho lasciato che mi tenesse le mani.
Fu un turbine di immagini, suoni, profumi. Ci libravamo in volo sulla valle, sopra verdi pascoli e ghiacciai; poi giù, planando come cormorani, e ancora più a fondo, come lucci trote alici negli abissi del lago; poi la città, le persone, sapore di cibi mai provati, corpi in movimento, parole scritte da bambini e bambine col calamaio sulla carta. Poi, di nuovo, mia madre, a braccia aperte, insieme ad altre donne con la maschera da Ciocia.
«Di’ il mio nome, Agnese! Solo il mio nome, e anche tu potrai gettare via la maschera!»
Ma non ce l’ho fatta; era tutto troppo.
«No, no! Ti rivoglio com’eri! Rivoglio solo mia mamma!»
Quando sono tornata in paese ero di nuovo sola.
«Agnese, dov’eri? Ho parlato con tuo padre e… Perché stai piangendo?»
Sono rimasta a fissare Davidino, sconcertato, per un tempo che mi è sembrato infinito.
«Non è niente… Non mi è mai piaciuto sgozzare le galline.»
Poi, per quel giorno, non ci ho più pensato. Ho rimesso la mia maschera e ho continuato a ballare.