[MI179] La Bella Vita
Posted: Sun Oct 15, 2023 9:07 pm
Traccia 2, "In cucina"
(+boa)
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Quando chef Massimo aprì le porte della cucina e lo invitò a entrare, Servio percepì una scarica di adrenalina. La Bella Vita non era un semplice ristorante, era la realizzazione di tutti i desideri: i clienti venivano da lontano per gustare quei piatti, e molti aspiranti cuochi, anche stranieri, sognavano di poter lavorare tra quelle postazioni.
Servio, giovanissimo, ce l’aveva fatta. Solo come plongeur, ma da qualche parte doveva pur cominciare. Oggi lavapiatti, domani chissà.
– Non farmi pentire –, disse chef Massimo, e con una manata vigorosa lo spinse al suo posto. La cucina era in fermento per l’apertura. Cucinieri e aiutanti preparavano attrezzature, piani di cottura, strumenti, in un vociare indistinto e un clangore irrequieto. Massimo andò al centro della stanza, e si rivolse a tutti con un tono stentoreo.
– Ci chiamiamo La Bella Vita, e la vita non è bella senza del buon cibo. Se offrite ai nostri clienti una vita mediocre, o anche solo passabile, quella è la porta. Intesi?
– Sì, chef! – gridarono tutti all’unisono.
– Bene. Sara, Amir, Enrico: con me per il briefing.
Massimo uscì, seguito dai capicuoco. Servio, elettrizzato, saltellò sul posto e inspirò profondamente. I colleghi chiacchieravano, scherzavano, senza mostrare alcun segno di tensione. Dopo pochi minuti, i responsabili tornarono e raccolsero attorno a sé i commis e gli aiutanti. Enrico, capo entremetier, con un cenno chiamò anche Servio, che si avvicinò d’un balzo. Chiaro e perentorio come un sergente, Enrico spiegò a ciascuno compiti e postazioni. Infine disse:
– Servio, intanto che non ci sono clienti, aiuta Robi con le verdure. Occupati delle carote: pulitura, raschiatura, brunoise. Mi raccomando, precisione. Cubetti tutti uguali: non bastoncini, non julienne, non un misto di segatura e bulloni. Meglio poche, ma per bene. Altrimenti non vedrai altro che pentole incrostate per il resto del mese. Robi: tienilo d’occhio, correggilo se serve, ma lascia fare a lui. Su, presto.
Servio si fiondò alla dispensa, lavò le mani, e poi al tagliere insieme a Robi. Gliel’avrebbe fatta vedere! Robi già lavorava a una velocità straordinaria, e lui cercava di tenere il passo. Al di là del pass comparve maître Boris, che li salutò tutti con un cenno.
– Pronti per un altro servizio!
Giunsero i primi clienti, le voci dalla sala si mescolarono al sibilo sommesso dei fuochi, al secco tamburellare dei coltelli, al profondo gorgoglio dell’acqua che bolliva.
– Tavolo due: una tagliatella, un risotto. Poi un’entrecôte e un filetto.
Primi movimenti nelle postazioni. Enrico diede un’occhiata senza dir nulla. Servio cercò di concentrarsi solo sulle sue carote, nonostante l’eccitazione.
– Tavolo quattro: un tagliere e una tartare, due risotti, un salmone, un filetto.
– Tavolo dieci: una Caesar’s, uno spada.
– Tavolo nove: paccheri, due salmoni…
– Quanti paccheri? – gridò Massimo.
– Due.
Comande su comande. Si era appena all’inizio, ma c’era da aspettarselo. Tutti volevano La Bella Vita, tutti i coperti erano prenotati. Servio fu richiamato al lavello. Spiò mentre Enrico controllava la brunoise di carote: udì un grugnito d’approvazione, e seppe che aveva passato la sua prima prova.
Piatti, pentole, posate, coltelli, mestoli, e poi grattugie, colapasta, forchettoni, schiumarole, spatole, padelle… Più ne puliva, più ne arrivavano. Spugna, sapone, acqua; strofinare, strofinare, strofinare, sciacquare; posare sul carrello, ricominciare. Ancora, e ancora, e ancora: il servizio non sembrava terminare mai. Servio ci metteva tutta la sua foga, e trattava ogni macchia come un acerrimo nemico.
Quando la preparazione iniziò a rallentare, lo stesso chef si mise ad aiutare. Enrico richiamò Servio alle verdure e spostò Robi ai fornelli. Il ritmo era serrato, non c’era un attimo di respiro. Eppure era ciò che Servio aveva sempre desiderato. Il colore vivo di quegli asparagi mentre ne tagliava le punte, e quelle carote così croccanti mentre ne faceva dadini, il succo così profumato di quei pomodori mentre li incideva a concasser. Era veloce, imparava in fretta. Con le mani lavorava, con gli occhi osservava i colleghi, ne carpiva i trucchi, e riusciva perfino a indovinarne gli errori. Quelle tagliatelle non erano al dente, avrebbero dovuto scolarle prima. Occhio a quei gamberi, la bisque andava filtrata meglio. Perfino Suzanne, che era una commis impeccabile ai primi, talvolta sbagliava. Però chef Massimo era impareggiabile, e il suo tocco trasformava ogni buon piatto in perfezione pura. Comunicava i sapori attraverso il colore, l’aroma, l’impiattamento. I suoi erano capolavori, ed egli un artista al pari di Leonardo e Michelangelo.
“Un giorno sarò come lui” si disse Servio. “Poi prenoterò un tavolo qui, e pranzerò con una di quelle portate.”
Passava il tempo, ma il lavoro non mancava mai. Arrivò un nuovo plongeur, Giorgio. Robi passò alle carni, e Servio prese il posto fisso alle verdure. Per la gioia avrebbe voluto urlare. Non tardò molto a diventare commis, e a lavorare direttamente sotto Enrico. Le tagliatelle ai gamberi erano il suo piatto forte. Il giallo intenso della pasta, il rosso dei crostacei, il verde degli asparagi: preparava i colori allo chef, che sul pass li disponeva con la cura con cui avrebbe dipinto una Monna Lisa o una Cappella Sistina. Più volte aveva ricevuto complimenti dalla sala, e lo stesso Massimo gli aveva lanciato più di un cenno di approvazione.
Anche i colleghi lo rispettavano, nonostante la sua età. Ma a lui, più di tutti, interessava Suzanne, che era sempre sorridente e gentile, anche durante i momenti più frenetici.
– L’acqua già bolle.
– Grazie. La bisque?
– Vado a frullare ora. Tienimi d’occhio il riso.
Questi i loro scambi, per lo più. Eppure per Servio erano intimità. Cosa c’è di più profondo di una pietanza preparata insieme?
– Le animelle sono pronte?
– Non ancora, Robi dice due-tre minuti.
– E per il dieci?
– Aspettiamo. Suzi, tu abbassa il fuoco.
“Un giorno prenoterò questo dannato tavolo a La Bella Vita, insieme a Suzanne”, promise Servio a se stesso, “Niente pasto del personale, per una volta. Una vera cena gourmet, io e lei, a lume di candela con uno Chardonnay.”
Ma il servizio non sembrava terminare mai.
Poi, senza alcun preavviso, Suzanne lasciò il lavoro. Un altro commis, Pier, prese il suo posto, ma Servio sentì per la prima volta un vuoto che neppure i suoi piatti, i complimenti degli avventori o gli elogi dello chef sembravano colmare. Dopo qualche tempo, maître Boris annunciò:
– Tavolo uno, ordine speciale: due tagliatelle.
Servio sbirciò nella sala: era Suzanne, elegantissima, sorridente come sempre. Ma stava brindando con qualcun altro, e un anello brillava al suo dito. Non degnò la cucina neppure di uno sguardo.
Furono i due piatti più difficili di tutta la sua vita.
Il ristorante era chiuso da più di un’ora, il personale poco alla volta tornava a casa. Robi, Pier e Giorgio lo salutarono, e lo lasciarono solo. Servio era seduto, in silenzio, nell’angolo accanto alla porta. Il ronzio delle luci era l’unico suono che si poteva udire. Quando chef Massimo se n’era andato ed Enrico gli era subentrato, gli era stato offerto il posto da sous chef entremetier, che aveva accettato. Le sue tagliatelle erano diventate la specialità della casa. E ora che anche Enrico andava in pensione, la toque di chef sarebbe toccata a lui.
Giocherellava con quel cappello bianco che era stato il suo sogno. Ma adesso che l’aveva tra le mani si sentiva senza forze, e quasi non riusciva a porselo in capo.
Dopo tutto quel tempo ancora non era riuscito a prenotare un tavolo per il suo pranzo gourmet. Che senso aveva lavorare senza sosta, se poi solo gli altri potevano godersi La Bella Vita, mentre lui non faceva altro che servire e osservare?
Si alzò stancamente, guardò il suo riflesso nell’alluminio della cappa: il volto rugoso, affaticato, gli occhi incavati, le guance cadenti, i capelli grigi. Scosse la testa, appese la toque e aprì la porta. Abbassò l’interruttore: uno scatto secco, e nella cucina scese il buio.
(+boa)
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Quando chef Massimo aprì le porte della cucina e lo invitò a entrare, Servio percepì una scarica di adrenalina. La Bella Vita non era un semplice ristorante, era la realizzazione di tutti i desideri: i clienti venivano da lontano per gustare quei piatti, e molti aspiranti cuochi, anche stranieri, sognavano di poter lavorare tra quelle postazioni.
Servio, giovanissimo, ce l’aveva fatta. Solo come plongeur, ma da qualche parte doveva pur cominciare. Oggi lavapiatti, domani chissà.
– Non farmi pentire –, disse chef Massimo, e con una manata vigorosa lo spinse al suo posto. La cucina era in fermento per l’apertura. Cucinieri e aiutanti preparavano attrezzature, piani di cottura, strumenti, in un vociare indistinto e un clangore irrequieto. Massimo andò al centro della stanza, e si rivolse a tutti con un tono stentoreo.
– Ci chiamiamo La Bella Vita, e la vita non è bella senza del buon cibo. Se offrite ai nostri clienti una vita mediocre, o anche solo passabile, quella è la porta. Intesi?
– Sì, chef! – gridarono tutti all’unisono.
– Bene. Sara, Amir, Enrico: con me per il briefing.
Massimo uscì, seguito dai capicuoco. Servio, elettrizzato, saltellò sul posto e inspirò profondamente. I colleghi chiacchieravano, scherzavano, senza mostrare alcun segno di tensione. Dopo pochi minuti, i responsabili tornarono e raccolsero attorno a sé i commis e gli aiutanti. Enrico, capo entremetier, con un cenno chiamò anche Servio, che si avvicinò d’un balzo. Chiaro e perentorio come un sergente, Enrico spiegò a ciascuno compiti e postazioni. Infine disse:
– Servio, intanto che non ci sono clienti, aiuta Robi con le verdure. Occupati delle carote: pulitura, raschiatura, brunoise. Mi raccomando, precisione. Cubetti tutti uguali: non bastoncini, non julienne, non un misto di segatura e bulloni. Meglio poche, ma per bene. Altrimenti non vedrai altro che pentole incrostate per il resto del mese. Robi: tienilo d’occhio, correggilo se serve, ma lascia fare a lui. Su, presto.
Servio si fiondò alla dispensa, lavò le mani, e poi al tagliere insieme a Robi. Gliel’avrebbe fatta vedere! Robi già lavorava a una velocità straordinaria, e lui cercava di tenere il passo. Al di là del pass comparve maître Boris, che li salutò tutti con un cenno.
– Pronti per un altro servizio!
Giunsero i primi clienti, le voci dalla sala si mescolarono al sibilo sommesso dei fuochi, al secco tamburellare dei coltelli, al profondo gorgoglio dell’acqua che bolliva.
– Tavolo due: una tagliatella, un risotto. Poi un’entrecôte e un filetto.
Primi movimenti nelle postazioni. Enrico diede un’occhiata senza dir nulla. Servio cercò di concentrarsi solo sulle sue carote, nonostante l’eccitazione.
– Tavolo quattro: un tagliere e una tartare, due risotti, un salmone, un filetto.
– Tavolo dieci: una Caesar’s, uno spada.
– Tavolo nove: paccheri, due salmoni…
– Quanti paccheri? – gridò Massimo.
– Due.
Comande su comande. Si era appena all’inizio, ma c’era da aspettarselo. Tutti volevano La Bella Vita, tutti i coperti erano prenotati. Servio fu richiamato al lavello. Spiò mentre Enrico controllava la brunoise di carote: udì un grugnito d’approvazione, e seppe che aveva passato la sua prima prova.
Piatti, pentole, posate, coltelli, mestoli, e poi grattugie, colapasta, forchettoni, schiumarole, spatole, padelle… Più ne puliva, più ne arrivavano. Spugna, sapone, acqua; strofinare, strofinare, strofinare, sciacquare; posare sul carrello, ricominciare. Ancora, e ancora, e ancora: il servizio non sembrava terminare mai. Servio ci metteva tutta la sua foga, e trattava ogni macchia come un acerrimo nemico.
Quando la preparazione iniziò a rallentare, lo stesso chef si mise ad aiutare. Enrico richiamò Servio alle verdure e spostò Robi ai fornelli. Il ritmo era serrato, non c’era un attimo di respiro. Eppure era ciò che Servio aveva sempre desiderato. Il colore vivo di quegli asparagi mentre ne tagliava le punte, e quelle carote così croccanti mentre ne faceva dadini, il succo così profumato di quei pomodori mentre li incideva a concasser. Era veloce, imparava in fretta. Con le mani lavorava, con gli occhi osservava i colleghi, ne carpiva i trucchi, e riusciva perfino a indovinarne gli errori. Quelle tagliatelle non erano al dente, avrebbero dovuto scolarle prima. Occhio a quei gamberi, la bisque andava filtrata meglio. Perfino Suzanne, che era una commis impeccabile ai primi, talvolta sbagliava. Però chef Massimo era impareggiabile, e il suo tocco trasformava ogni buon piatto in perfezione pura. Comunicava i sapori attraverso il colore, l’aroma, l’impiattamento. I suoi erano capolavori, ed egli un artista al pari di Leonardo e Michelangelo.
“Un giorno sarò come lui” si disse Servio. “Poi prenoterò un tavolo qui, e pranzerò con una di quelle portate.”
Passava il tempo, ma il lavoro non mancava mai. Arrivò un nuovo plongeur, Giorgio. Robi passò alle carni, e Servio prese il posto fisso alle verdure. Per la gioia avrebbe voluto urlare. Non tardò molto a diventare commis, e a lavorare direttamente sotto Enrico. Le tagliatelle ai gamberi erano il suo piatto forte. Il giallo intenso della pasta, il rosso dei crostacei, il verde degli asparagi: preparava i colori allo chef, che sul pass li disponeva con la cura con cui avrebbe dipinto una Monna Lisa o una Cappella Sistina. Più volte aveva ricevuto complimenti dalla sala, e lo stesso Massimo gli aveva lanciato più di un cenno di approvazione.
Anche i colleghi lo rispettavano, nonostante la sua età. Ma a lui, più di tutti, interessava Suzanne, che era sempre sorridente e gentile, anche durante i momenti più frenetici.
– L’acqua già bolle.
– Grazie. La bisque?
– Vado a frullare ora. Tienimi d’occhio il riso.
Questi i loro scambi, per lo più. Eppure per Servio erano intimità. Cosa c’è di più profondo di una pietanza preparata insieme?
– Le animelle sono pronte?
– Non ancora, Robi dice due-tre minuti.
– E per il dieci?
– Aspettiamo. Suzi, tu abbassa il fuoco.
“Un giorno prenoterò questo dannato tavolo a La Bella Vita, insieme a Suzanne”, promise Servio a se stesso, “Niente pasto del personale, per una volta. Una vera cena gourmet, io e lei, a lume di candela con uno Chardonnay.”
Ma il servizio non sembrava terminare mai.
Poi, senza alcun preavviso, Suzanne lasciò il lavoro. Un altro commis, Pier, prese il suo posto, ma Servio sentì per la prima volta un vuoto che neppure i suoi piatti, i complimenti degli avventori o gli elogi dello chef sembravano colmare. Dopo qualche tempo, maître Boris annunciò:
– Tavolo uno, ordine speciale: due tagliatelle.
Servio sbirciò nella sala: era Suzanne, elegantissima, sorridente come sempre. Ma stava brindando con qualcun altro, e un anello brillava al suo dito. Non degnò la cucina neppure di uno sguardo.
Furono i due piatti più difficili di tutta la sua vita.
Il ristorante era chiuso da più di un’ora, il personale poco alla volta tornava a casa. Robi, Pier e Giorgio lo salutarono, e lo lasciarono solo. Servio era seduto, in silenzio, nell’angolo accanto alla porta. Il ronzio delle luci era l’unico suono che si poteva udire. Quando chef Massimo se n’era andato ed Enrico gli era subentrato, gli era stato offerto il posto da sous chef entremetier, che aveva accettato. Le sue tagliatelle erano diventate la specialità della casa. E ora che anche Enrico andava in pensione, la toque di chef sarebbe toccata a lui.
Giocherellava con quel cappello bianco che era stato il suo sogno. Ma adesso che l’aveva tra le mani si sentiva senza forze, e quasi non riusciva a porselo in capo.
Dopo tutto quel tempo ancora non era riuscito a prenotare un tavolo per il suo pranzo gourmet. Che senso aveva lavorare senza sosta, se poi solo gli altri potevano godersi La Bella Vita, mentre lui non faceva altro che servire e osservare?
Si alzò stancamente, guardò il suo riflesso nell’alluminio della cappa: il volto rugoso, affaticato, gli occhi incavati, le guance cadenti, i capelli grigi. Scosse la testa, appese la toque e aprì la porta. Abbassò l’interruttore: uno scatto secco, e nella cucina scese il buio.