Aldair II [MI178 fuori concorso]
Posted: Sun Sep 24, 2023 7:47 pm
Questo breve racconto nasce come uno dei possibili seguiti del racconto di @Edu, a cui appartengono le sezioni in corsivo.
Traccia di @Alberto Tosciri, n. 1, "L'attesa":
Fin da bambino un uomo si reca in spiaggia a guardare l’orizzonte del mare come se aspettasse l’arrivo di qualcosa, di qualcuno. È diventato vecchio, continua ad aspettare, incurante del tempo, delle preoccupazioni dei familiari, del sarcasmo della gente che lo considera un pazzo. Cosa attende e, soprattutto, quest’attesa finirà mai?
Traccia di @Alberto Tosciri, n. 1, "L'attesa":
Fin da bambino un uomo si reca in spiaggia a guardare l’orizzonte del mare come se aspettasse l’arrivo di qualcosa, di qualcuno. È diventato vecchio, continua ad aspettare, incurante del tempo, delle preoccupazioni dei familiari, del sarcasmo della gente che lo considera un pazzo. Cosa attende e, soprattutto, quest’attesa finirà mai?
(...) Roberto aprì il suo cuore a Dio. L’ombra lo raggiunse, lo sorvolò e l’oltrepassò. Non era l’angelo della morte. Era un enorme gonfiabile del pagliaccio della McDonald’s, che viaggiava verso la città e verso i desideri che Roberto non aveva mai voluto far propri.
Stupito, l’uomo volse il capo per seguirne il volo. Le labbra gli tremarono e lacrime calde gli bagnarono gli occhi. Alzò i pugni al cielo senza dire una parola, saltando sulle punte quasi a voler afferrare quel mostro volante.
Ma il pagliaccio non volava più: il vento fresco che veniva dal mare lo aveva dapprima sollevato in alto e poi schiacciato sulle dune. Qui, il mirto caro a Venere gli aveva bloccato la strada.
Roberto si asciugò gli occhi con le dita e corse alla vallecola. Sperava che il legno durissimo dell'arbusto non avesse bucato la gomma di cui era fatto l’obbrobrio: voleva strapparla lui stesso, infilzarla col coltellino che custodiva nella tasca dei calzoni, lacerarla coi denti, dare fuoco ai brandelli e vederli fondere in rivoli densi.
Il pagliaccio giaceva supino, con gli occhi fissi al cielo e la larga bocca rossa atteggiata a un eterno sorriso.
«Sembra Gwynplaine» mormorò tra sé Roberto, mentre cercava di spostare il pupazzo per trascinarlo sulla sabbia. Gli girò intorno, tagliando a fatica i rametti che gli si paravano all'altezza degli occhi; sollevò con delicatezza le braccia e le gambe, per accertarsi che non vi fossero strappi; tirò a sé il corpo intero, afferrandolo per gli scarponi rossi e gialli.
Proseguì così, un po' tirando, un po' avvicinandosi al tronco del gonfiabile per sollevarlo dagli arbusti, fino a che non riuscì a sistemarlo sulla sabbia pulita e ancora tiepida di sole. Era intatto: i mirti e i lentischi non ne avevano lacerato in alcun punto la gomma.
Roberto gli si parò davanti, a gambe divaricate, e fece scattare di nuovo il coltello. Lo osservò con attenzione in ogni sua parte: era davvero orribile. Cercò un aggettivo che lo definisse in modo preciso: di cattivo gusto? Troppo generico. Volgare, chiassoso, kitsch? Non erano sufficienti a rendere la mostruosità che quei colori – il rosso, il giallo, il bianco –, così belli in natura, assumevano su di lui.
Uno stridio di gabbiani lo distrasse, e Roberto guardò verso il mare.
La primavera si sentiva nel vento, che non spaccava più le labbra, e nella luce, trasparente come la pelle di un feto. Nuvole bianche, immense, ancora sostavano all'orizzonte, sedute sull'acqua. Il sole faceva brillare, oltre alle onde leggere, le minuscole pietruzze nascoste nella sabbia.
Roberto chiuse il coltello, lo spinse nella tasca e si sedette accanto al gonfiabile. «Ha davvero la bocca di Gwynplaine» pensò, osservandogli la faccia.
Era stata sua madre, ai tempi delle medie, a leggergli Hugo la sera dopo cena. Due, tre volte: sempre lo stesso romanzo. Si strinse le ginocchia tra le braccia e fissò il mare, che si increspava col vento in schiumette gorgoglianti, bianchissime.
Sua madre. Le mani ruvide come il tronco degli alberi, piene di spacchi minuti sui polpastrelli; tanto che raramente lo carezzava, per timore di infastidirlo. Aveva i capelli fini, di un biondo delicato, sempre legati sulla nuca, e le braccia forti, con le quali sollevava enormi ceste di panni da lavare, o piegare, o stirare. Lavorava nelle case degli altri come domestica a ore, ed era fiera di quante faccende riusciva a condurre a termine in una sola giornata.
Perché non l'aveva mai portata con sé, lì, sulla spiaggia, tra gli odori del mirto e del sale? Perché non le aveva mai detto che quel Dio che lei pregava davanti all'altare lui lo aveva incontrato tra le onde, in mezzo alle nuvole? Era il Dio che sempre sta, sempre rimane, che si mostra in molte forme e non è mai della medesima materia, ma sempre della medesima sostanza.
In mezzo ai garriti dei gabbiani, gli parve di sentire la voce di sua madre quando si emozionava leggendo l’arringa di Gwynplaine.
Un giorno verrà la società vera, diceva. Allora non ci saranno più signori, ci saranno creature libere. Non ci saranno più padroni, ci saranno padri. Niente più ignoranza, niente più uomini come bestie da soma, niente più servi, niente più re, solo luce!
E, alla parola “luce”, Roberto ricordava che tutte le volte la madre chiudeva il libro e rimaneva in silenzio, fissandolo negli occhi.
Gli tornarono alla mente, per la prima volta dopo tanto tempo, i lebbrosi braccati; i pescatori che mangiavano erba quando la pesca andava male; l’uomo nudo, morto di torture, col ventre ricoperto di pietre; i minatori che ingoiavano carbone per ingannare la fame; i bambini messi a dormire nelle buche fatte in terra. E, poi, Roberto ricordò la frase del lord, rivolta a Gwynplain:
«Che ci fa qui questo mostro?»
e si alzò in piedi, di scatto, fissando il volto del pagliaccio. Sentiva il sudore colargli lungo le tempie. Gli si srotolò nella mente la risposta di Gwynplain:
«Io sono l’Uomo. Io rido, che vuol dire: io piango. Io sono un simbolo. Io rappresento l’umanità così come l’hanno fatta i suoi padroni. L’uomo è mutilato. Quello che hanno fatto a me, l’hanno fatto al genere umano. Gli hanno deformato il diritto, la giustizia, la verità, la ragione, l’intelligenza, come a me gli occhi, le narici e le orecchie; come a me, gli hanno messo nel cuore una cloaca di collera e di dolore, e sulla faccia una maschera di allegria. Dove si era posato il dito di Dio, s’è appoggiato l’artiglio del re. Mostruosa sovrapposizione. Vescovi, pari e principi, il popolo è qualcuno che soffre intimamente e ride in superficie. Milord, vi dico che il popolo sono io».
Se in quel momento il gonfiabile si fosse messo seduto e avesse cominciato a conversare, Roberto non si sarebbe meravigliato, tanta era l’eccitazione che sentiva dentro. Lo spostò un poco col piede, solo per sincerarsi che era proprio un pupazzo, mentre con la mano si asciugava gli occhi. La seconda volta in un giorno. Sentì un vociare, e prima che si rendesse conto di chi fosse, fu circondato da un gruppo di ragazzini.
«Oh, quant’è bello! È tuo, signore?»
«È enorme! Ce lo vendi?»
«Tu quanto lo hai pagato? O l'hai fatto tutto da solo?»
«Se ce lo dai a noi, lo mettiamo nell’officina di mio zio.»
«E tu lo puoi venire a trovare quando ti pare!»
Sì, pensò Roberto, è tutto vostro. Ma io verrò a trovarlo, cosa credete.