[MI 177] Servizio in camera
Posted: Wed Jul 19, 2023 12:33 am
Traccia n. 3 - incipit
Commento
Seduta in poltrona con indosso soltanto un pareo variopinto, i capelli sciolti che le ricadevano sulle spalle, lei si girò lentamente verso di me.
Abbassai gli occhi sul vassoio che tenevo in mano.
– La sua colazione, signora.
Lei, senza dire una parola, tornò a guardare fuori dalla finestra, diede un ultimo tiro alla sigaretta che aveva tra le dita e la spense schiacciandola nel posacenere di vetro già colmo.
Rimasi fermo sulla soglia e attesi in allerta. Speriamo che questa volta non faccia la solita scena, pensai.
D’un tratto la sua voce ruvida.
– Beh, cosa fai lì impalato? Vieni qui, no?
In verità avrei preferito posare il vassoio e andarmene alla svelta, ma fui costretto ad avvicinarmi.
– Porta via il posacenere e metti qui il tavolino. Cos’è? Ti faccio così schifo?
Come si poteva rispondere a una domanda del genere? Cercai di nascondere la mia riluttanza rimanendo in silenzio ed eseguendo gli ordini con la massima celerità.
– Più vicino quel tavolino! Non vedi che non ci arrivo?
Mi dovetti chinare quasi su di lei. Il tessuto del pareo aveva una trama così rada da risultare trasparente. Copriva a malapena i seni flaccidi e l’addome prominente. Sentivo chiaramente il suo profumo: Chanel numero cinque che, nonostante fosse stato cosparso in abbondanza, non riusciva a coprire l’odore rancido delle sigarette.
Le bastò quell’attimo per allungare la mano e afferrarmi l’orecchio. Non fui abbastanza rapido a ritrarmi.
– Che c’è tesoro? Hai fretta di scappare via? Non senti che buon profumo?
Le sue unghie stavano tormentando il mio padiglione auricolare e non sarei riuscito a sfuggirle senza ferirmi.
– Signora, la prego. Mi sta facendo male.
Le afferrai il polso prima che mi costringesse ad appoggiare il viso su di lei. Nella mia posizione non potevo mettere in atto un comportamento violento nei confronti di una cliente dell’albergo, nemmeno per autodifesa, comunque alla fine riuscii a farla desistere e mollò la presa.
Feci un passo indietro per riconquistare una distanza di sicurezza, ma lei si era già girata dall’altra parte e aveva ripreso a osservare il mare oltre i vetri della finestra. Indeciso sul da farsi rimasi lì sull’attenti. Visto che lei continuava a ignorare la mia presenza diedi un piccolo colpo di tosse. Senza degnarmi di uno sguardo fece un cenno con la mano come per scacciare una mosca; segno che me ne potevo andare.
– Sul vassoio c’è il menù per il pranzo, se vuole ordinare il servizio in camera.
Nessuna risposta.
– Bene. Se permette io andrei.
Nessuna risposta.
Girai sui tacchi, ma appena misi la mano sulla maniglia della porta fui nuovamente raggiunto dalla sua voce roca.
– Il posacenere.
– Sì, certo. Il posacenere. Provvedo subito.
Presi il posacenere che avevo spostato dal tavolino, andai a svuotarlo nel bagno, lo sciacquai per bene e glielo riportai facendo attenzione a non cadere sotto le sue grinfie.
Questa volta, senza più chiedere il permesso, mi girai e guadagnai velocemente la porta.
Appena uscito sentii un tonfo alle mie spalle e rumore di verti che andavano in frantumi. Non me ne curai e procedetti verso la cucina.
Questa volta era stata peggio delle altre.
– Vien qui! Fa’me veder el to orecio. Co te ga capità?
Adelina con me è sempre stata molto premurosa, e in effetti l’orecchio mi doleva ancora.
– Niente. È quella matta della trecentoquindici.
– La vecia? E cossa vulea de ti?
– Beh, ti lascio immaginare. – Per non entrare in particolari feci solo un gesto inequivocabile con la mano.
– E ti?
– E io cosa? Stai scherzando? Ma l’hai vista?
Non compresi l’espressione di rimprovero con cui mi stava guardando.
– E ti, te ga visto tuti quei veci che me toca el cul quando che servo a tavola?
Fece un’alzata di spalle come per farmi capire che in fondo per lei non aveva una grande importanza.
– Ma che c’entra? È diverso.
– E perché sarebbe diverso? – Adelina aveva smesso di parlare in dialetto. Per lei il dialetto era la lingua degli affetti, e se ora mi stava rivolgendo quella domanda in italiano era segno che qualcosa nel mio modo di fare l’aveva contrariata. – Se un uomo tocca una donna va tutto bene, ma se una donna tocca un uomo invece…
Cercai di metterla sullo scherzo.
– Beh, se tu mi toccassi non avrei niente da ridire.
Lei mi guardò di traverso. Non sembrò aver gradito la battuta.
– Ma va in mona. – disse; che nel suo linguaggio voleva dire: “sei un cretino, ma ti voglio bene lo stesso”. Accompagnò la frase con il gesto di mandarmi a quel paese prima di girarsi e tornare alle sue faccende.
Erano circa le tre del pomeriggio quando mi chiamò il direttore.
– La signora Brunero non è scesa per pranzo né ha chiesto il servizio in camera. So che è una persona un po’ particolare, ma è una delle migliori clienti del nostro albergo. non vorrei che le fosse capitato qualcosa vista l’età. Vorresti per favore andare a controllare che tutto sia a posto? Con discrezione, mi raccomando.
A essere sinceri, “di mia volontà” avrei preferito evitare, ma si sa che quel “vorresti per favore” in realtà è un modo gentile di darti un ordine che non si può discutere, tanto più se si parla di una delle clienti più danarose dell’albergo.
Nel timore di trovarmi di nuovo in qualche situazione spiacevole chiesi ad Adelina di accompagnarmi. Salimmo al terzo piano. Bussai alla porta della trecentoquindici. Silenzio. Adelina provò a bussare in modo più energico.
– Signora. Mi scusi, dovrei rifare la stanza.
Ancora nulla.
Prese il passepartout e fece scattate la serratura. Aprì con cautela. Dietro la porta c’erano vetri rotti sul pavimento, poi alzammo lo sguardo.
– Oh Maria Vergine! – esclamò Adelina portandosi le mani al viso.
Il corpo informe della signora Brunero giaceva sul letto completamente nudo.
– Vai tu che a me fa impressione!
– Presto. Vai ad avvisare il direttore e digli di chiamare un’ambulanza.
Adelina corse via e io mi avvicinai al letto.
– Signora! Signora Brunero! – Provai a scuoterla. Nessuna reazione. Avvicinai l’orecchio al viso e mi sembrò di avvertire un lieve respiro, ma potevo anche sbagliarmi. Cercai di tastarle il collo con le dita come avevo visto fare, ma non ero abbastanza pratico per sentire se il cuore batteva ancora.
Mi misi le mani nei capelli sconfitto dal senso di impotenza. Guardai intorno per cercare almeno qualcosa con cui coprire quel corpo; le lenzuola e le coperte erano rimaste sotto di lei. A terra, accanto al pareo trovai diversi blister vuoti. Li raccolsi e li misi da parte. Presi il pareo e cercai di coprirla in qualche modo.
Ovunque c’erano mozziconi di sigaretta; alcuni avevano bruciato il copriletto. Passai istintivamente la mano per scrollarli via e in quel momento mi accorsi che sotto le sue dita c’era qualcos’altro. Era una vecchia fotografia.
In quel momento non ebbi modo di guardarla con attenzione; il direttore irruppe nella stanza insieme ad altri inservienti. Di lì a poco si sentì la sirena dell’ambulanza. Ormai non c’era più bisogno di me, sarei stato solo d’intralcio, così me ne andai senza rendermi conto di avere ancora quel pezzo di cartoncino in mano. Vidi passare velocemente la barella nella hall e l’ambulanza partire a sirene spiegate. Pensai che fosse un buon segno e che, nonostante tutto, avrei preferito che la signora Brunero fosse ancora viva.
Di lei non ho saputo più nulla, ma che importa; dall’hotel passano un sacco di persone e a nessuno interessa cosa ne sarà di loro dopo quel breve soggiorno. Ma quella sera, ritrovandomi in tasca quella fotografia rimasi sconvolto.
Era una donna bellissima, seduta sulla stessa poltrona della camera trecentoquindici. Si intravedeva il panorama del mare oltre i vetri della finestra. Indossava soltanto un pareo variopinto e i capelli sciolti le ricadevano sulle spalle. Sorrideva maliziosa, e sul tavolino accanto a lei c’era un vassoio con una ricca colazione.
Commento
Servizio in camera
Spinsi la porta ed entrai.Seduta in poltrona con indosso soltanto un pareo variopinto, i capelli sciolti che le ricadevano sulle spalle, lei si girò lentamente verso di me.
Abbassai gli occhi sul vassoio che tenevo in mano.
– La sua colazione, signora.
Lei, senza dire una parola, tornò a guardare fuori dalla finestra, diede un ultimo tiro alla sigaretta che aveva tra le dita e la spense schiacciandola nel posacenere di vetro già colmo.
Rimasi fermo sulla soglia e attesi in allerta. Speriamo che questa volta non faccia la solita scena, pensai.
D’un tratto la sua voce ruvida.
– Beh, cosa fai lì impalato? Vieni qui, no?
In verità avrei preferito posare il vassoio e andarmene alla svelta, ma fui costretto ad avvicinarmi.
– Porta via il posacenere e metti qui il tavolino. Cos’è? Ti faccio così schifo?
Come si poteva rispondere a una domanda del genere? Cercai di nascondere la mia riluttanza rimanendo in silenzio ed eseguendo gli ordini con la massima celerità.
– Più vicino quel tavolino! Non vedi che non ci arrivo?
Mi dovetti chinare quasi su di lei. Il tessuto del pareo aveva una trama così rada da risultare trasparente. Copriva a malapena i seni flaccidi e l’addome prominente. Sentivo chiaramente il suo profumo: Chanel numero cinque che, nonostante fosse stato cosparso in abbondanza, non riusciva a coprire l’odore rancido delle sigarette.
Le bastò quell’attimo per allungare la mano e afferrarmi l’orecchio. Non fui abbastanza rapido a ritrarmi.
– Che c’è tesoro? Hai fretta di scappare via? Non senti che buon profumo?
Le sue unghie stavano tormentando il mio padiglione auricolare e non sarei riuscito a sfuggirle senza ferirmi.
– Signora, la prego. Mi sta facendo male.
Le afferrai il polso prima che mi costringesse ad appoggiare il viso su di lei. Nella mia posizione non potevo mettere in atto un comportamento violento nei confronti di una cliente dell’albergo, nemmeno per autodifesa, comunque alla fine riuscii a farla desistere e mollò la presa.
Feci un passo indietro per riconquistare una distanza di sicurezza, ma lei si era già girata dall’altra parte e aveva ripreso a osservare il mare oltre i vetri della finestra. Indeciso sul da farsi rimasi lì sull’attenti. Visto che lei continuava a ignorare la mia presenza diedi un piccolo colpo di tosse. Senza degnarmi di uno sguardo fece un cenno con la mano come per scacciare una mosca; segno che me ne potevo andare.
– Sul vassoio c’è il menù per il pranzo, se vuole ordinare il servizio in camera.
Nessuna risposta.
– Bene. Se permette io andrei.
Nessuna risposta.
Girai sui tacchi, ma appena misi la mano sulla maniglia della porta fui nuovamente raggiunto dalla sua voce roca.
– Il posacenere.
– Sì, certo. Il posacenere. Provvedo subito.
Presi il posacenere che avevo spostato dal tavolino, andai a svuotarlo nel bagno, lo sciacquai per bene e glielo riportai facendo attenzione a non cadere sotto le sue grinfie.
Questa volta, senza più chiedere il permesso, mi girai e guadagnai velocemente la porta.
Appena uscito sentii un tonfo alle mie spalle e rumore di verti che andavano in frantumi. Non me ne curai e procedetti verso la cucina.
Questa volta era stata peggio delle altre.
– Vien qui! Fa’me veder el to orecio. Co te ga capità?
Adelina con me è sempre stata molto premurosa, e in effetti l’orecchio mi doleva ancora.
– Niente. È quella matta della trecentoquindici.
– La vecia? E cossa vulea de ti?
– Beh, ti lascio immaginare. – Per non entrare in particolari feci solo un gesto inequivocabile con la mano.
– E ti?
– E io cosa? Stai scherzando? Ma l’hai vista?
Non compresi l’espressione di rimprovero con cui mi stava guardando.
– E ti, te ga visto tuti quei veci che me toca el cul quando che servo a tavola?
Fece un’alzata di spalle come per farmi capire che in fondo per lei non aveva una grande importanza.
– Ma che c’entra? È diverso.
– E perché sarebbe diverso? – Adelina aveva smesso di parlare in dialetto. Per lei il dialetto era la lingua degli affetti, e se ora mi stava rivolgendo quella domanda in italiano era segno che qualcosa nel mio modo di fare l’aveva contrariata. – Se un uomo tocca una donna va tutto bene, ma se una donna tocca un uomo invece…
Cercai di metterla sullo scherzo.
– Beh, se tu mi toccassi non avrei niente da ridire.
Lei mi guardò di traverso. Non sembrò aver gradito la battuta.
– Ma va in mona. – disse; che nel suo linguaggio voleva dire: “sei un cretino, ma ti voglio bene lo stesso”. Accompagnò la frase con il gesto di mandarmi a quel paese prima di girarsi e tornare alle sue faccende.
Erano circa le tre del pomeriggio quando mi chiamò il direttore.
– La signora Brunero non è scesa per pranzo né ha chiesto il servizio in camera. So che è una persona un po’ particolare, ma è una delle migliori clienti del nostro albergo. non vorrei che le fosse capitato qualcosa vista l’età. Vorresti per favore andare a controllare che tutto sia a posto? Con discrezione, mi raccomando.
A essere sinceri, “di mia volontà” avrei preferito evitare, ma si sa che quel “vorresti per favore” in realtà è un modo gentile di darti un ordine che non si può discutere, tanto più se si parla di una delle clienti più danarose dell’albergo.
Nel timore di trovarmi di nuovo in qualche situazione spiacevole chiesi ad Adelina di accompagnarmi. Salimmo al terzo piano. Bussai alla porta della trecentoquindici. Silenzio. Adelina provò a bussare in modo più energico.
– Signora. Mi scusi, dovrei rifare la stanza.
Ancora nulla.
Prese il passepartout e fece scattate la serratura. Aprì con cautela. Dietro la porta c’erano vetri rotti sul pavimento, poi alzammo lo sguardo.
– Oh Maria Vergine! – esclamò Adelina portandosi le mani al viso.
Il corpo informe della signora Brunero giaceva sul letto completamente nudo.
– Vai tu che a me fa impressione!
– Presto. Vai ad avvisare il direttore e digli di chiamare un’ambulanza.
Adelina corse via e io mi avvicinai al letto.
– Signora! Signora Brunero! – Provai a scuoterla. Nessuna reazione. Avvicinai l’orecchio al viso e mi sembrò di avvertire un lieve respiro, ma potevo anche sbagliarmi. Cercai di tastarle il collo con le dita come avevo visto fare, ma non ero abbastanza pratico per sentire se il cuore batteva ancora.
Mi misi le mani nei capelli sconfitto dal senso di impotenza. Guardai intorno per cercare almeno qualcosa con cui coprire quel corpo; le lenzuola e le coperte erano rimaste sotto di lei. A terra, accanto al pareo trovai diversi blister vuoti. Li raccolsi e li misi da parte. Presi il pareo e cercai di coprirla in qualche modo.
Ovunque c’erano mozziconi di sigaretta; alcuni avevano bruciato il copriletto. Passai istintivamente la mano per scrollarli via e in quel momento mi accorsi che sotto le sue dita c’era qualcos’altro. Era una vecchia fotografia.
In quel momento non ebbi modo di guardarla con attenzione; il direttore irruppe nella stanza insieme ad altri inservienti. Di lì a poco si sentì la sirena dell’ambulanza. Ormai non c’era più bisogno di me, sarei stato solo d’intralcio, così me ne andai senza rendermi conto di avere ancora quel pezzo di cartoncino in mano. Vidi passare velocemente la barella nella hall e l’ambulanza partire a sirene spiegate. Pensai che fosse un buon segno e che, nonostante tutto, avrei preferito che la signora Brunero fosse ancora viva.
Di lei non ho saputo più nulla, ma che importa; dall’hotel passano un sacco di persone e a nessuno interessa cosa ne sarà di loro dopo quel breve soggiorno. Ma quella sera, ritrovandomi in tasca quella fotografia rimasi sconvolto.
Era una donna bellissima, seduta sulla stessa poltrona della camera trecentoquindici. Si intravedeva il panorama del mare oltre i vetri della finestra. Indossava soltanto un pareo variopinto e i capelli sciolti le ricadevano sulle spalle. Sorrideva maliziosa, e sul tavolino accanto a lei c’era un vassoio con una ricca colazione.