Don Lino
Posted: Sat Jan 09, 2021 10:06 am
(Tratto dal WD, https://www.writersdream.org/forum/foru ... ent-809683).
In paese lo chiamavano Don Lino. Nessuno sapeva il suo vero nome, ma tutti sapevano che era una persona importante e che possedeva terre sconfinate.
Con una camicia a quadretti, un panciotto grigio pieno di tasche e un paio di pantaloni marroni, si aggirava per il podere, il dorso curvato in avanti, e il sole gli fiammeggiava sempre sopra. Quando compariva sui dossi della strada, la sua figura pingue si stagliava nell’azzurro del cielo, talvolta annerando, e a terra si proiettava l’ombra d’un cappello. Un cappello bianco, a tesa larga, roso lungo i fianchi dalla calura estiva, che Don Lino era solito calzare a coprire la calvizie.
Si era costruito una corte al centro del suo possedimento, che sulla bocca dei paesani passava per “feudo” e lui per “Re”. I campieri armati, di ritorno dal lavoro in groppa a muli, si fermavano dinanzi all’entrata della corte, là dove gli antenati avevano piazzato un abbeveratoio rifornito da tante fontanelle in fila e sempre ben idratato. I muli, invece, non lo erano; anzi, tutti ischeletriti mulinavano nell’acqua lingue arse dalla sete per ristorarsi dopo un interminabile scalpiccìo, fatto di sentieri afosi che serpeggiavano tra campi e poggi ricoperti di erbaccia rinseccolita. All’interno della corte, c’erano depositi per il raccolto e case dei mezzadri; e gli alloggi dell’unica figlia del proprietario, una femmina di nome Immacolata, e della moglie, di nome Crocifissa; e altri locali di vario uso e quartieri per gli agricoltori più facoltosi non a mezzadria.
Lui, il Re, gli piaceva di bazzicare il feudo a ogni ora del giorno. Sorvegliava che tutto fosse perfetto e salutava i contadini che gli sorridevano quando lo vedevano passare per le stradine di pietrisco.
«Buon giorno, Re.»
«Oggi fa caldo.»
«La semina sta andando bene.»
Alcuni bambini ruzzavano sui pendii abbrustoliti. Don Lino li osservava da lontano e un sorriso gli scappava sotto la falda del cappello, sulle guance incartapecorite per lungo lavorare, arrugginite di estate e di fatica. Correva tra i bambini una fanciulla e cantava, con la chioma ornata di fiori violetti.
Arrivò il tempo della vendemmia: le viti cariche si inchinavano alla terra. Accorrevano contadini da ogni dove e affollavano i solchi e le trazzere con cesti per l’uva variopinti. I piccoli col nasino all’insù dicevano: «Guarda lassù, mamma», poi indicavano due falchi, che danzavano nel cielo impazziti al lezzo degli acini calpestati tra le zolle.
A Roccapipa, Don Lino era descritto come un uomo probo. D’altronde, aveva dato lavoro a mezzo paese, aveva impiegato tutti nel proprio feudo, gli dava una paga decente a fine mese. Quando il suo bisnonno era vivo, trovarono un giacimento d’acqua nel feudo e là ci costruirono un pozzo. Don Lino poi ereditò tutto. Così chiunque volesse acqua per i propri campi o per le attività cittadine doveva chiedere la sua benevolenza col cappello in mano. E col cappello in mano bisognava chiedergli il permesso per qualsiasi cosa. Don Lino amministrava la vita di ciascuno con la saggezza del buon padre di famiglia: decideva chi doveva vivere, sposarsi, far figli e festa; persino chi Iddio aveva condannato a crepare di siccità, sapeva.
La domenica era giorno di riposo al podere. Tanti mezzadri rifiatavano al fresco, se lo trovavano; altri no. I contadini più ricchi scendevano a Roccapipa per stiparsi nella chiesa della piazza centrale e ascoltare in piedi la messa e pregare la madonna piangente, intanto che un venticello trasportava il suono arroventato d’un marranzano, a mezzogiorno. Quel suono echeggiava fin presso all’olivo cui Don Lino si era appoggiato, esausto dopo una passeggiata tra i campi, seduto con le gambe incrociate e la schiena stesa su di un tronco, con la faccia rivolta a levante. Il grecale gli solleticava gli zigomi rugosi, si incuneava tra le fronde e le faceva oscillare. L’oliveto vibrava di vita. Un cappello bianco prendeva aria e ombra, di fianco. D’un tratto un ragazzo s’appressò a Don Lino.
«Siediti qui, accanto a me» gli disse.
Il ragazzo s’accovacciò a terra, poi incrociò le gambe.
«Ho deciso di sposarmi» disse, mentre reclinava la schiena sullo stesso tronco di Don Lino, ma dalla parte opposta.
«Quanti anni hai, giovanotto?»
«Venti.»
«Come ti chiami?»
«Rosario.»
«E vuoi prender moglie?»
«Sì. Mi sono innamorato di una ragazza.»
«Di chi?»
«Di vostra figlia.»
«Ha quindici anni.»
«Ci vediamo di nascosto la domenica sotto il cipresso, quando tramonta il sole e il rosso sale da dietro l’orizzonte.»
«Dimmi, hai terra?»
«No, lavoro nella vostra proprietà. In gennaio raccolgo i carciofi e in settembre sudo nella vigna.»
«Devi essere un bravo ragazzo da quel che dici, ma non basta.»
«Vi saluto, Don Lino.»
Rosario guizzò in piedi e corse via senza guardarlo. Non lo aveva guardato neppure mentre gli parlava.
Don Lino allora si tirò su a fatica, raccolse il cappello e se lo rincalcò sulla testa di modo che la fronte fosse tutta coperta, mentre un ghigno s’affacciava sulle guance e gli occhi neri gli si socchiudevano. Non spirava più vento, ma un suono imponente di marranzano cresceva.
Il sole asciugava tutto nel feudo, finanche parole e sentimenti.
Le ginocchia di una donna e quelle di un uomo si adagiarono accosto a un mucchio di pietre arrotondate dello stesso colore della terra bruciata che le circondava. Il mucchio straripava di lacrime e la donna, con un fazzoletto nero sui capelli, di tanto in tanto alzava le braccia al cielo in atto di implorazione. «È il secondo figlio che riposa senza sepoltura, mio Signore Messia». Con la testa fra le mani l’uomo osservava due campieri; i quali andavano via su muli smunti, con gli archibugi fumanti tra le mani e il berretto abbassato sul davanti. Li inseguì per pochi passi, imprecando, ma poi tornò indietro ad asciugare le lacrime della donna prostrata sulle pietre. La terra era intrisa di tristezza.
Sotto il cipresso quella sera non vi giunse alcuno. Il rosso montava e nessun cuore batteva.
«L’hanno trovato morto» urlava la piazza del paese, con la chiesa grande.
«Rosario è morto nella terra del Re.»
I campieri si ritiravano barcollando sulle loro cavalcature. Dicevano che quel ragazzo era morto per il morso di un insetto.
La folla gridava: «Viva il Re!».
Anche gli insetti sapevano di Don Lino.
In paese lo chiamavano Don Lino. Nessuno sapeva il suo vero nome, ma tutti sapevano che era una persona importante e che possedeva terre sconfinate.
Con una camicia a quadretti, un panciotto grigio pieno di tasche e un paio di pantaloni marroni, si aggirava per il podere, il dorso curvato in avanti, e il sole gli fiammeggiava sempre sopra. Quando compariva sui dossi della strada, la sua figura pingue si stagliava nell’azzurro del cielo, talvolta annerando, e a terra si proiettava l’ombra d’un cappello. Un cappello bianco, a tesa larga, roso lungo i fianchi dalla calura estiva, che Don Lino era solito calzare a coprire la calvizie.
Si era costruito una corte al centro del suo possedimento, che sulla bocca dei paesani passava per “feudo” e lui per “Re”. I campieri armati, di ritorno dal lavoro in groppa a muli, si fermavano dinanzi all’entrata della corte, là dove gli antenati avevano piazzato un abbeveratoio rifornito da tante fontanelle in fila e sempre ben idratato. I muli, invece, non lo erano; anzi, tutti ischeletriti mulinavano nell’acqua lingue arse dalla sete per ristorarsi dopo un interminabile scalpiccìo, fatto di sentieri afosi che serpeggiavano tra campi e poggi ricoperti di erbaccia rinseccolita. All’interno della corte, c’erano depositi per il raccolto e case dei mezzadri; e gli alloggi dell’unica figlia del proprietario, una femmina di nome Immacolata, e della moglie, di nome Crocifissa; e altri locali di vario uso e quartieri per gli agricoltori più facoltosi non a mezzadria.
Lui, il Re, gli piaceva di bazzicare il feudo a ogni ora del giorno. Sorvegliava che tutto fosse perfetto e salutava i contadini che gli sorridevano quando lo vedevano passare per le stradine di pietrisco.
«Buon giorno, Re.»
«Oggi fa caldo.»
«La semina sta andando bene.»
Alcuni bambini ruzzavano sui pendii abbrustoliti. Don Lino li osservava da lontano e un sorriso gli scappava sotto la falda del cappello, sulle guance incartapecorite per lungo lavorare, arrugginite di estate e di fatica. Correva tra i bambini una fanciulla e cantava, con la chioma ornata di fiori violetti.
Arrivò il tempo della vendemmia: le viti cariche si inchinavano alla terra. Accorrevano contadini da ogni dove e affollavano i solchi e le trazzere con cesti per l’uva variopinti. I piccoli col nasino all’insù dicevano: «Guarda lassù, mamma», poi indicavano due falchi, che danzavano nel cielo impazziti al lezzo degli acini calpestati tra le zolle.
A Roccapipa, Don Lino era descritto come un uomo probo. D’altronde, aveva dato lavoro a mezzo paese, aveva impiegato tutti nel proprio feudo, gli dava una paga decente a fine mese. Quando il suo bisnonno era vivo, trovarono un giacimento d’acqua nel feudo e là ci costruirono un pozzo. Don Lino poi ereditò tutto. Così chiunque volesse acqua per i propri campi o per le attività cittadine doveva chiedere la sua benevolenza col cappello in mano. E col cappello in mano bisognava chiedergli il permesso per qualsiasi cosa. Don Lino amministrava la vita di ciascuno con la saggezza del buon padre di famiglia: decideva chi doveva vivere, sposarsi, far figli e festa; persino chi Iddio aveva condannato a crepare di siccità, sapeva.
La domenica era giorno di riposo al podere. Tanti mezzadri rifiatavano al fresco, se lo trovavano; altri no. I contadini più ricchi scendevano a Roccapipa per stiparsi nella chiesa della piazza centrale e ascoltare in piedi la messa e pregare la madonna piangente, intanto che un venticello trasportava il suono arroventato d’un marranzano, a mezzogiorno. Quel suono echeggiava fin presso all’olivo cui Don Lino si era appoggiato, esausto dopo una passeggiata tra i campi, seduto con le gambe incrociate e la schiena stesa su di un tronco, con la faccia rivolta a levante. Il grecale gli solleticava gli zigomi rugosi, si incuneava tra le fronde e le faceva oscillare. L’oliveto vibrava di vita. Un cappello bianco prendeva aria e ombra, di fianco. D’un tratto un ragazzo s’appressò a Don Lino.
«Siediti qui, accanto a me» gli disse.
Il ragazzo s’accovacciò a terra, poi incrociò le gambe.
«Ho deciso di sposarmi» disse, mentre reclinava la schiena sullo stesso tronco di Don Lino, ma dalla parte opposta.
«Quanti anni hai, giovanotto?»
«Venti.»
«Come ti chiami?»
«Rosario.»
«E vuoi prender moglie?»
«Sì. Mi sono innamorato di una ragazza.»
«Di chi?»
«Di vostra figlia.»
«Ha quindici anni.»
«Ci vediamo di nascosto la domenica sotto il cipresso, quando tramonta il sole e il rosso sale da dietro l’orizzonte.»
«Dimmi, hai terra?»
«No, lavoro nella vostra proprietà. In gennaio raccolgo i carciofi e in settembre sudo nella vigna.»
«Devi essere un bravo ragazzo da quel che dici, ma non basta.»
«Vi saluto, Don Lino.»
Rosario guizzò in piedi e corse via senza guardarlo. Non lo aveva guardato neppure mentre gli parlava.
Don Lino allora si tirò su a fatica, raccolse il cappello e se lo rincalcò sulla testa di modo che la fronte fosse tutta coperta, mentre un ghigno s’affacciava sulle guance e gli occhi neri gli si socchiudevano. Non spirava più vento, ma un suono imponente di marranzano cresceva.
Il sole asciugava tutto nel feudo, finanche parole e sentimenti.
Le ginocchia di una donna e quelle di un uomo si adagiarono accosto a un mucchio di pietre arrotondate dello stesso colore della terra bruciata che le circondava. Il mucchio straripava di lacrime e la donna, con un fazzoletto nero sui capelli, di tanto in tanto alzava le braccia al cielo in atto di implorazione. «È il secondo figlio che riposa senza sepoltura, mio Signore Messia». Con la testa fra le mani l’uomo osservava due campieri; i quali andavano via su muli smunti, con gli archibugi fumanti tra le mani e il berretto abbassato sul davanti. Li inseguì per pochi passi, imprecando, ma poi tornò indietro ad asciugare le lacrime della donna prostrata sulle pietre. La terra era intrisa di tristezza.
Sotto il cipresso quella sera non vi giunse alcuno. Il rosso montava e nessun cuore batteva.
«L’hanno trovato morto» urlava la piazza del paese, con la chiesa grande.
«Rosario è morto nella terra del Re.»
I campieri si ritiravano barcollando sulle loro cavalcature. Dicevano che quel ragazzo era morto per il morso di un insetto.
La folla gridava: «Viva il Re!».
Anche gli insetti sapevano di Don Lino.