Don Lino

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(Tratto dal WD, https://www.writersdream.org/forum/foru ... ent-809683).



In paese lo chiamavano Don Lino. Nessuno sapeva il suo vero nome, ma tutti sapevano che era una persona importante e che possedeva terre sconfinate.

Con una camicia a quadretti, un panciotto grigio pieno di tasche e un paio di pantaloni marroni, si aggirava per il podere, il dorso curvato in avanti, e il sole gli fiammeggiava sempre sopra. Quando compariva sui dossi della strada, la sua figura pingue si stagliava nell’azzurro del cielo, talvolta annerando, e a terra si proiettava l’ombra d’un cappello. Un cappello bianco, a tesa larga, roso lungo i fianchi dalla calura estiva, che Don Lino era solito calzare a coprire la calvizie.

Si era costruito una corte al centro del suo possedimento, che sulla bocca dei paesani passava per “feudo” e lui per “Re”. I campieri armati, di ritorno dal lavoro in groppa a muli, si fermavano dinanzi all’entrata della corte, là dove gli antenati avevano piazzato un abbeveratoio rifornito da tante fontanelle in fila e sempre ben idratato. I muli, invece, non lo erano; anzi, tutti ischeletriti mulinavano nell’acqua lingue arse dalla sete per ristorarsi dopo un interminabile scalpiccìo, fatto di sentieri afosi che serpeggiavano tra campi e poggi ricoperti di erbaccia rinseccolita. All’interno della corte, c’erano depositi per il raccolto e case dei mezzadri; e gli alloggi dell’unica figlia del proprietario, una femmina di nome Immacolata, e della moglie, di nome Crocifissa; e altri locali di vario uso e quartieri per gli agricoltori più facoltosi non a mezzadria.

Lui, il Re, gli piaceva di bazzicare il feudo a ogni ora del giorno. Sorvegliava che tutto fosse perfetto e salutava i contadini che gli sorridevano quando lo vedevano passare per le stradine di pietrisco.
«Buon giorno, Re.»
«Oggi fa caldo.»
«La semina sta andando bene.»

Alcuni bambini ruzzavano sui pendii abbrustoliti. Don Lino li osservava da lontano e un sorriso gli scappava sotto la falda del cappello, sulle guance incartapecorite per lungo lavorare, arrugginite di estate e di fatica. Correva tra i bambini una fanciulla e cantava, con la chioma ornata di fiori violetti.

Arrivò il tempo della vendemmia: le viti cariche si inchinavano alla terra. Accorrevano contadini da ogni dove e affollavano i solchi e le trazzere con cesti per l’uva variopinti. I piccoli col nasino all’insù dicevano: «Guarda lassù, mamma», poi indicavano due falchi, che danzavano nel cielo impazziti al lezzo degli acini calpestati tra le zolle.

A Roccapipa, Don Lino era descritto come un uomo probo. D’altronde, aveva dato lavoro a mezzo paese, aveva impiegato tutti nel proprio feudo, gli dava una paga decente a fine mese. Quando il suo bisnonno era vivo, trovarono un giacimento d’acqua nel feudo e là ci costruirono un pozzo. Don Lino poi ereditò tutto. Così chiunque volesse acqua per i propri campi o per le attività cittadine doveva chiedere la sua benevolenza col cappello in mano. E col cappello in mano bisognava chiedergli il permesso per qualsiasi cosa. Don Lino amministrava la vita di ciascuno con la saggezza del buon padre di famiglia: decideva chi doveva vivere, sposarsi, far figli e festa; persino chi Iddio aveva condannato a crepare di siccità, sapeva.

La domenica era giorno di riposo al podere. Tanti mezzadri rifiatavano al fresco, se lo trovavano; altri no. I contadini più ricchi scendevano a Roccapipa per stiparsi nella chiesa della piazza centrale e ascoltare in piedi la messa e pregare la madonna piangente, intanto che un venticello trasportava il suono arroventato d’un marranzano, a mezzogiorno. Quel suono echeggiava fin presso all’olivo cui Don Lino si era appoggiato, esausto dopo una passeggiata tra i campi, seduto con le gambe incrociate e la schiena stesa su di un tronco, con la faccia rivolta a levante. Il grecale gli solleticava gli zigomi rugosi, si incuneava tra le fronde e le faceva oscillare. L’oliveto vibrava di vita. Un cappello bianco prendeva aria e ombra, di fianco. D’un tratto un ragazzo s’appressò a Don Lino.
«Siediti qui, accanto a me» gli disse.
Il ragazzo s’accovacciò a terra, poi incrociò le gambe.
«Ho deciso di sposarmi» disse, mentre reclinava la schiena sullo stesso tronco di Don Lino, ma dalla parte opposta.
«Quanti anni hai, giovanotto?»
«Venti.»
«Come ti chiami?»
«Rosario.»
«E vuoi prender moglie?»
«Sì. Mi sono innamorato di una ragazza.»
«Di chi?»
«Di vostra figlia.»
«Ha quindici anni.»
«Ci vediamo di nascosto la domenica sotto il cipresso, quando tramonta il sole e il rosso sale da dietro l’orizzonte.»
«Dimmi, hai terra?»
«No, lavoro nella vostra proprietà. In gennaio raccolgo i carciofi e in settembre sudo nella vigna.»
«Devi essere un bravo ragazzo da quel che dici, ma non basta.»
«Vi saluto, Don Lino.»
Rosario guizzò in piedi e corse via senza guardarlo. Non lo aveva guardato neppure mentre gli parlava.
Don Lino allora si tirò su a fatica, raccolse il cappello e se lo rincalcò sulla testa di modo che la fronte fosse tutta coperta, mentre un ghigno s’affacciava sulle guance e gli occhi neri gli si socchiudevano. Non spirava più vento, ma un suono imponente di marranzano cresceva.

Il sole asciugava tutto nel feudo, finanche parole e sentimenti.

Le ginocchia di una donna e quelle di un uomo si adagiarono accosto a un mucchio di pietre arrotondate dello stesso colore della terra bruciata che le circondava. Il mucchio straripava di lacrime e la donna, con un fazzoletto nero sui capelli, di tanto in tanto alzava le braccia al cielo in atto di implorazione. «È il secondo figlio che riposa senza sepoltura, mio Signore Messia». Con la testa fra le mani l’uomo osservava due campieri; i quali andavano via su muli smunti, con gli archibugi fumanti tra le mani e il berretto abbassato sul davanti. Li inseguì per pochi passi, imprecando, ma poi tornò indietro ad asciugare le lacrime della donna prostrata sulle pietre. La terra era intrisa di tristezza.

Sotto il cipresso quella sera non vi giunse alcuno. Il rosso montava e nessun cuore batteva.

«L’hanno trovato morto» urlava la piazza del paese, con la chiesa grande.
«Rosario è morto nella terra del Re.»
I campieri si ritiravano barcollando sulle loro cavalcature. Dicevano che quel ragazzo era morto per il morso di un insetto.
La folla gridava: «Viva il Re!».
Anche gli insetti sapevano di Don Lino.
Il Sommo Misantropo

Re: Don Lino

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Sul WD non lo avevo letto, quindi ti commento qui. A me questo racconto è piaciuto moltissimo, ho apprezzato il linguaggio non convenzionale, arricchito dalla contaminazione con il siciliano. Ad esempio tu scrivi "gli alloggi dell’unica figlia del proprietario, una femmina di nome Immacolata": se mai dovessi cambiare quel "femmina" in un più convenzionale "ragazza" si perderebbe un gran parte del senso. Alla stessa maniera "sudare nella vigna" è molto più che "raccogliere l'uva".
Nel WD c'è l'uso di sottolineare i presunti errori con la matita blu e quindi mi schiero: gli anacoluti e le ripetizioni ci stanno tutti perché servono a dosare l'enfasi. Se si eliminassero, ne risulterebbe una storia piatta, un temino scolastico. L'italiano che nasce da una terra riarsa deve per forza prosciugare la palude delle regole del bon ton e delle mode letterarie.
Poche cose invece non mi convincono. Una è che Don Lino fosse chiamato "il Re" in una terra in cui, , dal tempo di Carlo d'Angiò ad oggi, difficilmente si videro re. Feudi invece ce n'erano, e i baroni e i principi che li possedevano erano assai più temuti del re lontano. Mi ha pure sorpreso l'ingenuità temeraria mostrata da Rosario quando dice a Don Lino di incontrarsi con Immacolata.
A me il «Viva il Re!» finale ha ricordato il «Viva lo 'mperadore grazie a Deo!» di Cielo d'Alcamo, ma non so se fosse nelle tue intenzioni citarlo.
Ancora complimenti, @dyskolos , per questa bella storia!

Re: Don Lino

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zio rubone ha scritto: mer feb 03, 2021 12:34 pm A me il «Viva il Re!» finale ha ricordato il «Viva lo 'mperadore grazie a Deo!» di Cielo d'Alcamo, ma non so se fosse nelle tue intenzioni citarlo.
Ancora complimenti, @dyskolos , per questa bella storia!

Grazie per il giudizio positivo, per i complimenti e per avermi letto, caro @zio rubone!

Mi fa molto piacere il riferimento al "rosa fresca aulentissima" di Cielo d'Alcamo. Alcamo è a pochi chilometri da casa mia. Il liceo che ho frequentato si chiamava proprio Liceo "Cielo d'Alcamo" (ad Alcamo, naturally). Fra l'altro, come sai, quel contrasto è pure citato nell'inno ufficiale della Sicilia (nel verso "Sicilia, terra mia, tu « rosa aulentissima » nel tempo").
Ti ringrazio anche per il riferimento a Carlo d'Angiò, il quale, come sai, nel 1266 invase la Sicilia dopo aver ucciso in battaglia il re Manfredi, figlio di Federico II. A quel punto cominciò la mala signuría, che poi portò ai Vespri Siciliani nel 1282, anno in cui, come ho ricordato nel WD, Messina stoicamente resistette per tre mesi all'assedio dei Francesi.
Qui c'è anche un aspetto letterario. Nel 1266, morto Manfredi, si sciolse definitivamente la Scuola Poetica Siciliana (nome messo in seguito da D. Alighieri nel De vulgari eloquentia). I componimenti poetici della scuola furono condotti dai poeti siculo-toscani in Toscana e a Bologna, poi furono tradotti in Toscano-Fiorentino (l'Italiano del tempo) e dati per opere siciliane. Tutte tranne una, Pir meu cori alligrari (lo leggo sempre, lo adoro :) ), del tuo concittadino Stefano Protonotaro.
La traduzione riguardò anche il contrasto di Cielo. Il verso che citi, "Viva lo 'mperadore grazie a Deo!", fa rima con quello successivo, "Intendi, bella, quel che ti dico eo?". Ebbene, né "eo" né "deo" rispettano il vocalismo siciliano, ma entrambi rispettano il vocalismo toscano, oggi italiano. A dirla tutta, neppure "quel che ti dico" è proprio siculo.
Poi, un grazie speciale per aver notato l'anacoluto senza criticarlo, visto che i commenti precedenti lo bollano come errore grave. Qui la scelta, come ho già scritto sul WD, è tra "scrivere come a scuola" e scrivere da "oltre la scuola".
Grazie, Zio!


P.S.: sul WD ti avevo promesso un racconto ambientato nella tua città, Messina. Ebbene, ho mantenuto la promessa e così ho scritto il racconto, che fra pochi giorni pubblicherò su CdM, si Diu voli e m'aiuta :)
Il Sommo Misantropo

Re: Don Lino

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Ti ringrazio, @dyskolos, per i complimenti che fai alla mia Missina. Le memorie di un passato glorioso, però, non dovrebbero mai oscurare le vergogne di oggi. In questo mi sento molto in sintonia con quanto dice di noi siciliani il grande poeta Ignazio Buttitta in "Parru cu tia".
Ho in mente tre storie poco edificanti, poco più di tre aneddoti. La prima si riferisce al rapporto tra Messina e i sovrani del Regno delle Due Sicilie prima e soprattutto dopo l'unità d'Italia. La secondo riguarda l'obbiria di missinisi in occasione della ricostruzione del municipio di Messina. L'ultima l'oltraggio arrecato da Carlo V alla città quando, con il suo esercito accampato alle porte, pretese e ottenne oro dal Senato e di come, nell'occasione di un qualche centenario, in tempi recenti e senza minaccia di armati, la città volle rievocare questa così poco onorevole genuflessione. Tre aneddoti che mostrano come Missina abbia perso ogni memoria di ciò che fu e si ritrovi prona alla mercé di qualunque Don Lino.
A rileggerci presto.

Re: Don Lino

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Grazie, Zio, per questa lirica di Buttitta. Come al solito, una cosa è leggere, altra cosa è sentire dalla viva voce dell'autore. La potenza espressiva di Buttitta è davvero notevole. La poesia mi ha colpito come un pugno nello stomaco.

zio rubone ha scritto: mer feb 03, 2021 5:30 pm e si ritrovi prona alla mercé di qualunque Don Lino.

Proprio questo è il problema maggiore, e non solo di Missina: troppi donlini in giro. Purtroppo anche costoro fanno sì che i fasti del passato siano solo un lontano ricordo. Il presente pesa, eccome: vedi il post-terremoto-del-1908. Nel racconto su Messina parlo di una cosa molto contemporanea. Non proprio contemporaneissima, visto che se ne parla letteralmente dai tempi di Garibaldi. Mi riferisco al ponte sullo Stretto. Lì i donlini si scateneranno.

A rileggerci.
Il Sommo Misantropo
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