[CDP1] La catena di montaggio
Posted: Fri Apr 14, 2023 11:15 pm
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Traccia 1
Sono già sveglio quando parte quel suono di rumori della foresta, con i vari tipi di cinguettii che emergono dal sottofondo. Credo succeda a molti. Quando l'abitudine è un rituale che si ripete tutte le mattine, che sia un bip o che sia un cip, la sveglia diventa solo un segnale per ricordarci di smuovere le membra.
Mi alzo a fatica con la solita inquietudine, la speranza data da quei dolci suoni che richiamano i boschi è subito vanificata dalla vista del soffitto scrostato. È il solito inizio di una giornata sprecata. Mi rimangono diciotto minuti per prepararmi e uscire. Tutto cronometrato. Pochissimo margine di errore.
Non ho mai appetito appena sveglio. Faccio sciogliere la compressa di magnesio e infilo nella tasca il solito panino, prima avviarmi tra code, nebbie di fumi e semafori rossi, verso la macchinetta infernale per attivare il badge. Quante angosce può provocare un semplice bip, soprattutto se si corre il rischio di tardare anche di pochi secondi. Non tanto per una mezz'ora di retribuzione persa, ma per il senso di sconfitta che ti viene trasmesso dall'alto, insieme alla minaccia di congedo.
Il marcatempo: un mostro dal quale non si può scappare, insieme al caffè liofilizzato del distributore.
A casa, nei momenti serali di stasi post fabbrica, mi accompagna spesso un dolce pensiero: immagino quell'angioletto, per il quale ho contribuito alla sua nascita, che mi parla e mi racconta i propri sogni. Ma subito vengo pervaso da un sentimento di profonda tristezza per la mancata condivisione quotidiana di quella creatura. Poi, finisco sempre per ritrovarmi coi gomiti appoggiati sui braccioli, davanti uno schermo a guardare cose che qualcuno suggerisce per me. Gentilezze non richieste, anzi fastidiose. Un giorno però, rimasi ammaliato dalla visione di un grande attore che con dimestichezza di linguaggio esternava il suo pensiero. Parlava di come la vita, inesorabilmente, era parte di una grande catena di montaggio dalla quale non si può sfuggire, compresa ogni azione che pensiamo di poter fare in libertà. Non mi dava consolazione sapere che tutti facevano parte di questo meccanismo, anche chi svolgeva una vita agiata.
E io?
Dell'ingranaggio ho la consapevolezza di farne parte da tanto, e oggi ancor di più: affitto, mutuo e tutto quello che comporta avere una figlia troppo lontana per poterci vivere insieme, considerando che i genitori hanno preso due strade diverse.
E oltre a quello metaforico, sono parte integrante dell'ingranaggio reale.
Il capannone è un'orchestra di suoni sperimentali. Potrebbe essere un'interessante base per qualche testo cantato o recitato. Ma lo penso solo. Sono schiacciato e demotivato a intraprendere azioni che implichino anche il minimo sforzo.
Solo il pensiero non mi abbandona. E mentre scorre ininterrottamente il nastro, a volte parte il mio vero viaggio. Ho la fortuna di fantasticare e immaginare con la mente le cose più fantasiose: qualche giorno fa una farfalla mi aveva raccolto insieme a mia figlia e portati in viaggio tra prati e colline. Poi, alla vista di un campo di papaveri, ci lasciò cadere. Volteggiavamo nell'aria prima di intraprendere la discesa che si concluse con un tuffo nella morbida corolla gialla del delicato fiore rosso. Lei, tutta impollinata cercava di arrampicarsi sul pistillo per raggiungere la vetta. Io inebriato dal profumo, steso, vivevo come in una dimensione sospesa. Perdemmo il senso del tempo e del luogo fino al momento in cui il silenzio venne rotto da un urlo, che mi ridestò alla realtà:
“Demetrio! Cosa cavolo combini! È già la seconda volta che oggi fermiamo la macchina!”
Il mio arnese da lavoro è una bacchetta di ferro lunga 90 cm che devo far scorrere in un movimento a spirale su una guida, per pulirla da un residuo di patina di vernice, conseguenza di una tintura ad alto forno su una barra metallica di cui non ho mai capito la funzione. Un movimento per il quale non avevano ancora inventato un macchinario capace sostituire la mano dell'uomo. Forse perché faceva più comodo così. Ho due secondi di tempo prima che il grande nastro trasportatore mi rimandi alla spirale successiva.
Track, niiiee, cic, stack
Track, niiiee, cic, stack
Track, niiiee, cic, stack
Track, niiiee, cic, stack
Così per tutto il giorno.
Il pranzo diventa un privilegio, come l'ora d'aria dei carcerati: ne assorbo ogni istante. Mi sistemo in un angolo verde fuori dal capannone ai piedi di una grande quercia, e il mio pasto diventa anche quello di uccellini e formiche. Intanto guardo in alto e mi sembra come di vivere un momento di eternità. Quanta vita si ritrova nel raggio della mia vista. Mi sorprende un nugolo di moscerini che si muove come un corpo unico fluttuando nell'aria, creando un'evoluzione di forme dinamiche imprevedibili. Più in lontananza lo stesso effetto lo crea uno stormo di uccelli. C'è una strana luce, un vento crescente fa svolazzare foglie, arbusti e ogni cosa dal peso specifico molto basso. Il chiarore all'orizzonte diventa abbagliante per effetto dello scuro intorno: la luce è circondata, sempre più, fino ad esserne inghiottita. Un nero plumbeo precipita improvvisamente. Un'altra nuvola di puntini che fluttuano si muove in lontananza, sembra gigantesca e si avvicina velocemente: cos'è?
A un normale occhio risulterebbe inquietante. A me no, anzi, mi da serenità: la natura vitale sembra prendere il sopravvento in mezzo a un cumulo di morti viventi.
Iniziano a volare cose più grandi: vestiti, cartoni, laminati, tegole, biciclette. Sul braccio sento che mi cammina qualcosa: è una grande cavalletta. Mi accorgo che intorno ce ne sono altre qua e là. Poi focalizzo e vedo il prato davanti a me che si muove e vibra: una distesa. Ne avevo solo sentito parlare, dell'invasione delle locuste. Poi vedo volare qualcosa che conosco molto bene, l'oggetto del mio lavoro: l'asta di ferro di 90 centimetri che va a infilzarsi nella grande bocca aperta di una bella fanciulla ritratta su un cartellone pubblicitario di uno studio dentistico moldavo. Per ironia della sorte anche il nastro trasportatore viene aerotrasportato, accompagnato di un tuono poderoso, per poi cadere rovinosamente su una vetrata di una filiale bancaria, facendo partire altri suoni decisamente più fastidiosi. Sfrecciano davanti a me tutti i documenti della fabbrica, anch'essi come un corpo unico impazzito. Mi è sembrato anche di vedere l'impiegata, sparata come la donna cannone. Passa sotto i miei occhi uno dei quadri più prestigiosi della collezione privata del direttore: un Boccioni, che sembra aver preso vita. Neanche l'autore avrebbe potuto immaginare una fine più degna.
Con mio enorme piacere vedo volare la cosa più bella che potessi desiderare: il marcatempo. Per fargli compagnia lancio il mio badge, come si faceva con le carte quando si giocava da bambini a chi la mandava più lontano.
Mi accorgo che in tutto questo andirivieni ho solo dato un morso al mio panino; non mi preoccupo, questa volta avrò tutto il tempo per finirlo. Dopo aver chiuso e riaperto gli occhi, d'improvviso, tutto intorno sembra diventato un acquitrino. Una pioggia battente scivola sul mio corpo senza che me ne renda conto. Mi sembra di galleggiare. Do un altro morso al panino ma lo sputo: è una poltiglia.
Continua a piovere, l'acqua sommerge tutto, anche me. Mi sento perfettamente a mio agio, come nel liquido amniotico materno; come se debba ancora nascere o rinascere.
E riemergo, felice. Il sole è tornato a splendere come per magia. Un pensiero si concretizza, da molto lo auspicavo: oggi, posso andare a prenderla io, Ambra da scuola.
Traccia 1
Sono già sveglio quando parte quel suono di rumori della foresta, con i vari tipi di cinguettii che emergono dal sottofondo. Credo succeda a molti. Quando l'abitudine è un rituale che si ripete tutte le mattine, che sia un bip o che sia un cip, la sveglia diventa solo un segnale per ricordarci di smuovere le membra.
Mi alzo a fatica con la solita inquietudine, la speranza data da quei dolci suoni che richiamano i boschi è subito vanificata dalla vista del soffitto scrostato. È il solito inizio di una giornata sprecata. Mi rimangono diciotto minuti per prepararmi e uscire. Tutto cronometrato. Pochissimo margine di errore.
Non ho mai appetito appena sveglio. Faccio sciogliere la compressa di magnesio e infilo nella tasca il solito panino, prima avviarmi tra code, nebbie di fumi e semafori rossi, verso la macchinetta infernale per attivare il badge. Quante angosce può provocare un semplice bip, soprattutto se si corre il rischio di tardare anche di pochi secondi. Non tanto per una mezz'ora di retribuzione persa, ma per il senso di sconfitta che ti viene trasmesso dall'alto, insieme alla minaccia di congedo.
Il marcatempo: un mostro dal quale non si può scappare, insieme al caffè liofilizzato del distributore.
A casa, nei momenti serali di stasi post fabbrica, mi accompagna spesso un dolce pensiero: immagino quell'angioletto, per il quale ho contribuito alla sua nascita, che mi parla e mi racconta i propri sogni. Ma subito vengo pervaso da un sentimento di profonda tristezza per la mancata condivisione quotidiana di quella creatura. Poi, finisco sempre per ritrovarmi coi gomiti appoggiati sui braccioli, davanti uno schermo a guardare cose che qualcuno suggerisce per me. Gentilezze non richieste, anzi fastidiose. Un giorno però, rimasi ammaliato dalla visione di un grande attore che con dimestichezza di linguaggio esternava il suo pensiero. Parlava di come la vita, inesorabilmente, era parte di una grande catena di montaggio dalla quale non si può sfuggire, compresa ogni azione che pensiamo di poter fare in libertà. Non mi dava consolazione sapere che tutti facevano parte di questo meccanismo, anche chi svolgeva una vita agiata.
E io?
Dell'ingranaggio ho la consapevolezza di farne parte da tanto, e oggi ancor di più: affitto, mutuo e tutto quello che comporta avere una figlia troppo lontana per poterci vivere insieme, considerando che i genitori hanno preso due strade diverse.
E oltre a quello metaforico, sono parte integrante dell'ingranaggio reale.
Il capannone è un'orchestra di suoni sperimentali. Potrebbe essere un'interessante base per qualche testo cantato o recitato. Ma lo penso solo. Sono schiacciato e demotivato a intraprendere azioni che implichino anche il minimo sforzo.
Solo il pensiero non mi abbandona. E mentre scorre ininterrottamente il nastro, a volte parte il mio vero viaggio. Ho la fortuna di fantasticare e immaginare con la mente le cose più fantasiose: qualche giorno fa una farfalla mi aveva raccolto insieme a mia figlia e portati in viaggio tra prati e colline. Poi, alla vista di un campo di papaveri, ci lasciò cadere. Volteggiavamo nell'aria prima di intraprendere la discesa che si concluse con un tuffo nella morbida corolla gialla del delicato fiore rosso. Lei, tutta impollinata cercava di arrampicarsi sul pistillo per raggiungere la vetta. Io inebriato dal profumo, steso, vivevo come in una dimensione sospesa. Perdemmo il senso del tempo e del luogo fino al momento in cui il silenzio venne rotto da un urlo, che mi ridestò alla realtà:
“Demetrio! Cosa cavolo combini! È già la seconda volta che oggi fermiamo la macchina!”
Il mio arnese da lavoro è una bacchetta di ferro lunga 90 cm che devo far scorrere in un movimento a spirale su una guida, per pulirla da un residuo di patina di vernice, conseguenza di una tintura ad alto forno su una barra metallica di cui non ho mai capito la funzione. Un movimento per il quale non avevano ancora inventato un macchinario capace sostituire la mano dell'uomo. Forse perché faceva più comodo così. Ho due secondi di tempo prima che il grande nastro trasportatore mi rimandi alla spirale successiva.
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Così per tutto il giorno.
Il pranzo diventa un privilegio, come l'ora d'aria dei carcerati: ne assorbo ogni istante. Mi sistemo in un angolo verde fuori dal capannone ai piedi di una grande quercia, e il mio pasto diventa anche quello di uccellini e formiche. Intanto guardo in alto e mi sembra come di vivere un momento di eternità. Quanta vita si ritrova nel raggio della mia vista. Mi sorprende un nugolo di moscerini che si muove come un corpo unico fluttuando nell'aria, creando un'evoluzione di forme dinamiche imprevedibili. Più in lontananza lo stesso effetto lo crea uno stormo di uccelli. C'è una strana luce, un vento crescente fa svolazzare foglie, arbusti e ogni cosa dal peso specifico molto basso. Il chiarore all'orizzonte diventa abbagliante per effetto dello scuro intorno: la luce è circondata, sempre più, fino ad esserne inghiottita. Un nero plumbeo precipita improvvisamente. Un'altra nuvola di puntini che fluttuano si muove in lontananza, sembra gigantesca e si avvicina velocemente: cos'è?
A un normale occhio risulterebbe inquietante. A me no, anzi, mi da serenità: la natura vitale sembra prendere il sopravvento in mezzo a un cumulo di morti viventi.
Iniziano a volare cose più grandi: vestiti, cartoni, laminati, tegole, biciclette. Sul braccio sento che mi cammina qualcosa: è una grande cavalletta. Mi accorgo che intorno ce ne sono altre qua e là. Poi focalizzo e vedo il prato davanti a me che si muove e vibra: una distesa. Ne avevo solo sentito parlare, dell'invasione delle locuste. Poi vedo volare qualcosa che conosco molto bene, l'oggetto del mio lavoro: l'asta di ferro di 90 centimetri che va a infilzarsi nella grande bocca aperta di una bella fanciulla ritratta su un cartellone pubblicitario di uno studio dentistico moldavo. Per ironia della sorte anche il nastro trasportatore viene aerotrasportato, accompagnato di un tuono poderoso, per poi cadere rovinosamente su una vetrata di una filiale bancaria, facendo partire altri suoni decisamente più fastidiosi. Sfrecciano davanti a me tutti i documenti della fabbrica, anch'essi come un corpo unico impazzito. Mi è sembrato anche di vedere l'impiegata, sparata come la donna cannone. Passa sotto i miei occhi uno dei quadri più prestigiosi della collezione privata del direttore: un Boccioni, che sembra aver preso vita. Neanche l'autore avrebbe potuto immaginare una fine più degna.
Con mio enorme piacere vedo volare la cosa più bella che potessi desiderare: il marcatempo. Per fargli compagnia lancio il mio badge, come si faceva con le carte quando si giocava da bambini a chi la mandava più lontano.
Mi accorgo che in tutto questo andirivieni ho solo dato un morso al mio panino; non mi preoccupo, questa volta avrò tutto il tempo per finirlo. Dopo aver chiuso e riaperto gli occhi, d'improvviso, tutto intorno sembra diventato un acquitrino. Una pioggia battente scivola sul mio corpo senza che me ne renda conto. Mi sembra di galleggiare. Do un altro morso al panino ma lo sputo: è una poltiglia.
Continua a piovere, l'acqua sommerge tutto, anche me. Mi sento perfettamente a mio agio, come nel liquido amniotico materno; come se debba ancora nascere o rinascere.
E riemergo, felice. Il sole è tornato a splendere come per magia. Un pensiero si concretizza, da molto lo auspicavo: oggi, posso andare a prenderla io, Ambra da scuola.