Una storia senza morale
Posted: Fri Jan 08, 2021 7:05 pm
(racconto nato per il MI 107, del 28/01/2018: https://www.writersdream.org/forum/foru ... za-morale/)
«Ero solo, circondato dall’immensità. Lo so, suona un po’ pomposo, ma è così.
Non ci sei mai stata ai Trois Évêques, se no capiresti che ho ragione. Ti ci porterò un giorno, se trovo il coraggio di tornarci. Non ci sono ancora riuscito. È così, dicevo: sei lassù, su quella cresta di roccia scura, affilata, magnifica. Intorno a te, sopra a te, il cielo, le nubi, - molto poche quel giorno, in realtà - l’aria fredda da farti quasi male. Lo avevo scelto apposta: volevo morire in un luogo sublime. La mia vita aveva fatto schifo, ma la morte doveva essere perfetta.»
«Fabien…»
«Non serve che mi consoli, è lontano, ormai. Ma voglio spiegarti, se riesco.»
Respinge dolcemente la mano della ragazza che cercava di accarezzargli il volto.
«Volevo una morte splendida, dicevo, da ricordare. Che stronzata: chi doveva ricordarla? Io no di certo, quanto agli altri non ero nemmeno sicuro che avrebbero ritrovato qualcosa. Il mio corpo si sarebbe sfracellato contro le rocce e dubito che volpi, cinghiali e compagnia bella avrebbero lasciato qualcosa. Meglio così: avrei evitato a malcapitati escursionisti l’orrore di imbattersi nel mio cadavere. Erano riflessioni stupide. Forse solo un modo per fare durare quell’ultimo attimo.
Ma non credere che avessi dei dubbi: ero deciso. Da quando Luce mi aveva lasciato ero uno straccio.»
Si ferma e guarda Lisa, ha paura di ferirla raccontando la sua disperazione per un’altra donna, ma ha bisogno di parlare. Aspetta il cenno di lei per ricominciare.
«Forse non era davvero lei il problema, la usavo come scusa, come catalizzatore di tutto ciò che non andava nella mia vita, non lo so. Da quando mi aveva detto addio però era come se mi mancasse il respiro. Non sopportavo più nulla, non volevo più nulla, bevevo e basta. Bere per dimenticare, bere per non pensare, bere per… bere. Quando anche al lavoro ne ebbero abbastanza e mi cacciarono via, decisi che non avevo più ragioni per continuare.
Mi ero alzato presto, - me lo ricordo bene: non lo facevo più da mesi – volevo essere lassù con il sole alto del mattino. Non avevo bevuto nulla da due giorni, per essere sicuro di arrivarci sano e salvo e farla poi finita nel modo in cui lo avevo deciso, non cadendo ubriaco in un crepaccio. Una morte da leggenda. Una di quelle stronzate a cui credi quando hai vent’anni e ti sembra di avere tutto contro.
Ero lì con gli occhi chiusi, respiravo quell’aria incredibile, immaginavo il volo che avrei fatto cadendo. Riaprii gli occhi in cerca dello strapiombo perfetto.
Il rumore non avrebbe dovuto attirare la mia attenzione: sono parecchi gli aerei che sorvolano quelle cime. Eppure lo cercai con gli occhi. Volava basso, troppo basso, lo notai subito. Non c’era fumo, nessun segno di avaria. Ma volava troppo basso.
Non passerà mai sopra alle cime, è impossibile, il tempo di pensarlo ed era già scomparso dal mio campo visivo.»
Si ferma di nuovo, fissa un punto invisibile di fronte a lui. Sente la mano di Lisa sfiorargli la spalla, si riscuote.
«Vidi il fumo. Nessun rumore. È la cosa più strana, nei miei ricordi, quell’assenza di rumore. Nessuno schianto.
Morire non mi interessava più. Pensavo solo a correre là per vedere se potevo rendermi utile. Ridicolo: quando un aereo si schianta contro una montagna è difficile che si possa fare qualcosa. In quel momento però mi sentivo indispensabile. Forse ero il solo a esserne informato, mi dissi: dovevo correre. E lo feci.
Correre in quei pendii scoscesi è quasi impossibile. Rischiai di cadere non so quante volte, ma non successe. Mi sbucciai le mani a sangue un paio di volte, mi aggrappavo agli spuntoni di roccia per non scivolare, ma continuai a correre. Cercavo di indovinare il punto esatto in cui era caduto l’aereo. Attraversavo gli stessi capanni, ovili, fienili che avevo salutato uno per uno poche ore prima, sicuro di vederli per l’ultima volta, ma non li degnavo più di uno sguardo, volevo solo arrivare sul luogo del disastro.
Quando lo raggiunsi i soccorsi erano già là, arrivati con gli elicotteri, i mezzi su ruote non erano ancora riusciti ad accedere. Gendarmi e pompieri mi allontanarono, cercando di tenermi fuori dal perimetro. Ma era troppo immenso perché fosse possibile. Ripresi la direzione del paese e di casa con gli occhi pieni di quell’orrore. Ovunque pezzi di lamiera e di corpi. Era come attraversare un Guernica fattosi reale e pulsante di morte, là, sulle mie montagne.
Al Vernet c’era solo gente in lacrime: lo sapevano già tutti.
Rimanemmo per ore ammassati al Caffè Centrale,- ricordo l'odore di caffè e di sudore come se lo sentissi ancora - l’intero paese, se si escludono le autorità, le guide di montagna e gli addetti ai soccorsi. Seguimmo le notizie sul televisore del bar, ora dopo ora. Era così strano vedere le nostre montagne fare i titoloni delle "edizioni straordinarie".
Quando l’identificazione dell’apparecchio fu ufficiale e si seppero le dimensioni esatte del disastro, quei centocinquanta morti, il senso d’orrore si fece ancora più grande. Un’intera classe di liceo al rientro da una gita in Spagna. Quei ragazzi tedeschi, appena più giovani di me, i loro nomi, i volti sorridenti che le televisioni cominciavano a diffondere, furono uno choc immenso. Le mie ambizioni di morte erano scomparse. Non potevo più nemmeno pensarci, dovevo vivere. Per me e per loro.»
Fabien afferra la tazza di tè e ne beve un lungo sorso. È diventato freddo ormai, ma non importa, nemmeno se fosse bollente riuscirebbe a scacciare il gelo che sente nelle ossa. Posa la tazza sul tavolino, asciuga una goccia invisibile e torna a guardare Lisa. Sorride malinconico e le prende la mano, la porta alle labbra.
«Insomma, se quel dramma non fosse successo, o se avessi deciso di farla finita in un altro modo o semplicemente altrove, il 24 marzo 2015 sarebbe stato il mio ultimo giorno. Invece ho continuato a vivere, ho lasciato le montagne, mi sono trasferito a Parigi, ho ripreso gli studi. Ti ho incontrata.»
Sospira e stringe più forte la mano di lei tra le sue.
«Voglio dire: se un trentenne tedesco maniaco-depressivo non avesse deciso di suicidarsi precipitando con sé i passeggeri del suo areo proprio quel giorno, in quel luogo preciso, io ora non sarei qui con te. E non avrei mai saputo quanto la vita possa essere bella. Dicono che ci sia una ragione per tutto. Che c’è sempre una morale da imparare. Quale sarebbe la morale in questa storia? Sulla bilancia centocinquanta morti contro la vita di un imbecille che pensava di non volerla più. Chi potrebbe dire che ne è valsa la pena? Non so nemmeno se ho il diritto di essere felice di non essere morto.»
Lisa sfila la mano da quella di Fabien e gli accarezza il viso.
«Io lo sono.»
«Ero solo, circondato dall’immensità. Lo so, suona un po’ pomposo, ma è così.
Non ci sei mai stata ai Trois Évêques, se no capiresti che ho ragione. Ti ci porterò un giorno, se trovo il coraggio di tornarci. Non ci sono ancora riuscito. È così, dicevo: sei lassù, su quella cresta di roccia scura, affilata, magnifica. Intorno a te, sopra a te, il cielo, le nubi, - molto poche quel giorno, in realtà - l’aria fredda da farti quasi male. Lo avevo scelto apposta: volevo morire in un luogo sublime. La mia vita aveva fatto schifo, ma la morte doveva essere perfetta.»
«Fabien…»
«Non serve che mi consoli, è lontano, ormai. Ma voglio spiegarti, se riesco.»
Respinge dolcemente la mano della ragazza che cercava di accarezzargli il volto.
«Volevo una morte splendida, dicevo, da ricordare. Che stronzata: chi doveva ricordarla? Io no di certo, quanto agli altri non ero nemmeno sicuro che avrebbero ritrovato qualcosa. Il mio corpo si sarebbe sfracellato contro le rocce e dubito che volpi, cinghiali e compagnia bella avrebbero lasciato qualcosa. Meglio così: avrei evitato a malcapitati escursionisti l’orrore di imbattersi nel mio cadavere. Erano riflessioni stupide. Forse solo un modo per fare durare quell’ultimo attimo.
Ma non credere che avessi dei dubbi: ero deciso. Da quando Luce mi aveva lasciato ero uno straccio.»
Si ferma e guarda Lisa, ha paura di ferirla raccontando la sua disperazione per un’altra donna, ma ha bisogno di parlare. Aspetta il cenno di lei per ricominciare.
«Forse non era davvero lei il problema, la usavo come scusa, come catalizzatore di tutto ciò che non andava nella mia vita, non lo so. Da quando mi aveva detto addio però era come se mi mancasse il respiro. Non sopportavo più nulla, non volevo più nulla, bevevo e basta. Bere per dimenticare, bere per non pensare, bere per… bere. Quando anche al lavoro ne ebbero abbastanza e mi cacciarono via, decisi che non avevo più ragioni per continuare.
Mi ero alzato presto, - me lo ricordo bene: non lo facevo più da mesi – volevo essere lassù con il sole alto del mattino. Non avevo bevuto nulla da due giorni, per essere sicuro di arrivarci sano e salvo e farla poi finita nel modo in cui lo avevo deciso, non cadendo ubriaco in un crepaccio. Una morte da leggenda. Una di quelle stronzate a cui credi quando hai vent’anni e ti sembra di avere tutto contro.
Ero lì con gli occhi chiusi, respiravo quell’aria incredibile, immaginavo il volo che avrei fatto cadendo. Riaprii gli occhi in cerca dello strapiombo perfetto.
Il rumore non avrebbe dovuto attirare la mia attenzione: sono parecchi gli aerei che sorvolano quelle cime. Eppure lo cercai con gli occhi. Volava basso, troppo basso, lo notai subito. Non c’era fumo, nessun segno di avaria. Ma volava troppo basso.
Non passerà mai sopra alle cime, è impossibile, il tempo di pensarlo ed era già scomparso dal mio campo visivo.»
Si ferma di nuovo, fissa un punto invisibile di fronte a lui. Sente la mano di Lisa sfiorargli la spalla, si riscuote.
«Vidi il fumo. Nessun rumore. È la cosa più strana, nei miei ricordi, quell’assenza di rumore. Nessuno schianto.
Morire non mi interessava più. Pensavo solo a correre là per vedere se potevo rendermi utile. Ridicolo: quando un aereo si schianta contro una montagna è difficile che si possa fare qualcosa. In quel momento però mi sentivo indispensabile. Forse ero il solo a esserne informato, mi dissi: dovevo correre. E lo feci.
Correre in quei pendii scoscesi è quasi impossibile. Rischiai di cadere non so quante volte, ma non successe. Mi sbucciai le mani a sangue un paio di volte, mi aggrappavo agli spuntoni di roccia per non scivolare, ma continuai a correre. Cercavo di indovinare il punto esatto in cui era caduto l’aereo. Attraversavo gli stessi capanni, ovili, fienili che avevo salutato uno per uno poche ore prima, sicuro di vederli per l’ultima volta, ma non li degnavo più di uno sguardo, volevo solo arrivare sul luogo del disastro.
Quando lo raggiunsi i soccorsi erano già là, arrivati con gli elicotteri, i mezzi su ruote non erano ancora riusciti ad accedere. Gendarmi e pompieri mi allontanarono, cercando di tenermi fuori dal perimetro. Ma era troppo immenso perché fosse possibile. Ripresi la direzione del paese e di casa con gli occhi pieni di quell’orrore. Ovunque pezzi di lamiera e di corpi. Era come attraversare un Guernica fattosi reale e pulsante di morte, là, sulle mie montagne.
Al Vernet c’era solo gente in lacrime: lo sapevano già tutti.
Rimanemmo per ore ammassati al Caffè Centrale,- ricordo l'odore di caffè e di sudore come se lo sentissi ancora - l’intero paese, se si escludono le autorità, le guide di montagna e gli addetti ai soccorsi. Seguimmo le notizie sul televisore del bar, ora dopo ora. Era così strano vedere le nostre montagne fare i titoloni delle "edizioni straordinarie".
Quando l’identificazione dell’apparecchio fu ufficiale e si seppero le dimensioni esatte del disastro, quei centocinquanta morti, il senso d’orrore si fece ancora più grande. Un’intera classe di liceo al rientro da una gita in Spagna. Quei ragazzi tedeschi, appena più giovani di me, i loro nomi, i volti sorridenti che le televisioni cominciavano a diffondere, furono uno choc immenso. Le mie ambizioni di morte erano scomparse. Non potevo più nemmeno pensarci, dovevo vivere. Per me e per loro.»
Fabien afferra la tazza di tè e ne beve un lungo sorso. È diventato freddo ormai, ma non importa, nemmeno se fosse bollente riuscirebbe a scacciare il gelo che sente nelle ossa. Posa la tazza sul tavolino, asciuga una goccia invisibile e torna a guardare Lisa. Sorride malinconico e le prende la mano, la porta alle labbra.
«Insomma, se quel dramma non fosse successo, o se avessi deciso di farla finita in un altro modo o semplicemente altrove, il 24 marzo 2015 sarebbe stato il mio ultimo giorno. Invece ho continuato a vivere, ho lasciato le montagne, mi sono trasferito a Parigi, ho ripreso gli studi. Ti ho incontrata.»
Sospira e stringe più forte la mano di lei tra le sue.
«Voglio dire: se un trentenne tedesco maniaco-depressivo non avesse deciso di suicidarsi precipitando con sé i passeggeri del suo areo proprio quel giorno, in quel luogo preciso, io ora non sarei qui con te. E non avrei mai saputo quanto la vita possa essere bella. Dicono che ci sia una ragione per tutto. Che c’è sempre una morale da imparare. Quale sarebbe la morale in questa storia? Sulla bilancia centocinquanta morti contro la vita di un imbecille che pensava di non volerla più. Chi potrebbe dire che ne è valsa la pena? Non so nemmeno se ho il diritto di essere felice di non essere morto.»
Lisa sfila la mano da quella di Fabien e gli accarezza il viso.
«Io lo sono.»