[H2022R] Loro
Posted: Sun Nov 06, 2022 9:24 pm
Commento: viewtopic.php?p=43252#p43252
Carta n4: Fascinazione - Il Doppio - L'Altrove
Quello che ci sembra normale è ciò che accade spesso oppure a molti.
Le chiavi che non troviamo più, gli oggetti che spariscono e poi ricompaiono proprio dove avevamo appena guardato.
Accade a tutti e ci diciamo che è normale, che è colpa della distrazione o dello stress.
Mi sento di affermare, per esperienza personale, che non è sempre così.
A volte è opera Loro.
Loro, che vi spiano giorno dopo giorno in attesa del momento più adatto.
Il momento di aprire la caccia.
Molto di quello che so al riguardo l’ho imparato da Armida anche se, devo ammetterlo, è servito a ben poco e le conseguenze sono state comunque irreparabili.
Lei era un donnone biondo che parlava un italo-vesuviano quasi incomprensibile ma che, avendo cresciuto tre generazioni, ormai era membro effettivo della famiglia. Famiglia con la spocchia dei nobili decaduti, di quelli che vivono in un villone fuori città, ormai ai limiti della fatiscenza, che fanno studiare i figli a casa per non mischiarli con la gentaglia, salvo poi ritrovarsi una come mia sorella Clelia, che scambiava mutande col figlio del meccanico in cambio della revisione al motorino.
Faceva cose strane Armida, come spargere sale quando i miei litigavano o scrutare gocce d’olio in un piatto pieno d’acqua. E se qualcuno chiedeva spiegazioni, lei sbuffava risentita e andava a rintanarsi in cucina.
Armida odiava gli specchi. Ne compresi il motivo quando ormai era troppo tardi. Del resto, a una bambina di sei anni non si possono spiegare troppe cose. L’importante era proteggerla. E lei lo fece con tutte le sue forze, fino all’ultimo.
Ah, se solo avessi capito, se solo avessi creduto…
Tutto ebbe inizio quando mia madre si ammalò, nessuno mi disse di cosa, Armida prese dei teli neri dalla soffitta e con quelli ricoprì la toletta, le ante dell’armadio e ogni superficie riflettente.
Restò notti intere a vegliarla bagnandole la fronte con una pezza fresca e, quando pensò fosse il momento, fu lei a chiamare il prete, dato che anche mio padre sembrava afflitto dallo stesso male ed erano giorni che non usciva dal letto.
A me e mia sorella non era permesso entrare, solo affacciarci sulla soglia per un saluto.
Una mattina accadde qualcosa che avrei voluto dimenticare.
I teli erano a terra, stracciati come dagli artigli di una belva inferocita, Armida correva da una parte all’altra della stanza con altri teli, ma quelli ogni volta ricadevano giù, quasi ci fosse qualcosa che li respingeva e quando ci vide gridò: «Fora! Jate fora!»
Mia madre era lì, seduta al centro del letto, schiena dritta e occhi scintillanti, con uno strano sorrisetto e un tremito che le attraversava il corpo. All’improvviso saltò giù e, a passo svelto, andò in cucina. Armida le corse dietro, la guardò afferrare la pentola dove bolliva la minestra, bere d’un fiato e pulirsi la bocca col dorso della mano.
«Mamma, sei guarita!» dissi correndo per abbracciarla.
Armida mi bloccò con un braccio «No» disse secca. Si fece il segno della croce e non le parlò mai più.
Allora non potevo capire. Mi sembrò solo una cosa strana e un po’ crudele, anche se a mia madre non sembrava dispiacere più di tanto. Si limitava a fissarla, cosa che faceva anche Armida.
A volte le trovavo piantate in mezzo a una stanza, una di fronte all’altra, occhi negli occhi, con la mascella serrata e i pugni stretti.
Avevo la netta sensazione che si trattasse di un duello e finiva sempre nello stesso modo: con mia madre che, senza abbassare lo sguardo, si girava e usciva dalla stanza, mentre Armida tirava un sospiro di sollievo.
Non capivo, ma il fatto che, subito dopo, mi spettasse una fetta di pane caldo con burro e miele, mi faceva convinta che le cose fossero andate per il verso giusto, cosa che non sarebbe accaduta di certo se a vincere fosse stata mia madre. E d’altra parte, quella che si aggirava per casa con lo sguardo fisso, che rovesciava cassetti e svuotava armadi per cambiarsi d’abito ogni ora, che sedeva a tavola e mangiava senza usare le posate, lordandosi le braccia e tutto il viso, di mia madre ormai aveva solo l’aspetto.
Una notte mi svegliò un fruscio. E un peso sul materasso accanto a me. Cercai di girarmi verso il comodino per accendere la luce, ma il peso mi bloccava sotto le coperte. Col cuore in gola cercai di liberarmi, lo sentii muoversi e fare uno strano verso, una specie di gorgoglio disgustoso. Lo sentii premermi addosso, poi mi fu sopra, mi tolse il respiro col suo fiato putrido sulla faccia, aveva la bocca aperta, lo sentivo, e allora, non so come, riuscii a urlare e urlare e urlare ancora.
La porta si spalancò e vidi la sagoma scura di Armida stagliarsi contro la luce del corridoio.
«Lascia a criatura! Lasciala!» gridò.
La cosa saltò giù dal letto e le si avventò contro con un ruggito. Le sentii lottare rovesciando mobili e suppellettili e quando finalmente riuscii ad accendere la luce era tutto finito.
Nella stanza c’era solo Armida, che ansimava reggendosi allo stipite della porta e, non potevo crederci, tutto era perfettamente in ordine, come se nulla fosse successo.
Solo per terra, vicino al letto, un luccichio: l’orecchino di mamma.
Cominciai a piangere e Armida mi strinse a sé «Chetati, piccirì, nn’è success nenti» disse «Hai fatto solo nu sogno malcriato».
«Ma…»
«Te dico nenti» mi prese la faccia tra le mani, mi baciò la fronte «Adduormet mo» mi coricò, avvicinò una sedia e restò ad accarezzarmi la testa finché sentii la marea sommergermi dolcemente.
Mi ha sempre stupito quanto sia facile rassicurare un bambino, forse perché, in fondo, è solo questo che vuole. Ma, alla luce di quanto accadde poi, mi sono chiesta se sia stata una buona cosa. Se non sarebbe stato meglio portarmi via e mettermi in salvo davvero.
Ora lo so: Loro non lo avrebbero permesso. E le cose sarebbero precipitate prima che fossi pronta, per quanto si possa mai essere pronti per l’orrore.
Così Armida fece quello che poté: prendere tempo.
Il giorno dopo tutti gli specchi di casa erano spariti e quelli che non si potevano togliere erano stati coperti da un telo nero.
«Escheno da lì» disse cupa « Pe chist je se deve nasconne a via».
A mia sorella Clelia la cosa non andò per niente a genio.
«Mi servono!» urlava strappandoli via.
«A nenti te servono» ringhiava Armida rimettendoli al loro posto «A nenti!»
Clelia li tirava giù e lei ce li rimetteva, andò avanti così per ore, finché mia sorella si arrese e andò in camera sua sbattendo la porta.
«Tanto ce l’ho nel cassetto!» urlò
Lei, che era bella e piena di fidanzati di cui non ricordava nemmeno il nome. Che il sabato faceva nottata in discoteca e, prima di uscire, passava ore tra fard, rossetti e mascara.
«Nun te pittà accussì, che chill t’arricopiano» le diceva Armida con la faccia scura.
«Ma quelli chi, lo vedi che dici scemenze? Piuttosto, me l’hai stirata la gonna?»
Era un sabato, me lo ricordo benissimo. Clelia uscì sbattendo la porta come al solito, adorava sbattere porte, ante, sportelli e tutto quello che si poteva sbattere, credo lo ritenesse il suo modo di dire Faccio come mi pare.
Quando restammo sole, mi avvicinai ad Armida.
«Quelli chi?» chiesi sottovoce.
Lei mi guardò «Nun t’o pozz ricere. Non ancora» disse scostandomi una ciocca dalla fronte «Non si grand abbastanza».
«Ma ho dodici anni!» feci risentita.
«Nun abbastano. Mo vatten a duormere, ch’è tardi».
Fu una notte difficile, tormentata da urla e rumori che tentavo di ricacciare nel sogno, dove cani inferociti lottavano tra brandelli di carne e lapilli infuocati.
Non era un sogno. Adesso lo so.
A mezzogiorno di quella domenica mattina, Armida armeggiava con alcol e cerotti sulle braccia coperte di graffi e tagli.
«Ti sei fatta male?» chiesi
«Sti cazz’e rose, into o culo e spine! A te e a chi t’è muort!»
«A me?»
«Ma no, piccirì. O sacc’io a chi!»
In quel momento, Clelia entrò in cucina. La faccia livida, gli occhi cerchiati, anche lei piena di graffi e sangue.
«Pure tu sei caduta sulle rose?» dissi.
Lei fece una smorfia, andò verso la pentola dove cuoceva l’arrosto, alzò il coperchio, lo afferrò e prese a sbranarlo. Si sedette continuando a masticare, col sugo che le colava sul mento fino al collo, poi guardò Armida «Sete» disse e dette un altro morso alla carne.
Lei riempì una caraffa, gliela mise davanti e venne verso di me.
«Mo vattenne, che fora c’è aria bona» prese un secchiello dallo stipo e me lo porse «Fallo pieno di more, mirtilli e tutto chill ca truov. Ma pieno, eh» disse spingendomi verso la porta.
Non so cosa accadde in quella cucina, ma quando tornai, Clelia non c’era più.
«Se n’è ghiut co cert’amici » disse Armida.
«E quando torna?»
Lei si strinse nelle spalle «Che sacc’io? Ha ritt che telefona».
«E mamma e papà?»
«Rice che telefona pure a loro».
L’avrei proprio voluta sentire quella conversazione.
Mamma e papà, che certo s’erano ripresi dal malanno e non litigavano più, ma che adesso fissavano il vuoto senza espressione. Che parlavano poco, anzi per niente, nemmeno tra loro ma che, a tratti, giravano la testa, l’uno verso l’altra, e annuivano. Che continuavano a cambiarsi d’abito, come volessero provarli tutti, che si ingozzavano di cibo a tutte le ore, ginocchioni per terra se quello cadeva, ringhiandosi contro se uno ne prendeva all’altra, come animali famelici, come non avessero mangiato mai.
Mamma e papà, che facevo sempre più fatica a chiamare così e ogni volta che li guardavo mi si stringeva il cuore.
Forse per questo Armida mi riempiva la giornata di cose da fare «Teng a schiena stanca, damme na mano». E allora panni da stendere, piatti da lavare, mobili da spolverare. Non mi piaceva, ero forse diventata la serva della serva? Eppure sentivo che quel castello di normalità serviva a proteggermi da quello che stava accadendo. Da una vita che somigliava sempre meno a quella che conoscevo.
Fu un pomeriggio di maggio che accadde.
Entrai in salotto e loro erano lì, a fissarsi e annuire, talmente presi da quel dialogo muto, da non accorgersene.
Mi sbagliavo. Era di me che parlavano.
Ne ebbi la certezza quando mi sentii sospingere verso il grande specchio che troneggiava sul camino. Sentivo i loro occhi guidare il mio corpo e i miei piedi come quelli di un burattino. Vidi il mio braccio alzarsi, con due dita prendere un lembo del telo nero e cominciare a tirarlo delicatamente.
«No!» l’urlo di Armida «No!» col volto stravolto, a braccia tese, si precipitava verso di me.
Troppo tardi. Il telo cadde. E vidi.
Restai impietrita, senza riuscire a distogliere lo sguardo, mentre nella mia testa, ad una ad una, si radunavano tutte le cose dette, immaginate. E temute.
Loro erano lì.
In un salotto uguale a quello dov’ero, avvolti in una penombra livida, c’erano mio padre e mia madre che mi stavano fissando e, per una volta, sembrava mi vedessero.
Mi voltai. Non c’era nessuno. Mi girai ancora verso lo specchio e Loro erano lì.
Ma quello che mi fece gelare il sangue è che c’ero anch’io. O meglio, qualcuno che avrei potuto essere io. Pallido e smunto come erano Loro, con gli occhi cerchiati come li avevano Loro e le labbra stirate sui denti marci in una smorfia che avrebbe voluto essere un sorriso.
«Ecco, adess o vedi» sussurrò Armida «Adess o sai».
Cominciò a tremare. Barcollò, tentò di reggersi a una poltrona, a fatica si lasciò cadere sul divano, scossa dai brividi, madida di sudore, mentre rivoli di sangue le scendevano dal naso e dagli occhi.
Sentii mia madre scattare in piedi con un sibilo ringhioso. Vidi mio padre bloccarla e, nella mia testa, le sue parole, chiare e nitide come gli fossero uscite dalla bocca: «Tocca a lei, cara. Lasciala fare».
E allora, quella me che continuava a sogghignare dallo specchio, si voltò e andò verso il divano dove giaceva Armida, si chinò su di lei, affondò i denti nella sua carne, ne strappò un brandello e poi un altro e un altro ancora, ogni volta sollevando il capo, masticando e mugolando tra estasi e trionfo.
Abbassai lo sguardo su quel corpo sventrato e mi accorsi che non ne avevo abbastanza, che doveva essere mio, tutto.
Mi chinai con le fauci spalancate e finii quello che avevo cominciato.
Non saprei dire da quanto sono qui. Il ricordo di quello che ero si fa sempre più opaco.
Ho visto piogge, gelate, timidi soli e rami fioriti, anche se, da questa parte dello specchio, il vetro non permette una visione chiara. O forse sono i miei occhi, chissà.
Mi sono abituata alla penombra e credo che ormai non reggerei a lungo la luce piena.
Clelia dice che sono uno splendore, ma se il suo metro di paragone sono cosce scheletrite e denti acuminati, non c’è da fidarsi.
Se non fosse per il cibo, che è sempre troppo poco, qui non è poi così male.
Anche l’ultimo topolino è morto, probabilmente soffocato da una scheggia di legno ammuffito. Non fa bene la muffa, non ha neanche un bon sapore. E nemmeno il topolino lo aveva. Del resto, mangiare cose vive è estremamente impegnativo ed io non ho mai amato la caccia.
Mia madre e mia sorella, invece non riescono a farne a meno. Questione di carattere, credo. A loro non danno fastidio tutti quegli strepiti. Dicono che così la carne ha più gusto. E, devo riconoscerlo, tra la carne umana e quella di topo, non c’è paragone. Ciò non toglie che si debba sempre conservare un certo decoro.
La famiglia che adesso abita la nostra casa è decisamente sovrappeso e non nego che sia piuttosto invitante, ma trovo poco dignitoso spiarli con la bava alla bocca.
D’altra parte, non resteranno qui per sempre. La gente di là invecchia e poi muore. Lasciare che accada sarebbe davvero uno spreco.
Dovrò adattarmi e confesso che non mi dispiace. Ci sono molte cose su cui mi sono ricreduta. Questa è una di quelle.
Certo non è facile, gli specchi sono materiali con cui non si scherza e, finché qualcuno ti tiene il varco aperto puoi ancora farcela, ma da sola è tutta un’altra faccenda e rischi di farti male o peggio, di essere scoperta.
In ogni caso, è solo questione di esercizio e mio padre è molto incoraggiante. Adoro quando mi guarda e annuisce.
Perché sì, faccio progressi. E infatti ho notato che adesso il vetro sembra più morbido, al punto che ho potuto attraversarlo con il braccio intero.
Ancora poco e sono certa di riuscire ad attraversarlo del tutto.
La stagione della caccia si avvicina.