[H2022R] Il pittore di agonie
Posted: Sun Nov 06, 2022 3:27 pm
Carta 1 - L'Ombra: il lato oscuro, il persecutore, il contrasto
La prima volta in cui vidi l’ombra avevo sedici anni e una vita già sconquassata da quelle che le persone felici chiamano arte.
Mentre scrivo queste pagine, con una grafia incerta e spezzata dal terrore di ciò che sta per accadere, il cielo che intravedo dalla finestra è trafitto dalle stelle. È uno dei motivi per cui me ne sono venuto a vivere quassù, lontano da tutti. Al riparo dagli sguardi giudicanti.
Il primo disegno di cui ho ricordo è stato uno schizzo a matita. Aveva preso vita sulla carta senza che me ne rendessi conto, senza che avessi la consapevolezza di averne tracciato un singolo tratto. Raffigurava mia madre: i lunghi boccoli corvini le accarezzavano il viso e il collo, le labbra erano serrate, gli occhi sgranati, una corda legata intorno al collo, tirata da mani enormi che spuntavano alle sue spalle, emergendo dal buio.
Portai il disegno a mamma con la segreta speranza che mi riempisse di complimenti, che mi stringesse e mi coccolasse fino a sera. Quando lo vide, sgranò gli occhi. Ebbi solo un paio di secondi per illudermi che la sua fosse genuina meraviglia di fronte all'opera di un talento precoce. La vidi sbiancare mentre avvicinava il foglio al viso.
«Dove hai visto questa scena?» mi chiese.
«Ti piace?»
Serrò le labbra, in modo non molto dissimile dal disegno su cui teneva gli occhi incollati.
«Dove l'hai vista?» insisté.
Alzai le spalle. Non avevo alcuna idea della provenienza dell'immagine. Al tempo, non ero ancora a conoscenza del morbo che mi affliggeva, né avevo gli strumenti per interpretare il senso di ciò che mi accadeva.
Se dovessi individuare il momento esatto in cui la mia vita, la vita così come la conoscevo, si spezzò, fu esattamente quello.
Seguirono mesi fatti di lunghe conversazioni, reprimende, colloqui con psichiatri e psicologi (tanto avversati da mio padre quanto rivestiti della speranza di mia madre), insegnanti privati, viaggi in montagna e al mare, visite a musei ben selezionati, dove potessi ammirare le opere più prodigiose partorite dall’ingegno umano.
Non disegnai per alcuni anni. Niente colpiva la mia attenzione, niente stuzzicava la mia immaginazione. Il disegno che raffigurava mia madre fu quasi dimenticato, relegato nel pozzo degli orrori e delle aberrazioni infantili.
Poi conobbi Lavinia. Avevo tredici anni, una buona educazione e la nomea di piccolo saggio. Trascorrevo il mio tempo a leggere e a immaginare il passato. Del futuro non mi curavo: non è forse questo il vero privilegio della ricchezza?
Mi sentii morire. Il petto mi esplose, una vampata di calore mi travolse mentre Lavinia danzava in un teatro gremito. Ne studiai le movenze, l'eleganza del portamento, la delicatezza dei tratti, lo splendore biondo dei capelli. Mio padre conosceva il suo, e Lavinia diventò compagna dei miei pomeriggi. Io le chiedevo dettagli sulle tecniche di danza, su cosa si provasse a ballare; lei adorava sentirmi parlare di libri e di mondi lontani, di come una colonna o un muro possano raccontare la storia di una persona, a volte di un popolo intero.
Finché non tornai a disegnare. Il soggetto fu lei. E fu inevitabile. La sensazione fu quella di una forza improvvisa, violenta, che si impossessò del mio braccio. Di nuovo buio, come il pomeriggio del disegno che raffigurava mia madre. Quando tornai in me, ammirai i contorni del corpo di Lavinia, del volto, le tracce suadenti che la sua presenza lasciava impresse nello spazio e nell'aria.
Il mio cervello cercò di proteggermi, di rendermi imperscrutabile ciò che avevo fin troppo chiaro davanti agli occhi. Mentre osservavo il ritratto di Lavinia, provai una sotterranea sensazione di assenza. Constatai con orrore che quella che mi era parso parte del vestito fosse in realtà un osceno puzzle di filamenti di pelle, tessuti recisi, muscoli squarciati e sangue.
Osservai il disegno per un tempo indefinito. Fui riportato alla realtà dalle urla disperate di mio padre. Bestemmiava, lanciava vasi e bottiglie invocando il nome di mia madre. Tremante, mi avvicinai al salone da cui provenivano i rumori.
«Tu» disse mio padre con voce bassa e profonda quando mi vide, «come facevi a saperlo?»
Non capivo. O mi rifiutavo di farlo, perché non volevo credere che fosse successo. Fino a poche ore prima avevo quasi dimenticato il primo disegno, ma in quel momento, scosso dal ritratto di Lavinia, mi calò addosso il gelo.
«Dov'è mamma?» chiesi quasi senza voce, lasciando correre lo sguardo sulla devastazione del salotto.
Mio padre scoppiò in lacrime. Tra i singhiozzi, mi disse che era stata uccisa. Strangolata da un pazzo senza ragione apparente, così gli aveva raccontato la polizia.
Controllare tutte le emozioni che mi attanagliavano le viscere fu un'impresa titanica, ma dovevo sapere.
«Strangolata... come?»
La risposta fu quella che mi aspettavo. Urlai tanto da causarmi un malore. Mi ripresi molte ore dopo, con la speranza immarcescibile che si fosse trattato di un incubo.
Fatico ancora oggi, a distanza di vent'anni e di lancinanti tramestii interiori, a ripensare ai momenti che seguirono. Stendo un velo di oblio, per proteggere gli ultimi stralci di sanità che mi restano e per provare a lasciare una traccia della mia esistenza maledetta.
Mio padre rimase solo e ombroso. Trascorreva le serate chiuso nel suo studio. Talvolta lo sentivo bofonchiare parole misteriose, come se intrattenesse conversazioni in lingue ignote con interlocutori immaginari. Dalla mia camera, sentivo il portone aprirsi quasi ogni notte. In rare occasioni, uomini e donne dagli strani abiti e ancor più strani accenti mi hanno fatto visita. Mi osservavano come se fossi un animale estinto, uno scherzo della natura. Ho ricevuto monili, talismani, ciondoli, immagini votive, pietre stravaganti e ogni sorta di cimelio antico ed esotico.
Una sera qualsiasi, mentre leggevo un libro di Camus, seduto sul letto con le spalle poggiate sul cuscino, l'ombra si insinuò nella mia stanza. Mi sono nel tempo convinto che ci fosse sempre stata, ma che non avessi ancora sviluppato i sensi adatti per vederla.
Sedette alla mia scrivania, dove scarabocchiavo pensieri e studiavo. Non aveva gambe, né volto, né un corpo paragonabile a quello di un essere umano. Eppure, mi sembrò di cogliere un cenno, una specie di invito ad avvicinarmi. Provai un senso di sollievo, invece di paura. Se né psichiatri, né sacerdoti, né pittoreschi medium ed esperti dell'occulto avevano trovato in me tracce di qualcosa di malato o di sbagliato, forse era finalmente giunto il momento in cui avrei capito da dove provenissero le immagini nefaste che, privo di coscienza, avevo impresso su carta.
Andai verso l'ombra. Man mano che mi avvicinavo, mi accorgevo della sua reale consistenza, più simile a un denso vapore nero, vivo, scosso da spasmi improvvisi, venato da quelle che mi sembrarono escoriazioni rosso scuro.
Mi fermai quando stavo per entrare in contatto con lei, incerto sul da farsi. Nell'aria sentii odore di nebbia e di foglie morte. Percepii un nuovo cenno, un invito a proseguire. Incapace di provare paura, privato di ogni basilare istinto di sopravvivenza, sedetti sulla sedia. Occupai lo spazio già occupato dall'ombra, ma in realtà fu lei a occupare qualcosa. Fu come un'iniezione prolungata: un liquido caldo mi percorse le vene, impetuoso raggiunse il cuore che lo pompò a ogni estremità del mio corpo e al cervello. Fu quello il momento in cui si aprì un nuovo sguardo. Il mondo intorno a me cambiò, le luci si ingigantirono; lo stesso fece il buio. Ogni sfumatura di colore divenne nitida e riconoscibile. Ma la vera novità non era lo sguardo su ciò che mi circondava, ma quello su ciò che sarebbe stato, su spazi sconfinati e incontaminati, vallate ghermite dal fuoco e dominate dai lamenti, fosse di liquidi nerissimi, miasmi atroci, richiami imploranti, urla inumane.
Volai su luoghi impossibili, dalle geometrie che non potevano essere spiegate con le regole degli uomini. Vidi uomini impalati, donne martoriate con attizzatoi incandescenti, vecchi sgozzati, teste che rotolavano lungo brulli pendii, braccia ricucite al contrario, tavole sporche imbandite di pezzi di carne marcescente, insetti immondi che ronzavano e suggevano nutrimento, bestie brulicanti negli anfratti tenebrosi, negli angoli delle strade distrutte e abbandonate dalla luce.
Le immagini mi riempivano gli occhi e sentivo la testa sul punto di esplodere, eppure non riuscivo a chiudere gli occhi. Chiederei perdono a Dio se ci credessi, ma il morboso desiderio di scandagliare i limiti della decenza umana superava la resistenza di fronte all’impensabile e all’osceno.
Riuscii a chiudere gli occhi solo quando ogni nervo del mio corpo raggiunse un grado di tensione tale da non essere più sostenibile. Quando li riaprii, ero di nuovo sulla sedia, davanti alla scrivania. Su un foglio, era comparso dal nulla il disegno di un vecchio con la gola recisa in modo irregolare. I suoi occhi sgranati e ricolmi di sofferenza mi fissavano. Balzai in piedi per scovare l’ombra che mi aveva attirato e costretto al viaggio tra le agonie, ma non ce n’era più traccia.
Mi colpii la testa coi pugni, strinsi i denti per non urlare la mia frustrazione: cosa c’era in me di così sbagliato? Ero forse malato? Potevo essere pericoloso per l’incolumità di chi mi circondava? Mentre mi angustiavo, così com’era successo pochi anni prima fui raggiunto dalla voce di mio padre, che parlava al telefono col papà di Lavinia. Non ebbi bisogno di sentire i dettagli della conversazione. Furono sufficienti il tono di mio padre, la sua costernazione e incredulità.
Non potevo più restare lì. Non potevo rischiare di essere causa o facilitatore di avvenimenti tragici, sofferenze e morte di persone a me care. Misi in uno zaino qualche maglione, due spicci, dei fogli e una matita. Prima di uscire dalla finestra e lasciarmi per sempre alle spalle la casa della mia famiglia, lasciai un biglietto a mio padre, scusandomi per la mia esistenza.
Vagai per i bassifondi della città, alla ricerca di un luogo dove passare le notti gelide. Di giorno, abitavo le vie del centro, dove mi confondevo tra giocolieri e artisti di strada. Disegnavo oscenità e morte, riportando su foglio ciò che vedevo ogni volta in cui l’ombra mi faceva visita. Le persone che mi circondavano, quelle di cui arrivavo a conoscere almeno il nome, man mano si spegnevano o pativano sofferenze che i miei disegni prefiguravano. Capii che non ero io a causare tutto quel dolore: il mio dono infausto era di vedere prima ciò che sarebbe successo, di mettere su carta gli infiniti modi di soffrire che la vita pone dinanzi a tutti noi.
Al calare del buio, mi ritiravo nei quartieri più malfamati, sotto i ponti, sul limitare umido del fiume, tra rifiuti e deiezioni umane, immerso nel fetore e nei gemiti notturni di ubriachi e disperati. Fino a quando un uomo elegante, a pochi giorni dal Natale, notò i miei disegni in una via del centro e fu affascinato dalla mia capacità di delineare i confini dell’agonia umana, di immergermi nelle peggiori pieghe della sofferenza. Rimase sconvolto dalla mia giovane età e mi chiese cos’avessi vissuto per esprimere così tanto dolore.
Mi portò nella casa isolata in cui mi trovo adesso, dietro mia precisa richiesta. Mi fornì libri, cartoncini, tele, colori e ogni cosa potesse servirmi per non uscire più, per non dover stare a contatto con persone delle quali avrei presagito la morte o gli incidenti più terribili. Per qualche tempo, mi illusi che quella fosse una dimensione accettabile per uno come me. L’isolamento mi dava quiete. Non dovendo pensare a come sopravvivere, potei concentrarmi sull’unica cosa che, istintiva e arcaica, fluiva dal mio intelletto come un pus.
L’ombra mi faceva visita ogni sera, poco dopo il calare dell’oscurità. Ho imparato col tempo che ama la luce delle candele e del fuoco nel camino. Sgattaiola da sotto il tappeto, da dietro un quadro o attraverso le fessure, mi si avvicina o mi richiama, e io mi abbandono a lei, senza opporre resistenza. Accetto i voli negli abissi, le immonde creature che abitano i luoghi più profondi e segreti della psiche umana, le perversioni e le aberrazioni che si dipanano davanti al mio sguardo come un’oltraggiosa parata carnevalesca.
Acquisite le tecniche della pittura, iniziai a realizzare quadri ispirati alle mie visioni, le agonie così ambite e desiderate dai clienti di Caleb, il mio mecenate. Non ho mai firmato una tavola, e questo ha reso il mio lavoro ancora più oscuro e carico di mistero. L’uomo che mi aveva preso dalla strada mi raccontava che, in certi circoli e gallerie, non si faceva che parlare di me e delle mie opere.
Nonostante la mia peculiare situazione, sono dedito alle debolezze tipiche degli uomini, tra le quali torreggiano l’ego e la necessità di riconoscimento. Ho resistito a lungo, per via del timore che la mia decisione potesse comportare rischi. Fino a questa mattina, quando ho chiesto a Caleb di condurmi a una delle mostre che espongono i miei dipinti.
Che sorpresa mista a brividi quando ho letto il cartellone affisso all’ingresso del palazzo: Il pittore di agonie. Un collage di immagini prese dalle mie visioni coronava i caratteri rossi, della foggia di macchie di sangue che colavano. Una pantomima di stereotipi dell’horror nella sua forma più mediocre.
Sono entrato per confondermi tra la folla e ascoltare le opinioni e i commenti dei visitatori. A un tratto, devo essere caduto vittima di una specie di amnesia, e quando ho riaperto gli occhi, circondato da persone spaventate e sospettose, stringevo tra le mani il disegno raffigurante il mio mecenate decapitato. Accanto al corpo, c’era un uomo con le mie fattezze. Tra le mani stringeva un’accetta.
Sono corso via, cercando Caleb tra la folla di persone che mi indicavano. Qualcuno ha urlato: «Deve essere lui! È sicuramente lui! Il pittore di agonie.»
Se anche quel disegno, che ora è qui sulla scrivania e mi occhieggia sinistramente, è premonitore di qualcosa, significa che mi macchierò di un orrendo delitto. Non so se un uomo ha la forza e la possibilità di determinare il proprio destino. Devo però almeno provarci. Conosco soltanto un modo per farlo, ed è per questo che ho dipinto me stesso penzolante da un cappio, le braccia molli lungo i fianchi, il capo chinato nella postura della morte.
Il cappio è lì nell’angolo della stanza, tra la poltrona e la catasta di legna. Devo essere risoluto come la notte in cui ho lasciato la casa di mio padre. Sento il rumore dei passi sul sentiero di accesso. Potrebbe essere Caleb, e potrebbe avverarsi l’ultima profezia dell’ombra.
È già buio. Qualche istante fa, dal camino mi è parso fuoriuscire uno sbuffo di nebbia scura. Ma forse è solo fumo prodotto dalla legna umida.
Qualcuno ha bussato alla porta. Sento la voce di Caleb chiamare il mio nome.
Mi volto per accertarmi che l’ombra non sia ancora arrivata. I miei occhi si posano sull’accetta. È appesa accanto al camino. Le fiamme si riflettono sul metallo, in una danza sinuosa e ipnotica.
Il primo disegno di cui ho ricordo è stato uno schizzo a matita. Aveva preso vita sulla carta senza che me ne rendessi conto, senza che avessi la consapevolezza di averne tracciato un singolo tratto. Raffigurava mia madre: i lunghi boccoli corvini le accarezzavano il viso e il collo, le labbra erano serrate, gli occhi sgranati, una corda legata intorno al collo, tirata da mani enormi che spuntavano alle sue spalle, emergendo dal buio.
Portai il disegno a mamma con la segreta speranza che mi riempisse di complimenti, che mi stringesse e mi coccolasse fino a sera. Quando lo vide, sgranò gli occhi. Ebbi solo un paio di secondi per illudermi che la sua fosse genuina meraviglia di fronte all'opera di un talento precoce. La vidi sbiancare mentre avvicinava il foglio al viso.
«Dove hai visto questa scena?» mi chiese.
«Ti piace?»
Serrò le labbra, in modo non molto dissimile dal disegno su cui teneva gli occhi incollati.
«Dove l'hai vista?» insisté.
Alzai le spalle. Non avevo alcuna idea della provenienza dell'immagine. Al tempo, non ero ancora a conoscenza del morbo che mi affliggeva, né avevo gli strumenti per interpretare il senso di ciò che mi accadeva.
Se dovessi individuare il momento esatto in cui la mia vita, la vita così come la conoscevo, si spezzò, fu esattamente quello.
Seguirono mesi fatti di lunghe conversazioni, reprimende, colloqui con psichiatri e psicologi (tanto avversati da mio padre quanto rivestiti della speranza di mia madre), insegnanti privati, viaggi in montagna e al mare, visite a musei ben selezionati, dove potessi ammirare le opere più prodigiose partorite dall’ingegno umano.
Non disegnai per alcuni anni. Niente colpiva la mia attenzione, niente stuzzicava la mia immaginazione. Il disegno che raffigurava mia madre fu quasi dimenticato, relegato nel pozzo degli orrori e delle aberrazioni infantili.
Poi conobbi Lavinia. Avevo tredici anni, una buona educazione e la nomea di piccolo saggio. Trascorrevo il mio tempo a leggere e a immaginare il passato. Del futuro non mi curavo: non è forse questo il vero privilegio della ricchezza?
Mi sentii morire. Il petto mi esplose, una vampata di calore mi travolse mentre Lavinia danzava in un teatro gremito. Ne studiai le movenze, l'eleganza del portamento, la delicatezza dei tratti, lo splendore biondo dei capelli. Mio padre conosceva il suo, e Lavinia diventò compagna dei miei pomeriggi. Io le chiedevo dettagli sulle tecniche di danza, su cosa si provasse a ballare; lei adorava sentirmi parlare di libri e di mondi lontani, di come una colonna o un muro possano raccontare la storia di una persona, a volte di un popolo intero.
Finché non tornai a disegnare. Il soggetto fu lei. E fu inevitabile. La sensazione fu quella di una forza improvvisa, violenta, che si impossessò del mio braccio. Di nuovo buio, come il pomeriggio del disegno che raffigurava mia madre. Quando tornai in me, ammirai i contorni del corpo di Lavinia, del volto, le tracce suadenti che la sua presenza lasciava impresse nello spazio e nell'aria.
Il mio cervello cercò di proteggermi, di rendermi imperscrutabile ciò che avevo fin troppo chiaro davanti agli occhi. Mentre osservavo il ritratto di Lavinia, provai una sotterranea sensazione di assenza. Constatai con orrore che quella che mi era parso parte del vestito fosse in realtà un osceno puzzle di filamenti di pelle, tessuti recisi, muscoli squarciati e sangue.
Osservai il disegno per un tempo indefinito. Fui riportato alla realtà dalle urla disperate di mio padre. Bestemmiava, lanciava vasi e bottiglie invocando il nome di mia madre. Tremante, mi avvicinai al salone da cui provenivano i rumori.
«Tu» disse mio padre con voce bassa e profonda quando mi vide, «come facevi a saperlo?»
Non capivo. O mi rifiutavo di farlo, perché non volevo credere che fosse successo. Fino a poche ore prima avevo quasi dimenticato il primo disegno, ma in quel momento, scosso dal ritratto di Lavinia, mi calò addosso il gelo.
«Dov'è mamma?» chiesi quasi senza voce, lasciando correre lo sguardo sulla devastazione del salotto.
Mio padre scoppiò in lacrime. Tra i singhiozzi, mi disse che era stata uccisa. Strangolata da un pazzo senza ragione apparente, così gli aveva raccontato la polizia.
Controllare tutte le emozioni che mi attanagliavano le viscere fu un'impresa titanica, ma dovevo sapere.
«Strangolata... come?»
La risposta fu quella che mi aspettavo. Urlai tanto da causarmi un malore. Mi ripresi molte ore dopo, con la speranza immarcescibile che si fosse trattato di un incubo.
Fatico ancora oggi, a distanza di vent'anni e di lancinanti tramestii interiori, a ripensare ai momenti che seguirono. Stendo un velo di oblio, per proteggere gli ultimi stralci di sanità che mi restano e per provare a lasciare una traccia della mia esistenza maledetta.
Mio padre rimase solo e ombroso. Trascorreva le serate chiuso nel suo studio. Talvolta lo sentivo bofonchiare parole misteriose, come se intrattenesse conversazioni in lingue ignote con interlocutori immaginari. Dalla mia camera, sentivo il portone aprirsi quasi ogni notte. In rare occasioni, uomini e donne dagli strani abiti e ancor più strani accenti mi hanno fatto visita. Mi osservavano come se fossi un animale estinto, uno scherzo della natura. Ho ricevuto monili, talismani, ciondoli, immagini votive, pietre stravaganti e ogni sorta di cimelio antico ed esotico.
Una sera qualsiasi, mentre leggevo un libro di Camus, seduto sul letto con le spalle poggiate sul cuscino, l'ombra si insinuò nella mia stanza. Mi sono nel tempo convinto che ci fosse sempre stata, ma che non avessi ancora sviluppato i sensi adatti per vederla.
Sedette alla mia scrivania, dove scarabocchiavo pensieri e studiavo. Non aveva gambe, né volto, né un corpo paragonabile a quello di un essere umano. Eppure, mi sembrò di cogliere un cenno, una specie di invito ad avvicinarmi. Provai un senso di sollievo, invece di paura. Se né psichiatri, né sacerdoti, né pittoreschi medium ed esperti dell'occulto avevano trovato in me tracce di qualcosa di malato o di sbagliato, forse era finalmente giunto il momento in cui avrei capito da dove provenissero le immagini nefaste che, privo di coscienza, avevo impresso su carta.
Andai verso l'ombra. Man mano che mi avvicinavo, mi accorgevo della sua reale consistenza, più simile a un denso vapore nero, vivo, scosso da spasmi improvvisi, venato da quelle che mi sembrarono escoriazioni rosso scuro.
Mi fermai quando stavo per entrare in contatto con lei, incerto sul da farsi. Nell'aria sentii odore di nebbia e di foglie morte. Percepii un nuovo cenno, un invito a proseguire. Incapace di provare paura, privato di ogni basilare istinto di sopravvivenza, sedetti sulla sedia. Occupai lo spazio già occupato dall'ombra, ma in realtà fu lei a occupare qualcosa. Fu come un'iniezione prolungata: un liquido caldo mi percorse le vene, impetuoso raggiunse il cuore che lo pompò a ogni estremità del mio corpo e al cervello. Fu quello il momento in cui si aprì un nuovo sguardo. Il mondo intorno a me cambiò, le luci si ingigantirono; lo stesso fece il buio. Ogni sfumatura di colore divenne nitida e riconoscibile. Ma la vera novità non era lo sguardo su ciò che mi circondava, ma quello su ciò che sarebbe stato, su spazi sconfinati e incontaminati, vallate ghermite dal fuoco e dominate dai lamenti, fosse di liquidi nerissimi, miasmi atroci, richiami imploranti, urla inumane.
Volai su luoghi impossibili, dalle geometrie che non potevano essere spiegate con le regole degli uomini. Vidi uomini impalati, donne martoriate con attizzatoi incandescenti, vecchi sgozzati, teste che rotolavano lungo brulli pendii, braccia ricucite al contrario, tavole sporche imbandite di pezzi di carne marcescente, insetti immondi che ronzavano e suggevano nutrimento, bestie brulicanti negli anfratti tenebrosi, negli angoli delle strade distrutte e abbandonate dalla luce.
Le immagini mi riempivano gli occhi e sentivo la testa sul punto di esplodere, eppure non riuscivo a chiudere gli occhi. Chiederei perdono a Dio se ci credessi, ma il morboso desiderio di scandagliare i limiti della decenza umana superava la resistenza di fronte all’impensabile e all’osceno.
Riuscii a chiudere gli occhi solo quando ogni nervo del mio corpo raggiunse un grado di tensione tale da non essere più sostenibile. Quando li riaprii, ero di nuovo sulla sedia, davanti alla scrivania. Su un foglio, era comparso dal nulla il disegno di un vecchio con la gola recisa in modo irregolare. I suoi occhi sgranati e ricolmi di sofferenza mi fissavano. Balzai in piedi per scovare l’ombra che mi aveva attirato e costretto al viaggio tra le agonie, ma non ce n’era più traccia.
Mi colpii la testa coi pugni, strinsi i denti per non urlare la mia frustrazione: cosa c’era in me di così sbagliato? Ero forse malato? Potevo essere pericoloso per l’incolumità di chi mi circondava? Mentre mi angustiavo, così com’era successo pochi anni prima fui raggiunto dalla voce di mio padre, che parlava al telefono col papà di Lavinia. Non ebbi bisogno di sentire i dettagli della conversazione. Furono sufficienti il tono di mio padre, la sua costernazione e incredulità.
Non potevo più restare lì. Non potevo rischiare di essere causa o facilitatore di avvenimenti tragici, sofferenze e morte di persone a me care. Misi in uno zaino qualche maglione, due spicci, dei fogli e una matita. Prima di uscire dalla finestra e lasciarmi per sempre alle spalle la casa della mia famiglia, lasciai un biglietto a mio padre, scusandomi per la mia esistenza.
Vagai per i bassifondi della città, alla ricerca di un luogo dove passare le notti gelide. Di giorno, abitavo le vie del centro, dove mi confondevo tra giocolieri e artisti di strada. Disegnavo oscenità e morte, riportando su foglio ciò che vedevo ogni volta in cui l’ombra mi faceva visita. Le persone che mi circondavano, quelle di cui arrivavo a conoscere almeno il nome, man mano si spegnevano o pativano sofferenze che i miei disegni prefiguravano. Capii che non ero io a causare tutto quel dolore: il mio dono infausto era di vedere prima ciò che sarebbe successo, di mettere su carta gli infiniti modi di soffrire che la vita pone dinanzi a tutti noi.
Al calare del buio, mi ritiravo nei quartieri più malfamati, sotto i ponti, sul limitare umido del fiume, tra rifiuti e deiezioni umane, immerso nel fetore e nei gemiti notturni di ubriachi e disperati. Fino a quando un uomo elegante, a pochi giorni dal Natale, notò i miei disegni in una via del centro e fu affascinato dalla mia capacità di delineare i confini dell’agonia umana, di immergermi nelle peggiori pieghe della sofferenza. Rimase sconvolto dalla mia giovane età e mi chiese cos’avessi vissuto per esprimere così tanto dolore.
Mi portò nella casa isolata in cui mi trovo adesso, dietro mia precisa richiesta. Mi fornì libri, cartoncini, tele, colori e ogni cosa potesse servirmi per non uscire più, per non dover stare a contatto con persone delle quali avrei presagito la morte o gli incidenti più terribili. Per qualche tempo, mi illusi che quella fosse una dimensione accettabile per uno come me. L’isolamento mi dava quiete. Non dovendo pensare a come sopravvivere, potei concentrarmi sull’unica cosa che, istintiva e arcaica, fluiva dal mio intelletto come un pus.
L’ombra mi faceva visita ogni sera, poco dopo il calare dell’oscurità. Ho imparato col tempo che ama la luce delle candele e del fuoco nel camino. Sgattaiola da sotto il tappeto, da dietro un quadro o attraverso le fessure, mi si avvicina o mi richiama, e io mi abbandono a lei, senza opporre resistenza. Accetto i voli negli abissi, le immonde creature che abitano i luoghi più profondi e segreti della psiche umana, le perversioni e le aberrazioni che si dipanano davanti al mio sguardo come un’oltraggiosa parata carnevalesca.
Acquisite le tecniche della pittura, iniziai a realizzare quadri ispirati alle mie visioni, le agonie così ambite e desiderate dai clienti di Caleb, il mio mecenate. Non ho mai firmato una tavola, e questo ha reso il mio lavoro ancora più oscuro e carico di mistero. L’uomo che mi aveva preso dalla strada mi raccontava che, in certi circoli e gallerie, non si faceva che parlare di me e delle mie opere.
Nonostante la mia peculiare situazione, sono dedito alle debolezze tipiche degli uomini, tra le quali torreggiano l’ego e la necessità di riconoscimento. Ho resistito a lungo, per via del timore che la mia decisione potesse comportare rischi. Fino a questa mattina, quando ho chiesto a Caleb di condurmi a una delle mostre che espongono i miei dipinti.
Che sorpresa mista a brividi quando ho letto il cartellone affisso all’ingresso del palazzo: Il pittore di agonie. Un collage di immagini prese dalle mie visioni coronava i caratteri rossi, della foggia di macchie di sangue che colavano. Una pantomima di stereotipi dell’horror nella sua forma più mediocre.
Sono entrato per confondermi tra la folla e ascoltare le opinioni e i commenti dei visitatori. A un tratto, devo essere caduto vittima di una specie di amnesia, e quando ho riaperto gli occhi, circondato da persone spaventate e sospettose, stringevo tra le mani il disegno raffigurante il mio mecenate decapitato. Accanto al corpo, c’era un uomo con le mie fattezze. Tra le mani stringeva un’accetta.
Sono corso via, cercando Caleb tra la folla di persone che mi indicavano. Qualcuno ha urlato: «Deve essere lui! È sicuramente lui! Il pittore di agonie.»
Se anche quel disegno, che ora è qui sulla scrivania e mi occhieggia sinistramente, è premonitore di qualcosa, significa che mi macchierò di un orrendo delitto. Non so se un uomo ha la forza e la possibilità di determinare il proprio destino. Devo però almeno provarci. Conosco soltanto un modo per farlo, ed è per questo che ho dipinto me stesso penzolante da un cappio, le braccia molli lungo i fianchi, il capo chinato nella postura della morte.
Il cappio è lì nell’angolo della stanza, tra la poltrona e la catasta di legna. Devo essere risoluto come la notte in cui ho lasciato la casa di mio padre. Sento il rumore dei passi sul sentiero di accesso. Potrebbe essere Caleb, e potrebbe avverarsi l’ultima profezia dell’ombra.
È già buio. Qualche istante fa, dal camino mi è parso fuoriuscire uno sbuffo di nebbia scura. Ma forse è solo fumo prodotto dalla legna umida.
Qualcuno ha bussato alla porta. Sento la voce di Caleb chiamare il mio nome.
Mi volto per accertarmi che l’ombra non sia ancora arrivata. I miei occhi si posano sull’accetta. È appesa accanto al camino. Le fiamme si riflettono sul metallo, in una danza sinuosa e ipnotica.