[H2022R] Non ho un nome
Posted: Sun Nov 06, 2022 12:47 pm
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Carta 18: La segreta - prigionia, deprivazione, abbandono
Varcato lo stretto passaggio, si ritrovò in un’ampia cavità.
Avanzò di qualche passo, dando a modo anche agli altri di entrare.
Si trovavano in una grotta quasi circolare, una decina di metri di diametro, misurò Jim a larghe falcate. L’altezza era considerevole: potevano tenersi ritti in piedi per la prima volta da quando si erano calati nel pertugio d’ingresso. Potevano infine rilassare gambe e spalle stanche di stare curve.
Dalla stanza in cui si trovavano si dipartivano tre cunicoli che sembravano percorribili. La giornata non sarebbe bastata per esplorarli tutti. Sarebbero dovuti tornare, ma la cosa non li spaventava: se si fossero imbattuti in pitture rupestri ancora sconosciute, come speravano, la spedizione li avrebbe occupati per settimane. Soprattutto per Jim, il cui contratto di ricercatore arrivava al termine e non sarebbe stato rinnovato, la speranza assomigliava a una fantomatica scialuppa di salvataggio nell’oceano della precarietà.
«Ci fermiamo qui per mangiare? Almeno possiamo sederci senza starci addosso l’un l’altro. E l’odore sembra meno forte, forse sorci e pipistrelli preferiscono posticini più piccoli e intimi, per i bisogni.»
In risposta alla domanda di Phil, tutti posarono gli zaini a terra e scelsero ognuno la roccia levigata che sembrava fornire il sedile più confortevole. Laura, Jim e Tony scartarono le barrette proteiche e le addentarono affamati. Fu l’odore a far girare all’unisono le loro teste in direzione dell’amico.
«Bè? Che c’è? Mangiatevi le vostre barrette, io al panino con il paté di fegato non rinuncio. È una tradizione di famiglia, cosa credete avesse con sé come provviste mio nonno, quando scoprì la grotta di Lescaux?»
«Tuo nonno non ha scoperto Lescaux» ribatté Laura. «Smettila con queste scemenze.»
«Certo che sì, solo che gli hanno rubato la scoperta per prendersene la gloria, quegli stronzi… Cos’è stato?»
Jim alzò una mano a intimare il silenzio. Un rumore fievole ma deciso sembrava emanare dal cunicolo più a destra.
«Un animale?»
«O un incauto turista caduto per caso in una grotta inesplorata, si è rotto una gamba nella caduta, ma ha scoperto importanti pitture preistoriche, rubandoci il mestiere e la gloria. Come successe a mio nonno.»
«Phil, piantala con tuo nonno!»
Ahhhhhh
Di nuovo.
«Cazzo, sembra davvero un lamento.»
«Sarà una fessura da cui passa il vento, sai come possono essere strani gli effetti sonori quaggiù.»
Non ci fu bisogno di discuterne, tutti rimpacchettarono i viveri appena assaggiati e si rimisero in piedi. Caricati gli zaini in spalla, strette per bene le cinghie di imbracature ed elmetti, si misero in cammino in fila indiana in direzione dei lamenti.
Il cunicolo era stretto e sinuoso. Per fortuna avevano riposato un po’ i muscoli nella pausa, perché ora la tensione e la concentrazione erano massimali.
Lo stretto budello terminava in uno slargo. Un enorme masso sbarrava il passaggio impedendo di proseguire oltre.
«E adesso?»
I quattro amici si guardarono. Dovevano fare dietro front?
Ahhhhhh
Il lamento proveniva da oltre il masso. Non potevano lasciar perdere.
Studiarono la roccia: sembrava quasi un menhir. Non era stata la natura a posarlo lì, doveva esserci stato messo volutamente. Ma da chi? Quando? E perché?
Aiutatemi.
La voce era sempre più debole, ma questa volta nessuno poteva più sospettare che fosse opera del vento.
«C’è qualcuno?» chiese Jim, senza ottenere risposta.
Forse erano stati tutti vittima di un’allucinazione sonora, ma dovevano sincerarsene. E se la roccia fosse stata messa lì in secoli lontani a protezione di un luogo sacro, magari un tempio ancestrale dalle pareti istoriate? Nessun menhir li avrebbe privati della gloria accademica.
Si attivarono con mazzette e scalpelli per scavare il suolo su cui posava il pesante masso. Fu un lavoro lungo e faticoso, dovettero darsi il cambio più volte. Il tempo scorreva e sapevano che poi avrebbero dovuto prendere il cammino di ritorno a tutta velocità, ma ormai era impensabile non scoprire cosa celasse quella barriera misteriosa.
Il masso cominciò a vibrare sotto la loro spinta. Pesarono contro di lui con tutta la forza dei loro corpi, fino a farlo avanzare di qualche centimetro. Cambiarono il senso della spinta e riuscirono a farlo slittare sul lato abbastanza da aprire un pertugio sufficiente a farli passare, di lato, uno dietro l’altro.
Il primo fu Jim, come sempre.
L’aria umida e opprimente era intrisa di miasmi pestilenziali. Odori animaleschi: sudore, urina, feci, sangue… accumulati da tempi remoti.
«Dev’essere l’odore che ha respirato Dante entrando nel primo girone dell’inferno» lanciò Jim. Aveva avuto l’intenzione di scherzare, ma la voce era uscita incerta, quasi tremante.
«Ehi, poeta, il nostro obiettivo è una scoperta spettacolare che faccia entrare il nostro nome nei libri di storia, non incontrare Brunetto Latini. Vedi di proseguire, invece di filosofeggiare.»
La stanza in cui erano entrati era abbastanza larga, il soffitto era alto, la luce delle lampade frontali non arrivava abbastanza lontano per renderlo visibile. Si guardarono intorno, rischiarando i luoghi un settore alla volta.
Resti di ossa e pelli di animali difficili da identificare ricoprivano interamente il suolo. Qui e là si accatastavano a formare veri e propri cumuli.
«Una sala dedicata a sacrifici rituali?» chiese Laura. Illuminò le pareti intorno, in cerca di una conferma alla sua ipotesi. Delle pitture religiose, magari di una religione ancestrale ancora sconosciuta. Quella sì, sarebbe stata una scoperta.
Aiutatemi.
Eccitati dall’esplorazione, avevano quasi dimenticato il lamento che li aveva condotti lì. Sussultarono, richiamati al dovere di soccorso. Unirono i raggi delle lampade per esplorare l’intera stanza.
Aiuto
«Là!» Phil puntava con il dito e con la lampada uno dei mucchi d’ossa e pelli sul fondo. Era più grande degli altri, una sorta di duna lunga e piatta.
Ahhhh. La duna tremò, lasciando uscire il suono.
Gli speleologi s’incamminarono in quella direzione. La mano destra di Phil stringeva la mazzetta che portava alla cintura.
Man mano che si avvicinavano, videro che il mucchio d’ossa e pelli era in realtà un essere vivente. Giaceva steso al suolo, trattenuto da possenti catene, infilate in anelli dello spessore di un braccio umano, infissi nel suolo di roccia.
«Ma cosa?»
Aiuto. Vi prego!
La creatura tentava di agitare gli arti e la testa, ma le catene che la costringevano da ogni lato non gliene lasciarono la possibilità. Arti e testa dall’aspetto innegabilmente umano, riconobbero con orrore i quattro speleologi.
Dove diavolo erano finiti? Invece di una grotta inesplorata da secoli si erano infilati nell’antro di un sadico criminale da film dell’orrore?
Laura si inginocchiò a pochi centimetri dal corpo incatenato. I resti di una tunica sudicia e lacera lasciavano scoperti vasti lembi di epidermide. Una pelle così pallida e bluastra da sembrare trasparente. L’essere era magro e smunto al punto che non sembrava quasi esserci carne a separare ossa e vene dalla pelle. Da quanto tempo quel povero disgraziato era rinchiuso lì nel buio?
Le dita della mano destra del prigioniero si tesero fino a sfiorare il ginocchio di Laura, intenta ad esaminarne il corpo. Il contatto di quelle estremità gelide e ossute la fece sobbalzare e se ne vergognò.
Scusami. Non volevo impaurirti. Era da tanto che non vedevo anima viva. Volevo essere sicuro che sei vera.
Tossì, come se tutte quelle parole insieme avessero imposto uno sforzo eccessivo alla sua gola.
Laura si forzò di domare il ribrezzo e gli accarezzò la mano per rincuorarlo. Le ricordava uno di quei finti spettri da galleria degli orrori al luna park.
«Chi sei?» gli chiese piano.
Si avvicinò ancora per scostare i lunghissimi capelli sporchi e annodati che gli ricoprivano il volto. Solo gli occhi erano visibili, d’un blu quasi svanito in un bianco iniettato di sangue. L’intero viso era nascosto da una grottesca maschera di ferro, interrotta da due fori per gli occhi e una fessura all’altezza della bocca. Ecco perché la voce dell’uomo suonava strana, sibilante e lontana anche ora che gli erano accanto.
«È una candid camera? Siamo passati da Dante a Dumas?» sbottò Phil, ma nessuno rise, nemmeno lui.
«Chi sei?» chiese di nuovo Laura.
Non ho nome. Nessuno me ne ha dato uno.
«Non ti hanno mai dato un nome? Ma che significa?»
Non lo meritavo. Dalla mia nascita, mi hanno odiato.
I quattro amici si guardarono. Forse avevano trovato ancora peggio di un sadico serial killer.
«Ma i tuoi genitori…»
Mamma? Mamma mi odiava. Aveva paura. Non poteva tollerare la mia… ciò che sono.
«Che vuol dire? Non poteva tollerare ciò che sei?»
Sbagliato, sono sbagliato. Il male. Non posso vivere con gli altri… con le persone normali.
La voce di Laura era stridula, spezzata dall’indignazione. «Quali bestie ti hanno rinchiuso qui? Hanno deciso che non rispondevi ai loro criteri di normalità e ti hanno rinchiuso qui a crepare?»
No, uccidere me, no. Rinchiuso affinché non posso fare male. La mia natura è male. Mi portavano da mangiare, quasi ogni giorno.
«Accidenti, che generosità, ti hanno incatenato qui perché non disturbassi con la tua anormalità, ma ti danno da mangiare? Cazzo, e io che pensavo che fosse stronza mia madre a dirmi “in camera da letto fai quello che vuoi, ma io non devo saperne nulla”, ma qui…»
Ma ora non vengono da tanto tempo. Forse mi hanno dimenticato. O sono malati. Non so. Ho tanta fame.
La magrezza del corpo urlava la fame più della sua voce. Era così debole, magro, le gambe sembravano stecchi e le braccia avevano il diametro d’un manico di scopa. Incredibile che fosse ancora vivo e in grado di parlare.
Fame, tanta fame. E sete.
Laura prese la borraccia dallo zaino e fece scivolare qualche goccia dentro alla fessura/bocca della maschera. L’uomo tossì, quelle poche gocce dovevano essergli andate di traverso.
Ignoravano da quanto non si fosse nutrito, per quanto potesse ancora sopravvivere.
Laura parlò a nome di tutti.
«Ti libereremo. Potrai mangiare e troveremo il modo di portarti fuori di qui. Resisti ancora un po’.»
La maschera dell’uomo vibrò mentre tentava di scuotere il capo.
No, uscire da qui, no. Sono il male. La mia natura è malvagia.
«No, nessuna natura è sbagliata. Hai diritto di vivere anche tu. Non credere gli orrori che ti hanno raccontato.»
No. L’uomo piangeva dentro la maschera. No.
I quattro amici s’attivarono con mazzette e scalpelli. Gli anelli d’acciaio erano troppo spessi per sperare spezzarli, ma potevano erodere il suolo a cui erano fissati.
Lavorarono in squadra, a due a due, per liberare i polsi dell’uomo. Quando avrebbe infine potuto mettersi a sedere, avrebbero trovato il modo di togliergli l’orrenda maschera. Quale deformità aveva potuto spingere dei pazzi fanatici a trattarlo da mostro? Era cresciuto in catene e maschera? Domande senza risposta riempivano le loro teste mentre le mani si accanivano a sgretolare la pietra.
L’anello destro si liberò per primo, seguito dall’altro a distanza di pochi secondi. Il prigioniero mosse piano i polsi, quasi incredulo di poterlo fare. Roteò i polsi e piegò e distese le dita. Lunghe e magrissime, prolungate da unghie infinite e ritorte, sembravano artigli d’aquila.
Piegò i gomiti e si portò le mani al viso.
I suoi salvatori sorridevano a vederlo approfittare infine delle proprie braccia.
«Ora ti liberiamo anche di quella maschera infernale, vedrai» disse Jim. Si sentiva euforico, non solo per il salvataggio, ma perché, se la scoperta storica e l’ingresso nei manuali pareva al momento sfumata, finire sui giornali come eroe di una storia incredibile come quella che stavano vivendo non solo sarebbe stato gratificante, ma aveva buone probabilità di procurargli fama, incontri e forse anche ricchezza.
«Jimmy, la smetti di sognare e ci dai una mano? Il lavoro non è mica finito» lo richiamò all’ordine Phil, dandogli un buffetto sulla spalla.
I due amici si rimisero a scavare sotto l’anello che teneva il piede destro bloccato al suolo.
«Manca poco, vedrai» annunciò al prigioniero che continuava a guardarsi le dita e muovere le braccia come in una strana danza di libertà ritrovata.
Sembrava quasi in trance, così felice di poter di nuovo muovere e guardare le proprie braccia da aver dimenticato tutto, anche la presenza dei suoi insperati soccorritori.
«Fatto!» esclamò Laura quando lo spesso anello scivolò fuori dalla roccia. «Anche il piede è libero.»
Forse fu la parola libero a destarlo dall’incanto. Smise di osservarsi le dita per guardare i piedi, mentre anche l’ultimo anello si staccava infine dal suolo.
Libero! urlò e si mise a ridere. Agitò i piedi come un bambino, facendo tintinnare le spesse catene come grotteschi carillon. I quattro amici si spostarono per evitare di beccarsi un calcio. Lo guardarono tirarsi a sedere, con fatica, poi piegare e distendere le gambe.
«Non penso che riuscirai a metterti in piedi subito, dopo, tanto tempo» gli disse Laura.
L’uomo non sembrava ascoltarla, continuava a piegare e distendere le gambe, come se le scoprisse per la prima volta. Rise ancora. Poi, come se se ne fosse appena ricordato, portò le mani alla maschera.
«Aspetta» intervenne Jim. «Adesso cerchiamo il modo di liberarti anche di quella.»
Non serve. Faccio io. E prima d’aver finito di parlare, strinse la gabbia d’acciaio che gli intrappolava il viso tra le dita e se la strappò come fosse una maschera di cartapesta al carnevale.
I quattro amici rimasero esterrefatti davanti alla forza sovrumana di quelle dita esili: com’era possibile? Ma la loro sorpresa si trasformò immediatamente in orrore quando dalle mani i loro sguardi si posarono sul volto dell’uomo. Nonostante il pallore e gli occhi iniettati di sangue da una vita priva di luce, il viso non presentava deformità, anzi era quasi attraente. Un viso liscio, pallidissimo, senza l’ombra di un pelo. Sembrava giovanissimo e antico insieme. Era la bocca a non assomigliare a nulla di ciò che avevano visto prima. Tranne forse nei film, o negli acquari. Una bocca enorme, quasi senza labbra, spalancata in un sorriso agghiacciante di quattro fila di denti acuminati.
«Fame. Tanta fame.» La sua voce non sibilava più, liberata dalla maschera, anzi, era quasi suadente.
I quattro amici lo guadavano attoniti, incapaci di muoversi. Increduli di ciò che vedevano. Si alzò in piedi senza fatica e sembrò d’un tratto diventare altissimo, un gigante che li sovrastava tutti.
«Grazie, amici. Grazie. Io dispiaciuto farvi male, ma è la mia natura. Tanta fame.»
Non dovette nemmeno muovere un passo: Laura era ancora immobile accanto a lui. L’afferrò con entrambe le mani, la tirò a sé e le affondò i denti mostruosi nella spalla. Il sangue schizzò in getti violenti mentre la creatura se ne nutriva golosa. Furono la vista e i suoni animaleschi di quel pasto immondo a scuotere gli altri tre dalla sorta di trance in cui erano rimasti. Jim avanzò in direzione dell’amica, la mazzetta ancora stretta nella mano, senza riflettere, si buttò in avanti. Il mostro staccò la bocca dal corpo inanimato di cui si stava cibando e lo lasciò cadere. Con un buffetto distratto respinse il martello che gli si parava contro e lo fece volare lontano. Con l’altra mano, afferrò il collo di Jim e lo portò alle fauci. L’uomo non riuscì nemmeno a urlare, prima che i denti feroci gli affondassero nella carne a strapparne la vita.
Furono Phil e Tony a gridare per lui, prima di precipitarsi all’uscita. La creatura li guardò divertita litigare per essere il primo a infilarsi nel pertugio tra il masso e l’ingresso della grotta. Continuò a godersi il pasto, senza fretta, dopo tanto digiuno. Sapeva di poterli raggiungere ben prima che arrivassero all’uscita. Era più forte di loro, più veloce, più agile. Era diverso. Lo era da sempre. Non ne aveva colpa. Era la sua natura. E adesso, era libero.