[H2022R] La promessa
Posted: Sun Nov 06, 2022 11:38 am
L'impiccato
Il rovesciamento
Il sacrificio
Il vulnerabile
1. Il Falò
«Fame, ho fame!» Si lamentò Maria guardando con desiderio il cartone della pizza.
«Oh, ma siamo sicuri che quei due hanno capito dove siamo?» Chiese Matilde.
«Sì.» Confermò Giorgio con una punta di esasperazione nella voce. «Gliel’ho spiegato per filo e per segno: al Capo, seguite il viottolo che porta alle Piscine di Venere. Cioè, fino al mare.» Armeggiò per qualche secondo col cellulare. «Niente, non rispondono».
Matilde decise che era giunto il momento di passare all'azione: si sporse dal telo mare fucsia facendo attenzione ad evitare la lampada da campeggio posta al centro di quel piccolo accampamento fatto di spugne, zainetti e scarpe da tennis e puntò con decisione la scatola da cui proveniva l’invitante profumino.
Vedendo il gesto dell’amica, Maria cominciò a ridere. «Liberi tutti!» Gridò, prima di allungarsi anche lei sui tranci di capricciosa.
«Ferme donne! Guai a chi si avvicina!» Lillo si gettò sul cartone coprendolo col proprio corpo.
«No, così non vale!» lo redarguì Matilde.
«Non puoi prendertela tutta tu!» Protestò Maria. «Giorgio, fa' qualcosa!»
«Che cosa? Io sto difendendo la pizza da voi, ragazze fameliche!»
«Ehi, ma sono loro?» Giorgio fissava l’orizzonte «Oh, sono arrivati!»
Dalla parte alta del viottolo scendeva una coppia. I due ragazzi erano abbracciati e, mentre uno dei due, con la mano libera, portava una borsa frigo, l’altro teneva una bottiglia di birra che ogni tanto portava alle labbra.
«Ma quello nuovo, l’amico di Zal, porta gli occhiali da sole anche a quest’ora?» Chiese Maria, scuotendo il capo e ridacchiando.
«Sembra figo, però.» Commentò Matilde, subito fulminata da un’occhiataccia di Lillo. «Mai quanto te, amore!» Lo rassicurò prima di avvinghiarsi a lui e baciarlo.
2. Il racconto
«Un altro po’, Atash?» Chiese Zal al cugino, mostrando la bottiglia di birra.
Quello agitò la mano. «No. Ho bevuto abbastanza».
«Comunque, è proprio bello qui.» Aggiunse il primo dei due ragazzi facendo scorrere lo sguardo in quella conca naturale chiusa sui due lati da speroni di roccia calcarea.
Poco distante il mare gorgogliava appena.
«Forse un po’ isolato, ma bello.» Aggiunse.
«Atash, ti iscriverai anche tu nella nostra scuola, come tuo cugino?»
Il giovane si voltò verso Maria, facendo una smorfia. «Possibile. Non lo so ancora.»
«Ok, ragazzi, e ora che si fa?» Lillo aveva pronunciato la domanda con voce stentorea, come suo solito.
«Guardiamo le stelle cadenti: non siamo venuti per questo?» Fece Maria sistemandosi gli occhialetti tondi sul naso.
Lillo scoppiò in una risata fragorosa.
«Giorgio resta volentieri a contare stelle con te, vero Gio’...?»
«Simpaticone...» Commentò quello.
«... quanto a me, pensavo ad altro.» Baciò la fronte di Matilde, che aveva poggiato la guancia sulla sua spalla, e fece risalire la mano dal ginocchio di lei lungo la coscia fin sotto il bordo del pareo.
«Non cominciate a fare gli asociali, tutti e due!» Li redarguì Maria. «Potremmo fare il bagno, che ne dite?»
«E se facessimo un gioco?» propose Atash.
Tutti lo guardarono sorpresi: a differenza del cugino, il giovane iracheno non era sembrato un tipo molto espansivo. Per tutta la serata aveva parlato solo quando interrogato e anche in quel caso facendo economia di parole.
«Ciascuno di noi racconterà una storia, di quelle spaventose intendo, e alla fine sceglieremo quella più terrificante.»
«Magari ne esce fuori una storia di successo come quella di Frankenstein! Sapete che Mary Shelley...»
«Sì, Giorgio, lo sappiamo.» Maria dette un pacca sulla spalla dell’amico, ridendo.
«Per me sta bene!» fece Lillo.
«Mah, non lo so… Non sono brava in queste cose: non ho fantasia.» Obiettò Matilde accarezzandosi una lunga ciocca di capelli tinti di rosso.
«Non preoccuparti» la rassicurò Atash «Facciamo iniziare Zal: lui racconta sempre la stessa storia, ma fa paura davvero. E così avrai il tempo per pensarne una tua.»
Zal sembrò rabbuiarsi.
«Vero, Zal?» lo incalzò il cugino.
Il ragazzo annuì. «Sì, inizio io.» Rispose senza entusiasmo.
Tutti si fecero più vicini al narratore e Zal, lo sguardo basso sulla lampada da campeggio, iniziò.
«La Guardia cittadina arrivò di notte, quando tutti dormivano e i ciocchi ardenti nel falò erano ormai braci rosseggianti.»
«Ehilà... braci rosseggianti!» Lillo rideva «Si vede che non stai improvvisando.»
Zal fece una pausa, poi riprese senza rispondere e senza cambiare tono della voce.
«Erano rivestiti di bronzo e avevano con loro lance ed archi. Circondarono i viandanti, accampati fuori dalla porta della Città, radunando anche coloro che si erano allontanati ai primi sentori di ciò che stava accadendo.»
«Che città era?» Chiese Giorgio.
«Ma lo lasciate parlare?» Sbottò Matilde.
Zal sollevò lo sguardo verso il ragazzo abbozzando un sorriso. «Irruth, si chiamava così; era una ricca città della Mesopotamia meridionale.»
Giorgio annuì.
«Furono portati tutti all'interno di una cisterna vuota e passati in rassegna dal Re e dai sacerdoti del dio Enki e della dea Tiamat. Questi ultimi sembravano assai soddisfatti dei prigionieri e andavano dicendo che sarebbero stati un sacrificio assai gradito a Colui che scuote la terra dalle fondamenta, il quale avrebbe certamente smesso di molestare i bravi cittadini di Irruth e i loro armenti.»
«E sentire parlare di "sacrificio" non suscitò le preoccupazioni di nessuno?» Domandò Matilde.
«Eccome!» Riprese Zal. «Il Re era appena andato via che già tra i prigionieri si era diffuso il panico. "Verrete divorati vivi", dicevano le guardie, "vi arderà nelle sue fiamme demoniache per l'Eternità" e ridendo schernivano i malcapitati.
Qualcuno, allora, cercò con la forza di fuggire. Erano in tre, mercanti a giudicare dai loro indumenti: aggredirono delle guardie e riuscirono anche a rubare la lancia ad una di loro, ma furono ben presto spinti contro le pareti di pietra della cisterna dagli altri armigeri.
Il capo del plotone ordinò che fossero portai al suo cospetto, al che uno dei subordinati gli chiese cosa volesse fare.
"Dare una lezione esemplare a questa marmaglia!", rispose quello. Ma quando la guardia ribatté che non poteva ucciderli per non mettere a rischio la riuscita del sacrificio, il graduato pretese che almeno quello che si era impossessato della lancia fosse punito.
"Solo uno in meno tra tutti questi; Colui che scuote la terra dalle fondamenta nemmeno se ne accorgerà".
L'uomo venne fatto inginocchiare. Piangeva. Gli altri prigionieri, tenuti a bada dalle guardie trattenevano il respiro, osservando la scena con occhi sgranati.
Una guardia gigantesca si avvicinò al condannato con una mazza di pietra, la sollevò su di lui poi, caricando tutto il suo peso, l'abbatté sulla nuca dell'uomo immobilizzato. Si sentì un crac distinto e la mazza si colorò di rosso.
Mentre si levava il clamore dei prigionieri, la guardia continuava a infierire sulla testa e sul volto di quello crollato a terra. E fu allora che si sentì. Il pianto di un bambino.
Era un paio di passi dietro al gruppetto dei prigionieri, isolato. Singhiozzava. Andava errando senza meta con le piccole braccia tese, urtando a volte i compagni di sventura. Era cieco.
Una delle vittime sacrificali, un giovane di forse vent'anni, se ne accorse. Gli andò incontro e lo tranquillizzò.
"Stai con me" gli disse "ti prometto che non ti accadrà niente di male". Mai promessa fu più bugiarda.»
La voce di Zal tremò per un istante.
«L'indomani mattina furono condotti al luogo del sacrificio. Da fuori sembrava un giardino, circondato com'era da verdi piante rigogliose, ma sui muri di recinzione erano intagliati strani simboli magici. Su tutti troneggiava un grande occhio.
Gli armigeri li spinsero dentro con visibile fretta di allontanarsi da lì.
All'interno, il rigoglioso giardino era secco e brullo. Morto, si direbbe, e la vista di quella desolazione gettò i prigionieri ancor più nello sconforto.
Qualcuno provò a dare la scalata alle mura di cinta, ma il perimetro era sorvegliato dagli arcieri: il sibilo delle loro frecce convinse i fuggitivi a desistere.
"Restiamo uniti" disse qualcuno. "Cerchiamo qualcosa che possa essere usata come arma" suggerì un altro, ma quel luogo spettrale non offriva niente di utile allo scopo. E intanto il gruppo si inoltrava al suo interno.
Ad un tratto, si sentì una specie di ruggito. Era possente e profondo, vibrava come il rumore di due schiere in armi che, urlando, cozzavano sul campo di battaglia.
Quando gli echi di quel rombo si furono placati, una nenia agghiacciante si distese su quel luogo infame. Era un lamento disperato, un coro di mille e mille voci spettrali che feriva le orecchie e che sembrava volersi far strada fin dentro il cervello.
Qualcuno cadde al suolo, dimenandosi, con la testa tra le mani. Un attimo e fu il fuggi-fuggi. Della compattezza di quel gruppo di sventurati non restò nulla.
"Non avere paura, ti porto via!"
Il giovane premuroso prese in braccio il bambino, che singhiozzava impaurito, e iniziò a correre. Quando il dolore al fianco diventò insopportabile, lo mise giù e si piegò per riprendere fiato. Ritenne che fossero protetti alla vista dagli scheletrici roseti tra i quali si erano rifugiati ma, poco distante da lì, provenne l'urlo spaventoso di uno dei prigionieri.
Il ragazzo fece qualche passo nella direzione opposta, ma anche da quella direzione giunse un gemito di dolore frammisto ai rumori di una colluttazione: quella cosa si spostava ad una velocità incredibile!
Il bambino aveva ripreso a piangere.
"No, ti prego, non fare rumore!" sussurrò il giovane. Gli prese la mano e, non sapendo dove altro andare, lo condusse verso l'ingresso di quel luogo di morte che all'inizio avevano scambiato per un giardino.
Superarono il roseto e una scena raccapricciante si offrì alla vista del ragazzo: il corpo di uno dei compagni di prigionia era appeso a testa in giù ad un gancio fissato alla parete. Era stato privato della pelle fino a portare alla vista il rosso acceso dei tessuti e dall'addome aperto gli intestini fuoriuscivano fino a raggiungere il suolo.
Con un riflesso involontario coprì gli occhi del bambino prima di tornare consapevole del fatto che lui non poteva vedere.
"Sei fortunato a non vedere le brutture che ci riserva questo mondo!" Disse amaro.
Erano ormai prossimi al portone d'ingresso, quando furono investiti dalla cacofonia delle voci dei dannati e poi quella cosa, era un Demone, ormai non c'era più dubbio, si manifestò. Sembrava fatto di ombra e fiamme, ardeva pur essendo ammantato di oscurità. Ed era alto, oddio se era alto... almeno quanto cinque uomini adulti.
Il Demone osservò la scena per un momento, poi partì alla carica.
Il primo istinto del giovane fu quello di mettersi in salvo ma quando vide quell'essere incombere sul bambino tornò sui suoi passi.
"Lascialo!" Gridò. "Prendi me".
E fu allora che successe una cosa da non credersi. Quel'essere abominevole si fermò. Avrebbe potuto colpire il ragazzino inerme, invece si limitò a fissarlo. Persino il coro delle anime dannate sembrò più flebile, le loro voci pervase dalla sorpresa.
Poi il Demone si riscosse: lanciò un ruggito potentissimo. L'esplosione che ne seguì strappò via dai cardini il pesante portone di bronzo del giardino nemmeno fosse stato un impalpabile velo di seta; anche interi tratti delle mura rimasero letteralmente sbriciolate dallo spostamento d'aria.
Fu allora che il Demone si chinò sul bimbo. L'ombra di cui era fatto prese la consistenza del fumo di carbone e, come fumo, quell'essere penetrò nella bocca e nelle narici del piccolo fino a sparire al suo interno.
Quando tutto si fu compiuto, il bambino si alzò in piedi e voltandosi nella direzione del giovane tese la mano.
"Vieni con me." Disse.
E da allora il Demone, sotto le mentite spoglie del bambino cieco, circola indisturbato per le città degli uomini, disseminando orrore e sofferenza, accompagnato dal giovane mortale.
3. La Rivelazione
«Allora? Che ne dite?» Chiese Atash.
Matilde arricciò il naso. «Che schifo tutti quei dettagli sugli sbudellamenti!»
«A me questa storia ha messo addosso un mondo di tristezza.» Commentò Maria.
«E paura, no?»
«Chi ha parlato di paura?» Intervenne Lillo.
«No, infatti: i dettagli erano disturbanti, vomitevoli, roba da ficcarsi due dita in gola...» Matilde accennò un risolino mentre simulava il gesto «... ma la paura è un'altra cosa; è più di testa!»
«E tu, Giorgio, cosa ne pensi? Sei rimasto in silenzio.» Chiese Atash in un soffio.
«Questa è la segreteria di Giorgio. Al momento sono assente perchè mi sono cagato addosso!»
Una manata rabbiosa si abbatté sulla spalla di Lillo che non la smetteva di sghignazzare. Anche le ragazze ridevano.
«Sarà, ma a me sembrano risate liberatorie, queste» insinuò il giovane iracheno.
«Naaa, Zal deve fare di meglio!» Lo sminuì Lillo.
«No paura.» Confermò Mati telegrafica.
«Capisco...» Dopo la breve pausa Atash riprese. «E le coincidenze? Non vi fanno venire la pelle d'oca? Ad esempio, sia io che Zal proveniamo dagli stessi luoghi dei protagonisti della storia. La Mesopotamia di allora ricade in gran parte nei confini dell'odierno Iraq...»
«E allora?» Maria fece una smorfia.
«E il fatto che anch'io, come il ragazzino della storia, sia cieco?»
Matilde spalancò la bocca e si lascio sfuggire un «Che?»
Atash si voltò verso di lei.
«Secondo te perchè porto gli occhiali scuri anche di notte?» Tolse le lenti e avvicinò il volto a quello di Matilde. «Mi piacerebbe che fosse solo per fare il figo, Mati, ma non è così. Li vedi i miei occhi spenti? Occhi che non hanno mai visto le brutture del mondo... Ma neanche le cose belle.»
«Mamma mia... » Maria aveva incrociato le braccia sul petto e si accarezzava le spalle come se avesse freddo «Mi fai venire i brividi, così.» Ridacchiò nervosamente.
«La senti, vecchio mio?» Adesso Atash si rivolgeva al cugino. «Mi sa che sono più bravo di te in queste cose.»
«Sì, infatti. Senza offesa Zal, ma adesso sì che comincio a sentirmi a disagio. Basta con le storie horror per oggi, ok?» Chiosò Lillo con un sorriso di facciata stampato sulle labbra.
Il suo interlocutore scuoteva il capo. «Nient'affatto, la paura vera arriVA ADESSO!»
La voce di Atash si era gradualmente trasformata in un ruggito. Una vampa gialla esplose nella conca delimitata dalle falesie e qualcosa di oscuro ed enorme proruppe dalla sua figura avventandosi su Zal.
Urlava a squarciagola, Zal. Il suo corpo sollevato a diversi metri d'altezza era infilzato al basso ventre da artigli d'ombra e di fiamma.
Avvolto da quell'irreale luce sulfurea, troneggiava sui presenti come un Cristo profano inchiodato ad una croce invisibile. Le braccia e le gambe, attraversate dai tremori dell'agonia, si scuotevano senza sosta quasi volessero staccarsi dal resto del corpo per cercare salvezza lontano da esso. Il volto stesso era una maschera di dolore: gli occhi sbarrati e gonfi, i bulbi sul punto di schizzare fuori dalle orbite, la bocca oscenamente spalancata.
Urlava a squarciagola, Zal, eppure i suoi gemiti erano superati dai lamenti di un numero indefinibile, immensamente grande, di anime dannate. Le loro fattezze si coglievano in trasparenza, come animati disegni a china, nella luce giallognola e malata che si stendeva sulla spiaggia come un sudario. Anch'esse si contorcevano suggerendo con le loro espressioni grottesche sentimenti di dolore, rabbia, sconfitta e perdizione.
Un ultimo strattone di quell'Essere d'ombra e Zal tacque. "Qualcosa" si era staccata da lui e, rotolando, aveva terminato la sua corsa ai piedi di Matilde.
Infine, l'oscurità palpitante si richiuse sul piccolo gruppo di amici e le urla, nella baia, cessarono.
4. Ciclo senza fine
«Mi hai riportato in vita. Ancora una volta.»
«Sì.»
«Proprio non puoi perdonarmi per quella promessa non mantenuta.» La voce era rassegnata.
Nessuna risposta.
«Quante volte ancora dovrai uccidermi per sentirti soddisfatto?» La tensione, adesso, era palpabile. «ARRIVERA' MAI IL MOMENTO IN CUI SARAI SODDISFATTO?» La voce era diventata un urlo.
«L'Eternità è un mucchio di tempo, Zal. Per te come per me. Ricordalo.»
«Fame, ho fame!» Si lamentò Maria guardando con desiderio il cartone della pizza.
«Oh, ma siamo sicuri che quei due hanno capito dove siamo?» Chiese Matilde.
«Sì.» Confermò Giorgio con una punta di esasperazione nella voce. «Gliel’ho spiegato per filo e per segno: al Capo, seguite il viottolo che porta alle Piscine di Venere. Cioè, fino al mare.» Armeggiò per qualche secondo col cellulare. «Niente, non rispondono».
Matilde decise che era giunto il momento di passare all'azione: si sporse dal telo mare fucsia facendo attenzione ad evitare la lampada da campeggio posta al centro di quel piccolo accampamento fatto di spugne, zainetti e scarpe da tennis e puntò con decisione la scatola da cui proveniva l’invitante profumino.
Vedendo il gesto dell’amica, Maria cominciò a ridere. «Liberi tutti!» Gridò, prima di allungarsi anche lei sui tranci di capricciosa.
«Ferme donne! Guai a chi si avvicina!» Lillo si gettò sul cartone coprendolo col proprio corpo.
«No, così non vale!» lo redarguì Matilde.
«Non puoi prendertela tutta tu!» Protestò Maria. «Giorgio, fa' qualcosa!»
«Che cosa? Io sto difendendo la pizza da voi, ragazze fameliche!»
«Ehi, ma sono loro?» Giorgio fissava l’orizzonte «Oh, sono arrivati!»
Dalla parte alta del viottolo scendeva una coppia. I due ragazzi erano abbracciati e, mentre uno dei due, con la mano libera, portava una borsa frigo, l’altro teneva una bottiglia di birra che ogni tanto portava alle labbra.
«Ma quello nuovo, l’amico di Zal, porta gli occhiali da sole anche a quest’ora?» Chiese Maria, scuotendo il capo e ridacchiando.
«Sembra figo, però.» Commentò Matilde, subito fulminata da un’occhiataccia di Lillo. «Mai quanto te, amore!» Lo rassicurò prima di avvinghiarsi a lui e baciarlo.
2. Il racconto
«Un altro po’, Atash?» Chiese Zal al cugino, mostrando la bottiglia di birra.
Quello agitò la mano. «No. Ho bevuto abbastanza».
«Comunque, è proprio bello qui.» Aggiunse il primo dei due ragazzi facendo scorrere lo sguardo in quella conca naturale chiusa sui due lati da speroni di roccia calcarea.
Poco distante il mare gorgogliava appena.
«Forse un po’ isolato, ma bello.» Aggiunse.
«Atash, ti iscriverai anche tu nella nostra scuola, come tuo cugino?»
Il giovane si voltò verso Maria, facendo una smorfia. «Possibile. Non lo so ancora.»
«Ok, ragazzi, e ora che si fa?» Lillo aveva pronunciato la domanda con voce stentorea, come suo solito.
«Guardiamo le stelle cadenti: non siamo venuti per questo?» Fece Maria sistemandosi gli occhialetti tondi sul naso.
Lillo scoppiò in una risata fragorosa.
«Giorgio resta volentieri a contare stelle con te, vero Gio’...?»
«Simpaticone...» Commentò quello.
«... quanto a me, pensavo ad altro.» Baciò la fronte di Matilde, che aveva poggiato la guancia sulla sua spalla, e fece risalire la mano dal ginocchio di lei lungo la coscia fin sotto il bordo del pareo.
«Non cominciate a fare gli asociali, tutti e due!» Li redarguì Maria. «Potremmo fare il bagno, che ne dite?»
«E se facessimo un gioco?» propose Atash.
Tutti lo guardarono sorpresi: a differenza del cugino, il giovane iracheno non era sembrato un tipo molto espansivo. Per tutta la serata aveva parlato solo quando interrogato e anche in quel caso facendo economia di parole.
«Ciascuno di noi racconterà una storia, di quelle spaventose intendo, e alla fine sceglieremo quella più terrificante.»
«Magari ne esce fuori una storia di successo come quella di Frankenstein! Sapete che Mary Shelley...»
«Sì, Giorgio, lo sappiamo.» Maria dette un pacca sulla spalla dell’amico, ridendo.
«Per me sta bene!» fece Lillo.
«Mah, non lo so… Non sono brava in queste cose: non ho fantasia.» Obiettò Matilde accarezzandosi una lunga ciocca di capelli tinti di rosso.
«Non preoccuparti» la rassicurò Atash «Facciamo iniziare Zal: lui racconta sempre la stessa storia, ma fa paura davvero. E così avrai il tempo per pensarne una tua.»
Zal sembrò rabbuiarsi.
«Vero, Zal?» lo incalzò il cugino.
Il ragazzo annuì. «Sì, inizio io.» Rispose senza entusiasmo.
Tutti si fecero più vicini al narratore e Zal, lo sguardo basso sulla lampada da campeggio, iniziò.
«La Guardia cittadina arrivò di notte, quando tutti dormivano e i ciocchi ardenti nel falò erano ormai braci rosseggianti.»
«Ehilà... braci rosseggianti!» Lillo rideva «Si vede che non stai improvvisando.»
Zal fece una pausa, poi riprese senza rispondere e senza cambiare tono della voce.
«Erano rivestiti di bronzo e avevano con loro lance ed archi. Circondarono i viandanti, accampati fuori dalla porta della Città, radunando anche coloro che si erano allontanati ai primi sentori di ciò che stava accadendo.»
«Che città era?» Chiese Giorgio.
«Ma lo lasciate parlare?» Sbottò Matilde.
Zal sollevò lo sguardo verso il ragazzo abbozzando un sorriso. «Irruth, si chiamava così; era una ricca città della Mesopotamia meridionale.»
Giorgio annuì.
«Furono portati tutti all'interno di una cisterna vuota e passati in rassegna dal Re e dai sacerdoti del dio Enki e della dea Tiamat. Questi ultimi sembravano assai soddisfatti dei prigionieri e andavano dicendo che sarebbero stati un sacrificio assai gradito a Colui che scuote la terra dalle fondamenta, il quale avrebbe certamente smesso di molestare i bravi cittadini di Irruth e i loro armenti.»
«E sentire parlare di "sacrificio" non suscitò le preoccupazioni di nessuno?» Domandò Matilde.
«Eccome!» Riprese Zal. «Il Re era appena andato via che già tra i prigionieri si era diffuso il panico. "Verrete divorati vivi", dicevano le guardie, "vi arderà nelle sue fiamme demoniache per l'Eternità" e ridendo schernivano i malcapitati.
Qualcuno, allora, cercò con la forza di fuggire. Erano in tre, mercanti a giudicare dai loro indumenti: aggredirono delle guardie e riuscirono anche a rubare la lancia ad una di loro, ma furono ben presto spinti contro le pareti di pietra della cisterna dagli altri armigeri.
Il capo del plotone ordinò che fossero portai al suo cospetto, al che uno dei subordinati gli chiese cosa volesse fare.
"Dare una lezione esemplare a questa marmaglia!", rispose quello. Ma quando la guardia ribatté che non poteva ucciderli per non mettere a rischio la riuscita del sacrificio, il graduato pretese che almeno quello che si era impossessato della lancia fosse punito.
"Solo uno in meno tra tutti questi; Colui che scuote la terra dalle fondamenta nemmeno se ne accorgerà".
L'uomo venne fatto inginocchiare. Piangeva. Gli altri prigionieri, tenuti a bada dalle guardie trattenevano il respiro, osservando la scena con occhi sgranati.
Una guardia gigantesca si avvicinò al condannato con una mazza di pietra, la sollevò su di lui poi, caricando tutto il suo peso, l'abbatté sulla nuca dell'uomo immobilizzato. Si sentì un crac distinto e la mazza si colorò di rosso.
Mentre si levava il clamore dei prigionieri, la guardia continuava a infierire sulla testa e sul volto di quello crollato a terra. E fu allora che si sentì. Il pianto di un bambino.
Era un paio di passi dietro al gruppetto dei prigionieri, isolato. Singhiozzava. Andava errando senza meta con le piccole braccia tese, urtando a volte i compagni di sventura. Era cieco.
Una delle vittime sacrificali, un giovane di forse vent'anni, se ne accorse. Gli andò incontro e lo tranquillizzò.
"Stai con me" gli disse "ti prometto che non ti accadrà niente di male". Mai promessa fu più bugiarda.»
La voce di Zal tremò per un istante.
«L'indomani mattina furono condotti al luogo del sacrificio. Da fuori sembrava un giardino, circondato com'era da verdi piante rigogliose, ma sui muri di recinzione erano intagliati strani simboli magici. Su tutti troneggiava un grande occhio.
Gli armigeri li spinsero dentro con visibile fretta di allontanarsi da lì.
All'interno, il rigoglioso giardino era secco e brullo. Morto, si direbbe, e la vista di quella desolazione gettò i prigionieri ancor più nello sconforto.
Qualcuno provò a dare la scalata alle mura di cinta, ma il perimetro era sorvegliato dagli arcieri: il sibilo delle loro frecce convinse i fuggitivi a desistere.
"Restiamo uniti" disse qualcuno. "Cerchiamo qualcosa che possa essere usata come arma" suggerì un altro, ma quel luogo spettrale non offriva niente di utile allo scopo. E intanto il gruppo si inoltrava al suo interno.
Ad un tratto, si sentì una specie di ruggito. Era possente e profondo, vibrava come il rumore di due schiere in armi che, urlando, cozzavano sul campo di battaglia.
Quando gli echi di quel rombo si furono placati, una nenia agghiacciante si distese su quel luogo infame. Era un lamento disperato, un coro di mille e mille voci spettrali che feriva le orecchie e che sembrava volersi far strada fin dentro il cervello.
Qualcuno cadde al suolo, dimenandosi, con la testa tra le mani. Un attimo e fu il fuggi-fuggi. Della compattezza di quel gruppo di sventurati non restò nulla.
"Non avere paura, ti porto via!"
Il giovane premuroso prese in braccio il bambino, che singhiozzava impaurito, e iniziò a correre. Quando il dolore al fianco diventò insopportabile, lo mise giù e si piegò per riprendere fiato. Ritenne che fossero protetti alla vista dagli scheletrici roseti tra i quali si erano rifugiati ma, poco distante da lì, provenne l'urlo spaventoso di uno dei prigionieri.
Il ragazzo fece qualche passo nella direzione opposta, ma anche da quella direzione giunse un gemito di dolore frammisto ai rumori di una colluttazione: quella cosa si spostava ad una velocità incredibile!
Il bambino aveva ripreso a piangere.
"No, ti prego, non fare rumore!" sussurrò il giovane. Gli prese la mano e, non sapendo dove altro andare, lo condusse verso l'ingresso di quel luogo di morte che all'inizio avevano scambiato per un giardino.
Superarono il roseto e una scena raccapricciante si offrì alla vista del ragazzo: il corpo di uno dei compagni di prigionia era appeso a testa in giù ad un gancio fissato alla parete. Era stato privato della pelle fino a portare alla vista il rosso acceso dei tessuti e dall'addome aperto gli intestini fuoriuscivano fino a raggiungere il suolo.
Con un riflesso involontario coprì gli occhi del bambino prima di tornare consapevole del fatto che lui non poteva vedere.
"Sei fortunato a non vedere le brutture che ci riserva questo mondo!" Disse amaro.
Erano ormai prossimi al portone d'ingresso, quando furono investiti dalla cacofonia delle voci dei dannati e poi quella cosa, era un Demone, ormai non c'era più dubbio, si manifestò. Sembrava fatto di ombra e fiamme, ardeva pur essendo ammantato di oscurità. Ed era alto, oddio se era alto... almeno quanto cinque uomini adulti.
Il Demone osservò la scena per un momento, poi partì alla carica.
Il primo istinto del giovane fu quello di mettersi in salvo ma quando vide quell'essere incombere sul bambino tornò sui suoi passi.
"Lascialo!" Gridò. "Prendi me".
E fu allora che successe una cosa da non credersi. Quel'essere abominevole si fermò. Avrebbe potuto colpire il ragazzino inerme, invece si limitò a fissarlo. Persino il coro delle anime dannate sembrò più flebile, le loro voci pervase dalla sorpresa.
Poi il Demone si riscosse: lanciò un ruggito potentissimo. L'esplosione che ne seguì strappò via dai cardini il pesante portone di bronzo del giardino nemmeno fosse stato un impalpabile velo di seta; anche interi tratti delle mura rimasero letteralmente sbriciolate dallo spostamento d'aria.
Fu allora che il Demone si chinò sul bimbo. L'ombra di cui era fatto prese la consistenza del fumo di carbone e, come fumo, quell'essere penetrò nella bocca e nelle narici del piccolo fino a sparire al suo interno.
Quando tutto si fu compiuto, il bambino si alzò in piedi e voltandosi nella direzione del giovane tese la mano.
"Vieni con me." Disse.
E da allora il Demone, sotto le mentite spoglie del bambino cieco, circola indisturbato per le città degli uomini, disseminando orrore e sofferenza, accompagnato dal giovane mortale.
3. La Rivelazione
«Allora? Che ne dite?» Chiese Atash.
Matilde arricciò il naso. «Che schifo tutti quei dettagli sugli sbudellamenti!»
«A me questa storia ha messo addosso un mondo di tristezza.» Commentò Maria.
«E paura, no?»
«Chi ha parlato di paura?» Intervenne Lillo.
«No, infatti: i dettagli erano disturbanti, vomitevoli, roba da ficcarsi due dita in gola...» Matilde accennò un risolino mentre simulava il gesto «... ma la paura è un'altra cosa; è più di testa!»
«E tu, Giorgio, cosa ne pensi? Sei rimasto in silenzio.» Chiese Atash in un soffio.
«Questa è la segreteria di Giorgio. Al momento sono assente perchè mi sono cagato addosso!»
Una manata rabbiosa si abbatté sulla spalla di Lillo che non la smetteva di sghignazzare. Anche le ragazze ridevano.
«Sarà, ma a me sembrano risate liberatorie, queste» insinuò il giovane iracheno.
«Naaa, Zal deve fare di meglio!» Lo sminuì Lillo.
«No paura.» Confermò Mati telegrafica.
«Capisco...» Dopo la breve pausa Atash riprese. «E le coincidenze? Non vi fanno venire la pelle d'oca? Ad esempio, sia io che Zal proveniamo dagli stessi luoghi dei protagonisti della storia. La Mesopotamia di allora ricade in gran parte nei confini dell'odierno Iraq...»
«E allora?» Maria fece una smorfia.
«E il fatto che anch'io, come il ragazzino della storia, sia cieco?»
Matilde spalancò la bocca e si lascio sfuggire un «Che?»
Atash si voltò verso di lei.
«Secondo te perchè porto gli occhiali scuri anche di notte?» Tolse le lenti e avvicinò il volto a quello di Matilde. «Mi piacerebbe che fosse solo per fare il figo, Mati, ma non è così. Li vedi i miei occhi spenti? Occhi che non hanno mai visto le brutture del mondo... Ma neanche le cose belle.»
«Mamma mia... » Maria aveva incrociato le braccia sul petto e si accarezzava le spalle come se avesse freddo «Mi fai venire i brividi, così.» Ridacchiò nervosamente.
«La senti, vecchio mio?» Adesso Atash si rivolgeva al cugino. «Mi sa che sono più bravo di te in queste cose.»
«Sì, infatti. Senza offesa Zal, ma adesso sì che comincio a sentirmi a disagio. Basta con le storie horror per oggi, ok?» Chiosò Lillo con un sorriso di facciata stampato sulle labbra.
Il suo interlocutore scuoteva il capo. «Nient'affatto, la paura vera arriVA ADESSO!»
La voce di Atash si era gradualmente trasformata in un ruggito. Una vampa gialla esplose nella conca delimitata dalle falesie e qualcosa di oscuro ed enorme proruppe dalla sua figura avventandosi su Zal.
Urlava a squarciagola, Zal. Il suo corpo sollevato a diversi metri d'altezza era infilzato al basso ventre da artigli d'ombra e di fiamma.
Avvolto da quell'irreale luce sulfurea, troneggiava sui presenti come un Cristo profano inchiodato ad una croce invisibile. Le braccia e le gambe, attraversate dai tremori dell'agonia, si scuotevano senza sosta quasi volessero staccarsi dal resto del corpo per cercare salvezza lontano da esso. Il volto stesso era una maschera di dolore: gli occhi sbarrati e gonfi, i bulbi sul punto di schizzare fuori dalle orbite, la bocca oscenamente spalancata.
Urlava a squarciagola, Zal, eppure i suoi gemiti erano superati dai lamenti di un numero indefinibile, immensamente grande, di anime dannate. Le loro fattezze si coglievano in trasparenza, come animati disegni a china, nella luce giallognola e malata che si stendeva sulla spiaggia come un sudario. Anch'esse si contorcevano suggerendo con le loro espressioni grottesche sentimenti di dolore, rabbia, sconfitta e perdizione.
Un ultimo strattone di quell'Essere d'ombra e Zal tacque. "Qualcosa" si era staccata da lui e, rotolando, aveva terminato la sua corsa ai piedi di Matilde.
Infine, l'oscurità palpitante si richiuse sul piccolo gruppo di amici e le urla, nella baia, cessarono.
4. Ciclo senza fine
«Mi hai riportato in vita. Ancora una volta.»
«Sì.»
«Proprio non puoi perdonarmi per quella promessa non mantenuta.» La voce era rassegnata.
Nessuna risposta.
«Quante volte ancora dovrai uccidermi per sentirti soddisfatto?» La tensione, adesso, era palpabile. «ARRIVERA' MAI IL MOMENTO IN CUI SARAI SODDISFATTO?» La voce era diventata un urlo.
«L'Eternità è un mucchio di tempo, Zal. Per te come per me. Ricordalo.»