[H2022R] Ali di velluto nero
Posted: Sun Nov 06, 2022 3:58 am
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Carta numero 20: la paura, lo spettro, la morte.
Ali di velluto nero
Il momento più bello della giornata: il parco è inondato dal profumo di cibo, a quest’ora i ristoranti e le pizzerie qui intorno sono affollati. Io mi faccio una canna seduta sulla mia panchina preferita.
Arrotolo una pallina d’erba nell’ultima cartina. Leo, seduto accanto a me, guarda le mie mani eseguire l’operazione. Il suo cane è triste, uggiola, poggia il muso sulla coscia del suo padrone, lui gli accarezza la testa; è un ottimo cane, magari l’avessi io. Faccio due tiri e poi passo la canna a Leo.
— Grazie, com’è, buona? Non rispondo questa roba non è mai buona. Alzo le spalle, cambio discorso.
— Si fa tardi, devo andare.
— Non andrai di nuovo a dormire in quel buco? Nella mia macchina c’è posto, starai al sicuro, anche se non è molto io, potrei…
Vorrebbe che io dormissi con lui, ma io voglio stare da sola. Mi alzo, recupero il borsone con tutti i miei averi e sistemo la tracolla sulla spalla, sono stanca, voglio andarmene via. Lui mi restituisce la canna. Dovrei rispondergli Cerco le parole per non essere sgarbata.
—Te l’ho già detto, Leo, non voglio dipendere da nessuno, me ne sono andata via di casa per questo. Io sono libera, non voglio legami. E poi non è un buco, certe sere ci sono altri che vengono a dormire là.
Leo ascolta, resta lì, seduto sulla panchina, c’è rimasto male. Non può capire.
— Girano brutte storie, Rosa, la gente sparisce, a volte.
— Ma, cosa dici! Io non credo a quelle storie, stai scherzando vero? Stai cercando di spaventarmi? Sappi che non ci riuscirai.
— Nemmeno io ci credo ma preferirei saperti al sicuro.
E la tua macchina mi terrebbe al sicuro da te? Tiro una lunga boccata. Guardo un punto lontano dietro le sue spalle. Si sono accesi i lampioni: la gente se ne va verso l’uscita, richiamano i bambini, è l’ora di cena per loro. Sbuffo, caccio fuori il fumo da naso e bocca.
— Ci vediamo domattina in piazza, spero di fare una bella colazione. Dormi bene Leo.
— A domani, Rosa; prima che vai, me lo lasci un tiro?
— Certo, scusami, dovevo pensarci.
La luna piena è bassa sopra i profili scuri dei tetti. Davanti all’ultimo palazzo della strada allungo la falcata, Il borsone sbatacchia sulla mia coscia destra. A me, invece, piace quel posto, è isolato, ma non troppo lontano dalla via illuminata e da alcune villette di campagna. Uno strano chiarore argenteo domina il paesaggio stasera, c’è un velo di nebbia. Inalo il profumo di fieno che arriva dalle balle arrotolate nei campi; è un odore buono, peccato gli scarichi delle auto di passaggio. Mi stringo nella felpa, penso agli sguardi indagatori degli automobilisti, rallentano quando mi vedono. Non mi frega niente di quello che pensano, basta che non vengono a rompermi le scatole. Fa un po' fresco, tiro su la lampo e affretto il passo. Eccolo! Vedo la sagoma scura del casotto, sembra una piccola cappella: tre pareti, un soffitto a volta e un’apertura ampia e accogliente. Scendo dal marciapiede, una corsetta sul tratto dissestato e ci sono, una volta dentro nessuno mi disturberà fino a domani. Appoggio la mano sulla parete rivolta alla strada, accarezzo la targa affissa sul muro; quello che c’è scritto mi fa pensare a una casa ospitale: antico ricovero dei viandanti, risalente al Settecento, luogo di sosta dei carrettieri che percorrevano l’antica Curniculum… Chissà quanti hanno trovato rifugio qui dentro, non c’è proprio niente d’aver paura. Ancora due passi, tra le erbacce e i sassi smossi faccio attenzione a non inciampare, giro l’angolo e mi blocco all’istante: l’entrata è illuminata da un riverbero di brace. Qualcuno è arrivato prima di me.
Il fuoco arde piano, è stato ben alimentato, ombre tremolanti scolpiscono graffiti sulle pareti. Un grosso fagotto di gettato sul terreno accanto al fuoco si muove, due gambe spuntano fuori da quel mucchio di stracci. È una donna: indossa calzature femminili. Chiunque sia sta già dormendo.
Striscio lungo la parete e mi accuccio nel mio angolo preferito. Ho voglia di farmi una canna, no, cavolo, ho finito le cartine; povero Leo, sta peggio di me, io, almeno, so badare a me stessa. Srotolo il tappetino di gomma, mi tolgo le scarpe o forse dovrei tenerle, non si può mai sapere… non so se riuscirò a dormire al pensiero di questa sconosciuta. Un po' mi fa pena, magari è un’anziana signora. Va tutto bene, non devo aver paura. Domani ci presenteremo e magari faremo amicizia. M’infilò nel sacco a pelo e mi sdraio. Pian piano il tepore del mio corpo mi avvolge. Mi concentro sulle ombre ballerine proiettate sulla volta della costruzione, sul respiro pesante e calmo della mia vicina, non ho paura, sono così stanca che mi si chiudono gli occhi.
Il momento più bello della giornata: il parco è inondato dal profumo di cibo, a quest’ora i ristoranti e le pizzerie qui intorno sono affollati. Io mi faccio una canna seduta sulla mia panchina preferita.
Arrotolo una pallina d’erba nell’ultima cartina. Leo, seduto accanto a me, guarda le mie mani eseguire l’operazione. Il suo cane è triste, uggiola, poggia il muso sulla coscia del suo padrone, lui gli accarezza la testa; è un ottimo cane, magari l’avessi io. Faccio due tiri e poi passo la canna a Leo.
— Grazie, com’è, buona? Non rispondo questa roba non è mai buona. Alzo le spalle, cambio discorso.
— Si fa tardi, devo andare.
— Non andrai di nuovo a dormire in quel buco? Nella mia macchina c’è posto, starai al sicuro, anche se non è molto io, potrei…
Vorrebbe che io dormissi con lui, ma io voglio stare da sola. Mi alzo, recupero il borsone con tutti i miei averi e sistemo la tracolla sulla spalla, sono stanca, voglio andarmene via. Lui mi restituisce la canna. Dovrei rispondergli Cerco le parole per non essere sgarbata.
—Te l’ho già detto, Leo, non voglio dipendere da nessuno, me ne sono andata via di casa per questo. Io sono libera, non voglio legami. E poi non è un buco, certe sere ci sono altri che vengono a dormire là.
Leo ascolta, resta lì, seduto sulla panchina, c’è rimasto male. Non può capire.
— Girano brutte storie, Rosa, la gente sparisce, a volte.
— Ma, cosa dici! Io non credo a quelle storie, stai scherzando vero? Stai cercando di spaventarmi? Sappi che non ci riuscirai.
— Nemmeno io ci credo ma preferirei saperti al sicuro.
E la tua macchina mi terrebbe al sicuro da te? Tiro una lunga boccata. Guardo un punto lontano dietro le sue spalle. Si sono accesi i lampioni: la gente se ne va verso l’uscita, richiamano i bambini, è l’ora di cena per loro. Sbuffo, caccio fuori il fumo da naso e bocca.
— Ci vediamo domattina in piazza, spero di fare una bella colazione. Dormi bene Leo.
— A domani, Rosa; prima che vai, me lo lasci un tiro?
— Certo, scusami, dovevo pensarci.
La luna piena è bassa sopra i profili scuri dei tetti. Davanti all’ultimo palazzo della strada allungo la falcata, Il borsone sbatacchia sulla mia coscia destra. A me, invece, piace quel posto, è isolato, ma non troppo lontano dalla via illuminata e da alcune villette di campagna. Uno strano chiarore argenteo domina il paesaggio stasera, c’è un velo di nebbia. Inalo il profumo di fieno che arriva dalle balle arrotolate nei campi; è un odore buono, peccato gli scarichi delle auto di passaggio. Mi stringo nella felpa, penso agli sguardi indagatori degli automobilisti, rallentano quando mi vedono. Non mi frega niente di quello che pensano, basta che non vengono a rompermi le scatole. Fa un po' fresco, tiro su la lampo e affretto il passo. Eccolo! Vedo la sagoma scura del casotto, sembra una piccola cappella: tre pareti, un soffitto a volta e un’apertura ampia e accogliente. Scendo dal marciapiede, una corsetta sul tratto dissestato e ci sono, una volta dentro nessuno mi disturberà fino a domani. Appoggio la mano sulla parete rivolta alla strada, accarezzo la targa affissa sul muro; quello che c’è scritto mi fa pensare a una casa ospitale: antico ricovero dei viandanti, risalente al Settecento, luogo di sosta dei carrettieri che percorrevano l’antica Curniculum… Chissà quanti hanno trovato rifugio qui dentro, non c’è proprio niente d’aver paura. Ancora due passi, tra le erbacce e i sassi smossi faccio attenzione a non inciampare, giro l’angolo e mi blocco all’istante: l’entrata è illuminata da un riverbero di brace. Qualcuno è arrivato prima di me.
Il fuoco arde piano, è stato ben alimentato, ombre tremolanti scolpiscono graffiti sulle pareti. Un grosso fagotto di gettato sul terreno accanto al fuoco si muove, due gambe spuntano fuori da quel mucchio di stracci. È una donna: indossa calzature femminili. Chiunque sia sta già dormendo.
Striscio lungo la parete e mi accuccio nel mio angolo preferito. Ho voglia di farmi una canna, no, cavolo, ho finito le cartine; povero Leo, sta peggio di me, io, almeno, so badare a me stessa. Srotolo il tappetino di gomma, mi tolgo le scarpe o forse dovrei tenerle, non si può mai sapere… non so se riuscirò a dormire al pensiero di questa sconosciuta. Un po' mi fa pena, magari è un’anziana signora. Va tutto bene, non devo aver paura. Domani ci presenteremo e magari faremo amicizia. M’infilò nel sacco a pelo e mi sdraio. Pian piano il tepore del mio corpo mi avvolge. Mi concentro sulle ombre ballerine proiettate sulla volta della costruzione, sul respiro pesante e calmo della mia vicina, non ho paura, sono così stanca che mi si chiudono gli occhi.
*****
La canea proviene dal sentiero che taglia i campi dello Stagline, guardo mia sorella alla luce della luna piena. Io so che non ho nessuna sorella, ma nella mente un pensiero mi toglie il fiato, il terrore mi paralizza: ci hanno già scoperto? Mia sorella ha gli occhi e la bocca spalancati, è attonita. Osservo lontano sopra la sua testa; un bagliore di torce mi toglie ogni dubbio. Avremmo dovuto rubare anche una carrozza, a quest’ora saremmo già lontane. Uomini e cani si muovono veloci nella notte. I campi dello Stagline non sono lontani, dobbiamo nasconderci subito o ci cattureranno. Il casotto dei carrettieri! Potremmo approfittarne e salire di nascosto su uno dei carri. O pagare uno dei conducenti perché ci aiuti a fuggire. Questa non me l’aspettavo. Guardo mia sorella e grido.
— Corri, Eva!
Anche lei non perde tempo, afferriamo e tiriamo su le gonne pesanti. Lasciamo il sentiero e ci precipitiamo sul terreno incolto. Sterpi e cespugli ci graffiano le gambe, tenere su la stoffa dei vestiti e correre è davvero difficile. Non ci hanno ancora visto, dobbiamo arrivare fino a quel ricovero prima possibile.
— Sanno tutto! Ci prenderanno! Ho paura. Non dovevo seguirti, non avremmo dovuto rubare in casa del padrone. E mi fanno male le scarpe, non posso correre…
Mi fermo: Eva è rimasta indietro. Guardo le sue scarpe, a quelle, però non ha rinunciato. Immagino la faccia della contessina, domani, quando cercherà i suoi stivaletti. Mi avvicino e cerco di tranquillizzarla.
— Forse non stanno cercando noi, non possono averci scoperto così presto.
—Sì, a meno che qualcuno della servitù non ci abbia visto e sia andato di corsa a denunciarci. Quelli che sento abbaiare sono i mastini del conte, lo sai.
— Pensa a correre, e non ci rggiungeranno. Ecco la capanna di Antonio, manca poco, dai…
Riprendiamo la corsa, le loro voci adesso arrivano alle nostre orecchie. Sono sempre più vicini.
— Laggiù, vicino la capanna di Antonio. Ho visto qualcosa!
— Maledette ladre! Non hanno scampo.
— Li hai sentiti? Ci hanno visto, sanno tutto. Ho paura. Quei cani sono feroci; una volta hanno ucciso un orso…
— Forse hai ragione, qualcuno ci ha tradito. Dobbiamo separarci, così I cani seguiranno una sola pista. Tu vai verso il bosco. Appena superi il confine del campo di Antonio, cammina dentro il torrente, l’acqua coprirà il tuo odore e ti guiderà dentro la grotta del Cespaio. Resta nascosta lì dentro. Appena potrò, verrò io da te. Io, invece, vado al riparo dei carrettieri, cercherò aiuto, oppure mi nasconderò tra lo sterco dei cavalli, i cani non mi sentiranno. Corri! Vai!
La vedo correre, zoppicare per le scarpe strette, sento il cuore chiuso in un pugno, temo che non la rivedrò mai più.
La canizza si fa sempre più vicina. Resto ferma, acquattata nell’erba, aspetto di vederla superare il confine. Non può farcela, è una piccola sagoma nella notte, difficile da notare, ma mi rendo conto che è troppo lenta. Ora li sento più forte, i cani ansimano dallo sforzo, legati ai loro guinzagli tirano con ferocia. Gli uomini bestemmiano, litigano, chiamano per nome i molossi e li incitano. Striscio veloce tra l’erba più alta, a testa bassa cerco con gli occhi la scarpata che divide il campo di Antonio da quello dove si trova il ricovero dei viandanti. Scivolo sull’erba bagnata, un volo di un metro e sbatto il viso sul fango, con un sibilo tutta l’aria mi esce dai polmoni. Sono fradicia, la cunetta dove sono caduta è piena d’acqua, il dislivello tra i due campi ha creato un fiumiciattolo. Devo alzarmi, controllare che Eva abbia superato la zona scoperta. Vorrei, ma continuo a scivolare nella melma e l’abbaiare dei cani ormai si fa sempre più vicino. Sono a pochi metri, sento distintamente i loro passi tra gli arbusti, il tintinnare dei collari dei cani contro le catene.
— Eccola! la vedo, è una delle serve.
L’hanno vista! inginocchiata nel fango tremo dal freddo e la paura. Spero che Eva abbia già superato il confine, ora camminerà nel torrente. Conosciamo ogni pertugio della grotta, è un ottimo rifugio; saprà nascondersi lì dentro. Mi rendo conto che ormai cercano lei, non sanno della mia presenza: rinuncio alla fuga allo scoperto. Mi ricopro la testa e il corpo di fango più in fretta che posso. Resto sdraiata, quasi sepolta nel limo ad aspettare. Non è passato molto tempo e li sento sopra di me, Siamo separati da un breve pendio, una piccola nicchia nel terreno mi protegge dai loro occhi: il panico mi assale, non riesco a respirare, sento il puzzo tiepido dell’alito e del sudore dei mastini. Gli uomini urlano: non capiscono perché uno dei due cani si è fermato. Il mastino abbaia, ringhia feroce sopra la mia testa, vuole essere liberato: mi ha trovato. Non respiro più, devo spostarmi o muoio soffocata. Lenta, mi appiattisco supina contro la spalletta di terra, non riesco a trattenere un gemito di terrore, mi tappo la bocca con le mani e trattengo il respiro. Il mastino ha tirato forte, è scivolato per metà del suo corpo dentro la cunetta e il suo padrone per poco non mi cade addosso. Vedo le zanne lucide a pochi centimetri dalla mia faccia. Rivoli di bava e zolle di terra mi coprono il viso, Chiudo gli occhi...
— Brutto scemo, bestia che sei, mi stai facendo perdere tempo per ringhiare ai rospi? Un rumore secco e il cane emette un guaito di dolore e risentimento. Mi lascio scivolare di nuovo nel fango, mi gira la testa, le forze mi abbandonano. Non riesco a muovermi.
Si sono allontanati, ora non sento più nulla. Spero di averli rallentati un po’, spero il meglio per Eva ma adesso non posso pensarci. Mi sollevo in ginocchio, con l’acqua del canaletto, sciacquo via la bava del cane e il fango dalla faccia. Il cuore mi sta scoppiando, devo tornare in me, alzo la testa, il cielo stellato fugge via, una vertigine mi costringe a richiudere gli occhi. Restare qua sotto è troppo pericoloso, potrebbero ripassare di qua al ritorno. Il sentiero vicino al casottino dei carrettieri, invece, li allontanerebbe dal palazzo, è fuori traiettoria, di lì non passeranno di sicuro. Rimango fedele all’idea di pagare qualcuno che ci aiuti. I soldi ora li abbiamo!
Il più totale silenzio mi convince, mi sento meglio, esco allo scoperto. Proseguo, le gambe tremano e mi sorreggono appena, lascio la scarpata alle mie spalle. Il terreno risale in una collinetta e nel punto più alto mi fermo. Alla mia destra vedo la sagoma della costruzione in pietra: nessuna luce, non ci sono fuochi accesi, stanotte non c’è nessuno, ci sarà da aspettare, forse anche giorni. Resteremo nascoste nella grotta del Cespaio non sarà un problema. Alla mia sinistra, sotto la luna, il brillio degli uliveti si estende per alcune decine di metri prima del fronte scuro nella canopia del bosco. Tra le querce c'è un bagliore di torce, la stanno inseguendo dalla parte sbagliata. Il torrente non è da quella parte, forse ce la farà.
Ho le gambe molli, mille pensieri mi annientano, dovrei seguirli? Attirarli verso di me? Dovrei andare a cercare mia sorella? Cosa potrei fare contro quella gente inferocita? Le mura del ricovero sono dietro un velo di nebbia, giro intorno alla costruzione fino alla larga apertura, entro, devo riposare non mi reggo in piedi. Ci sono degli stracci buttati sul terreno battuto: mi faranno da coperta e da materasso. Li sistemo per bene, non so cosa fare e vorrei restare per sempre seppellita la sotto. Invece esco, prendo manciate di sterco di cavalli e le butto sopra il mio giaciglio improvvisato, fino a farlo sembrare solo un mucchio di letame. Spero che ciò mi protegga, alzo un lembo e mi rannicchio là sotto, in mezzo agli stracci.
Mi sveglio, fuori la nebbia è stratificata nell’aurora. La realtà ritorna e mi colpisce all’improvviso, ricordo ogni cosa. Il silenzio è rotto dai timidi richiami degli uccellini nei nidi: è la solita la calma della campagna. Se gli uccelli cantano, non ci sono pericoli immediati. Con cautela cammino rasente il muro fino all’uscita, tiro fuori soltanto la testa, cerco di cogliere qualche rumore o movimenti sospetti. Qualcosa di umido mi colpisce la fronte, pulisco le gocce con la punta delle dita:
— Mio Dio! È sangue!
Esco nella luce ancora fioca, faccio solo un passo e qualcosa piomba sul terreno intriso dallo stesso liquido: davanti a me c’è lo stivaletto di Eva, ancora saldamente abbottonato al suo piede mozzato. Alzo la testa e guardo verso l’alto; le gambe cedono, batto il sedere sul terreno, un rivolo caldo mi scorre tra le cosce. Da lassù gli occhi di Eva mi accusano, Il suo corpo dilaniato è appeso all’architrave della costruzione.
— Eva! No!
Una raffica di vento gelido m’impedisce di svenire, Eva danza, sospinta dall’aria. È quasi nuda, i cani hanno martoriato il suo corpo e il moncherino della gamba destra pende, scomposto, in un’angolazione bizzarra. Devo coprirla, voglio toglierla da lì. Mi alzo, ma un vortice mi cattura, un violento conato mi scaraventa di nuovo a terra, cado in ginocchio e vomito sopra il suo sangue.
— Corri, Eva!
Anche lei non perde tempo, afferriamo e tiriamo su le gonne pesanti. Lasciamo il sentiero e ci precipitiamo sul terreno incolto. Sterpi e cespugli ci graffiano le gambe, tenere su la stoffa dei vestiti e correre è davvero difficile. Non ci hanno ancora visto, dobbiamo arrivare fino a quel ricovero prima possibile.
— Sanno tutto! Ci prenderanno! Ho paura. Non dovevo seguirti, non avremmo dovuto rubare in casa del padrone. E mi fanno male le scarpe, non posso correre…
Mi fermo: Eva è rimasta indietro. Guardo le sue scarpe, a quelle, però non ha rinunciato. Immagino la faccia della contessina, domani, quando cercherà i suoi stivaletti. Mi avvicino e cerco di tranquillizzarla.
— Forse non stanno cercando noi, non possono averci scoperto così presto.
—Sì, a meno che qualcuno della servitù non ci abbia visto e sia andato di corsa a denunciarci. Quelli che sento abbaiare sono i mastini del conte, lo sai.
— Pensa a correre, e non ci rggiungeranno. Ecco la capanna di Antonio, manca poco, dai…
Riprendiamo la corsa, le loro voci adesso arrivano alle nostre orecchie. Sono sempre più vicini.
— Laggiù, vicino la capanna di Antonio. Ho visto qualcosa!
— Maledette ladre! Non hanno scampo.
— Li hai sentiti? Ci hanno visto, sanno tutto. Ho paura. Quei cani sono feroci; una volta hanno ucciso un orso…
— Forse hai ragione, qualcuno ci ha tradito. Dobbiamo separarci, così I cani seguiranno una sola pista. Tu vai verso il bosco. Appena superi il confine del campo di Antonio, cammina dentro il torrente, l’acqua coprirà il tuo odore e ti guiderà dentro la grotta del Cespaio. Resta nascosta lì dentro. Appena potrò, verrò io da te. Io, invece, vado al riparo dei carrettieri, cercherò aiuto, oppure mi nasconderò tra lo sterco dei cavalli, i cani non mi sentiranno. Corri! Vai!
La vedo correre, zoppicare per le scarpe strette, sento il cuore chiuso in un pugno, temo che non la rivedrò mai più.
La canizza si fa sempre più vicina. Resto ferma, acquattata nell’erba, aspetto di vederla superare il confine. Non può farcela, è una piccola sagoma nella notte, difficile da notare, ma mi rendo conto che è troppo lenta. Ora li sento più forte, i cani ansimano dallo sforzo, legati ai loro guinzagli tirano con ferocia. Gli uomini bestemmiano, litigano, chiamano per nome i molossi e li incitano. Striscio veloce tra l’erba più alta, a testa bassa cerco con gli occhi la scarpata che divide il campo di Antonio da quello dove si trova il ricovero dei viandanti. Scivolo sull’erba bagnata, un volo di un metro e sbatto il viso sul fango, con un sibilo tutta l’aria mi esce dai polmoni. Sono fradicia, la cunetta dove sono caduta è piena d’acqua, il dislivello tra i due campi ha creato un fiumiciattolo. Devo alzarmi, controllare che Eva abbia superato la zona scoperta. Vorrei, ma continuo a scivolare nella melma e l’abbaiare dei cani ormai si fa sempre più vicino. Sono a pochi metri, sento distintamente i loro passi tra gli arbusti, il tintinnare dei collari dei cani contro le catene.
— Eccola! la vedo, è una delle serve.
L’hanno vista! inginocchiata nel fango tremo dal freddo e la paura. Spero che Eva abbia già superato il confine, ora camminerà nel torrente. Conosciamo ogni pertugio della grotta, è un ottimo rifugio; saprà nascondersi lì dentro. Mi rendo conto che ormai cercano lei, non sanno della mia presenza: rinuncio alla fuga allo scoperto. Mi ricopro la testa e il corpo di fango più in fretta che posso. Resto sdraiata, quasi sepolta nel limo ad aspettare. Non è passato molto tempo e li sento sopra di me, Siamo separati da un breve pendio, una piccola nicchia nel terreno mi protegge dai loro occhi: il panico mi assale, non riesco a respirare, sento il puzzo tiepido dell’alito e del sudore dei mastini. Gli uomini urlano: non capiscono perché uno dei due cani si è fermato. Il mastino abbaia, ringhia feroce sopra la mia testa, vuole essere liberato: mi ha trovato. Non respiro più, devo spostarmi o muoio soffocata. Lenta, mi appiattisco supina contro la spalletta di terra, non riesco a trattenere un gemito di terrore, mi tappo la bocca con le mani e trattengo il respiro. Il mastino ha tirato forte, è scivolato per metà del suo corpo dentro la cunetta e il suo padrone per poco non mi cade addosso. Vedo le zanne lucide a pochi centimetri dalla mia faccia. Rivoli di bava e zolle di terra mi coprono il viso, Chiudo gli occhi...
— Brutto scemo, bestia che sei, mi stai facendo perdere tempo per ringhiare ai rospi? Un rumore secco e il cane emette un guaito di dolore e risentimento. Mi lascio scivolare di nuovo nel fango, mi gira la testa, le forze mi abbandonano. Non riesco a muovermi.
Si sono allontanati, ora non sento più nulla. Spero di averli rallentati un po’, spero il meglio per Eva ma adesso non posso pensarci. Mi sollevo in ginocchio, con l’acqua del canaletto, sciacquo via la bava del cane e il fango dalla faccia. Il cuore mi sta scoppiando, devo tornare in me, alzo la testa, il cielo stellato fugge via, una vertigine mi costringe a richiudere gli occhi. Restare qua sotto è troppo pericoloso, potrebbero ripassare di qua al ritorno. Il sentiero vicino al casottino dei carrettieri, invece, li allontanerebbe dal palazzo, è fuori traiettoria, di lì non passeranno di sicuro. Rimango fedele all’idea di pagare qualcuno che ci aiuti. I soldi ora li abbiamo!
Il più totale silenzio mi convince, mi sento meglio, esco allo scoperto. Proseguo, le gambe tremano e mi sorreggono appena, lascio la scarpata alle mie spalle. Il terreno risale in una collinetta e nel punto più alto mi fermo. Alla mia destra vedo la sagoma della costruzione in pietra: nessuna luce, non ci sono fuochi accesi, stanotte non c’è nessuno, ci sarà da aspettare, forse anche giorni. Resteremo nascoste nella grotta del Cespaio non sarà un problema. Alla mia sinistra, sotto la luna, il brillio degli uliveti si estende per alcune decine di metri prima del fronte scuro nella canopia del bosco. Tra le querce c'è un bagliore di torce, la stanno inseguendo dalla parte sbagliata. Il torrente non è da quella parte, forse ce la farà.
Ho le gambe molli, mille pensieri mi annientano, dovrei seguirli? Attirarli verso di me? Dovrei andare a cercare mia sorella? Cosa potrei fare contro quella gente inferocita? Le mura del ricovero sono dietro un velo di nebbia, giro intorno alla costruzione fino alla larga apertura, entro, devo riposare non mi reggo in piedi. Ci sono degli stracci buttati sul terreno battuto: mi faranno da coperta e da materasso. Li sistemo per bene, non so cosa fare e vorrei restare per sempre seppellita la sotto. Invece esco, prendo manciate di sterco di cavalli e le butto sopra il mio giaciglio improvvisato, fino a farlo sembrare solo un mucchio di letame. Spero che ciò mi protegga, alzo un lembo e mi rannicchio là sotto, in mezzo agli stracci.
Mi sveglio, fuori la nebbia è stratificata nell’aurora. La realtà ritorna e mi colpisce all’improvviso, ricordo ogni cosa. Il silenzio è rotto dai timidi richiami degli uccellini nei nidi: è la solita la calma della campagna. Se gli uccelli cantano, non ci sono pericoli immediati. Con cautela cammino rasente il muro fino all’uscita, tiro fuori soltanto la testa, cerco di cogliere qualche rumore o movimenti sospetti. Qualcosa di umido mi colpisce la fronte, pulisco le gocce con la punta delle dita:
— Mio Dio! È sangue!
Esco nella luce ancora fioca, faccio solo un passo e qualcosa piomba sul terreno intriso dallo stesso liquido: davanti a me c’è lo stivaletto di Eva, ancora saldamente abbottonato al suo piede mozzato. Alzo la testa e guardo verso l’alto; le gambe cedono, batto il sedere sul terreno, un rivolo caldo mi scorre tra le cosce. Da lassù gli occhi di Eva mi accusano, Il suo corpo dilaniato è appeso all’architrave della costruzione.
— Eva! No!
Una raffica di vento gelido m’impedisce di svenire, Eva danza, sospinta dall’aria. È quasi nuda, i cani hanno martoriato il suo corpo e il moncherino della gamba destra pende, scomposto, in un’angolazione bizzarra. Devo coprirla, voglio toglierla da lì. Mi alzo, ma un vortice mi cattura, un violento conato mi scaraventa di nuovo a terra, cado in ginocchio e vomito sopra il suo sangue.
*****
L’acido nella gola mi sveglia, sto per vomitare, avrò dormito nemmeno dieci minuti. Tiro giù la lampo del sacco a pelo, mi siedo con le spalle appoggiate al muro, spalanco la bocca, mi manca il respiro. Il sogno riaffiora. Alla luce rossa della brace ardente, gli stivaletti di Eva sono lì, ai piedi di quella donna sotto il fagotto di stracci. Si muove, cerco di scoprire chi è ma, è solo un’immagine sfocata. È un’ombra indistinta che cresce davanti ai miei occhi. Si prende tutto lo spazio, fino al soffitto. Un freddo intenso mi gela, non posso fare nessun movimento, sento le lacrime bagnarmi le guance. Il fuoco si spegne e tutto piomba nel buio. È un fremito di ali? Ali di velluto nero che mi sollevano. Galleggio, sono costretta a tapparmi le orecchie: da quella che credo sia la sua bocca, la sagoma nera emette un grido; la sua intensità cresce a dismisura, insieme alle mie urla. Ora non sento più nulla, nemmeno la mia voce; ho i palmi bagnati di sangue.
— Cosa vuoi da me?— Grido più forte che posso, poi…
— Cosa vuoi da me?— Grido più forte che posso, poi…