[H2022R] Cosa sei bwana?
Posted: Sat Nov 05, 2022 1:06 pm
Traccia Carta n. 12 - La Scure - Giustizia, Punizione, Potere.
Commento: Senza disturbare nessuno
Cosa sei bwana?
Giulio Cesare Nelson era già un uomo di quarantacinque anni quando morì il suo unico figlio maschio, Catone Nelson, come lo aveva chiamato il suo padrone, bwana Alex Nelson.
Bwana Nelson amava imporre personalmente il nome e il suo cognome a tutti gli schiavi della immensa piantagione di cotone ereditata dalla famiglia e andava in chiesa ogni domenica, per ringraziare il suo buon Dio di avergli dato tanta ricchezza e per non averlo fatto nascere nero e schiavo.
Dopo la funzione gli piaceva trattenersi fuori dalla chiesa, vestito di bianco, con un elegante bastone da passeggio, un ampio cappello di paglia, il sorriso da benefattore sotto la barba candida da profeta e parlare con il pastore, con i parrocchiani e le loro famiglie, quasi tutti proprietari di piantagioni di cotone come lui e ricchi commercianti.
Giulio Cesare Nelson aveva appena seppellito suo figlio, poco oltre la porcilaia, il cimitero dei neri, quando mama Orazia, che odorava di cucina e di fuoco venne a dirgli che bwana Nelson voleva parlargli immediatamente.
Giulio Cesare si mise il cappello e andò nel giardino dove bwana stava facendo colazione con i suoi ospiti.
Il sole era cocente, bwana stava comodamente seduto su una poltrona di vimini, sotto una grande quercia davanti a un tavolo con delle bevande fresche, con sua moglie e alcuni amici. Giulio Cesare si fermò a debita distanza sotto il sole, tenendo il cappello in mano e badando bene di essere controvento, affinché la katinga, l’odore della sua pelle, non disturbasse i bianchi. Aveva imparato da subito che i bianchi diventavano irritabili se sentivano l’odore della pelle dei neri. Rimase a testa china osservando a lungo la sua ombra, sentendo i discorsi dei padroni bianchi. Conosceva perfettamente la loro lingua, pur non dandolo a vedere oltre il necessario.
Parlavano di caccia.
― …Al bersaglio grosso, miro sempre al bersaglio grosso… È un peccato rovinare la testa…! ― diceva bwana Nelson.
― Condivido, condivido. I proiettili dello Sharps fanno esplodere la testa e non è possibile imbalsamarla…― rispose bwana George O'Connor, proprietario della piantagione confinante.
― Ma caro… ― disse la signora Nelson sorseggiando il té con limone, ― Sempre a parlare di caccia… Non ti bastano tutte quelle teste di cervo nel salone?
― Voi donne non capite niente di caccia. Fosse per me tappezzerei di teste tutta la casa… Eh…Eh… ― rispose bwana Nelson, facendo l’occhiolino ai suoi amici.
― Anch'io ― intervenne bwana Majo Silver junior ridacchiando a sua volta. ― Ma ho già la sala biliardo strapiena, oltre al salone principale, non saprei proprio dove altro metterle.
― Non avete posto nel vostro villino di caccia dove andate a prepararvi? Alex ne parla sempre con entusiasmo di quella casa nella palude. Lo colpisce che non ha trofei. Io è da un po’ che non vado nel nostro villino di caccia… Alex non mi vuole tra i piedi... ― disse la signora Nelson atteggiando un finto broncio e guardando il marito con aria complice
Gli uomini si scambiarono una rapida occhiata all’osservazione della signora; bwana Nelson accavallò le gambe tossendo, bwana Silver junior tossì a sua volta e affermò ― In effetti il mio villino di caccia non ha trofei…
― Potremmo ovviare con il trofeo della prossima battuta che intendo organizzare domani notte. Che ne dici? Ti regalo volentieri la testa della preda.
― Oh! Sarebbe un onore, Alex!
― Affare fatto! E ti presto Patrickson. Non c’è miglior imbalsamatore di lui in tutto lo stato! Così cominci anche tu a decorare il tuo villino di caccia… Eh… Eh.
Tutti risero e approvarono. Intanto Giulio Cesare aspettava in silenzio sotto il sole a capo chino, con il cappello in mano.
― Ehm… Ah! Ecco Giulio Cesare! Vieni… vieni…
― Comanda, bwana
― Ho deciso di andare a caccia domani notte, che è luna piena! Siete d’accordo signori?
― Daccordissimo!
― Perbacco! Un po’ di movimento!
― Bene! Mi sento in forma! Presentati al signor O'Connor: che anche domani notte c’è da stare svegli per organizzare la caccia. Fatevi dare le torce e i tamburi di battuta e accompagnare lungo il solito tragitto. Dì al signor O'Connor che voglio che tutto funzioni come l’ultima volta! Capito bene? È stato magnifico! Ci siamo divertiti veramente! Quel percorso in discesa dove ha mandato la bestia era fantastico! La sua fuga è stata senza scampo e il divertimento maggiore…Vero amici?
― Caspita!
― Sublime!
― Senza scampo!
― Si, bwana.
Venne la notte programmata; faceva caldo e la luce della luna avvolgeva la campagna circostante. C’era tanto odore di erba, tanta pace. I tre amici si godevano il panorama in sella ai loro cavalli, sorseggiando rum dalle loro fiaschette d’argento e fumando sigari.
― Diavolo d’un O'Connor! Perché non si presenta ancora a rapporto?
I vari guardiani a cavallo, armati di fucile, si passavano la voce cercando il loro capo. Ma O'Connor non si presentava.
― Avrà preso la solita sbornia!
― Ha fatto tutto come hai ordinato, bwana ― disse Giulio Cesare ai margini dei cacciatori, attorniato da un gruppo di schiavi con le torce in mano che facevano luccicare i loro toraci nudi,
― Che ne sai tu?
Giulio Cesare si mise il cappello in mano chinando il capo.
― Riferisco con rispetto bwana Nelson che il signor O'Connor mi ha detto di farti sapere che ha fatto tutto come l’ultima volta. Ti aspetta sotto la grande sequoia al termine della discesa, dove ucciderai l’animale, bwana.
― Lo stesso punto dell’ultima volta?
― Si, bwana.
Bwana Nelson socchiuse gli occhi, sputò e sorrise guardando Giulio Cesare, caracollando per un po’ intorno a lui con il cavallo, sempre guardandolo.
― Oh! Ma bene! Adesso anche i sovrintendenti prendono iniziative! E le mandano a dire dai neri! Ma dove va il mondo? Mi sentirà.
In quel momento dal bosco salì come un lamento, un canto a bocca chiusa, un lungo mormorio continuo unito in sincronia al rullio di tamburi e subito dopo un dipanarsi di torce che scendevano ad arco: si intravedevano in mezzo all’erba alta verso la pianura in lieve declino.
― I battitori si sono mossi! La caccia inizia dunque! Ma sì! In fondo va bene andare sotto la sequoia! Forza Giulio Cesare! Vai anche tu con i tuoi neri! Muovetevi pelandroni!
Bwana Nelson scartò con il cavallo verso i neri, che si dileguarono immediatamente nella notte.
Bwana Nelson e i suoi amici scesero lungo un costone, attraversarono un tratto di pianura delimitato da un ruscello e penetrarono nel bosco, avanzando lentamente verso il suono dei battitori.
I cani urlavano all’impazzata. Alcuni ululavano come lupi sentendo l’odore della preda. Il chiarore della luna si alternava alla luce fugace e cangiante delle torce che illuminavano tratti di vegetazione nera e contorta diradandosi mano a mano che il bosco cedeva il passo a una vallata declinante a imbuto, tappezzata d’erba alta fino alla cintola di un uomo.
Tutto terreno di bwana Alex Nelson, fin dove tramontava il sole.
Non tardarono a scorgere sotto di loro, nella valle illuminata dalla luna, una sorta di solco che avanzava formando una linea irregolare che si apriva la strada in quel mare d’erba come il passaggio di un rivolo d’acqua che scende dalle montagne. Era l’animale in fuga. Stettero un po' a osservare affascinati quella piacevole scena, aspettando che la preda si avvicinasse al termine della valle dove l’ avevano costretta a immettersi, spaventata dalle urla, dai canti e dalle torce dei battitori. L’erba giunse a diradarsi, poteva scorgersi una mezza figura nera, agile e snella, correre all’impazzata senza una direzione fissa. Arretrava, si guardava intorno, cadeva e si rialzava, si fermava e riprendeva a correre . A tratti sembrava scivolare, andando comunque sempre in discesa, verso la grande sequoia.
― E bravo O'Connor. In fondo il suo lavoro lo sa fare bene ― disse bwana Nelson
― Certo!
― Bravissimo!
― Gli perdoniamo di non essere venuto personalmente a riferire per questa volta? Che ne dite?
― Ma sì! È un brav’uomo e un buon diavolo!
― Nonché un ubriacone di prima categoria!
Gli amici annuirono ridendo.
Cominciarono a scendere senza fretta, sparando ogni tanto un colpo in aria, giusto per terrorizzare l’animale, che non aveva scampo in quella specie di discesa a imbuto.
I battitori formavano un muro alle sue spalle e incalzavano con i tamburi e i canti. I cani latravano rabbiosi, tenuti al guinzaglio.
Raramente venivano sguinzagliati perché, avevano sperimentato in precedenza, raggiungevano e uccidevano la preda prima dei cacciatori, togliendo tutto il piacere.
― Strano, non è veloce come gli altri, sembra che faccia fatica ― disse Majo Silver junior.
― Effettivamente ― fece eco George O'Connor, trangugiando una sorsata di rum.
― Non capisco. Corre come se non avesse mai visto l’erba. E cade troppe volte. Si ferma come per farsi notare, è assurdo, e poi scappa a casaccio.
I tre si divisero a ventaglio e cominciarono a sparare nei pressi del bersaglio, giusto per farlo deviare, in attesa che uscisse del tutto dall’erba alta verso il piccolo pianoro dove si ergeva la sequoia secolare, costretto da un’ala di battitori al suo fianco distaccata allo scopo: quella di Giulio Cesare.
Quando avvenne, la preda fu allo scoperto, ombreggiata dai declivi pietrosi della spianata che le impedivano la fuga se non davanti al tratto scoperto verso la sequoia. E dietro aveva i battitori e i cacciatori. Era come fare il tiro al bersaglio. Regolarono con gusto le tacche di mira dei fucili Sharps alla lunga distanza.
Bwana Nelson sapeva che la preda era sua. Gli amici non gli facevano mai lo sgarbo di colpirla per primi, anche perché era lui che organizzava la caccia, procurava le prede e talvolta, come in questo caso, si degnava di regalare a qualcuno di loro la testa da imbalsamare come trofeo.
Loro erano lì per eccitarsi, fare un po’ di sano movimento, congratularsi vicendevolmente e riunirsi a cena nel villino di caccia, dopo aver ammirato Patrickson staccare con maestria la testa della preda per l’imbalsamazione.
Bwana Nelson alzò la tacca di mira per lunghe distanze, mirò, trattenne il fiato, premette il grilletto rilasciando il respiro per non far rinculare il fucile prima del previsto. La preda cadde rotolando.
Ci misero del tempo a raggiungerla, perché i cavalli procedevano circospetti nella discesa. Nel frattempo intorno alla preda caduta si erano radunati i primi battitori e i sorveglianti a formare un cerchio silenzioso.
La figura esile del ragazzo giaceva in mezzo a loro, faccia a terra, le mani legate dietro la schiena. Indossava pantaloni rappezzati e una camicia scura. I capelli lunghi erano bianchi, sporchi di sangue e terra, sparpagliati sull’erba.
― Cosa ha in testa? ― disse Nelson.
― Sono i suoi capelli, bwana ― rispose Giulio Cesare, a stento distinguibile nel buio. Gli altri battitori con le torce si erano discostati da lui formando un cerchio intorno alla scena.
― Erano capelli biondi, ma sono diventati bianchi questa notte. Dalla paura, bwana.
Nelson non capiva. Scese da cavallo.
Un sorvegliante corse trafelato verso di lui.
― Signor Nelson! Signor Nelson! Hanno trovato O'Connor! Fatto a pezzi poco oltre la sequoia!
Nelson si voltò appena alla notizia, sembrava non aver capito. Guardava il ragazzo a terra, guardava i suoi amici, che reggevano le briglia dei cavalli, guardava i sorveglianti, che evitavano il suo sguardo. Guardava i neri. Un battitore porse una bisaccia a Giulio Cesare, che la prese gettando il cappello. Adesso era al centro, davanti a tutti, attorniato dagli altri schiavi che tenevano alte le torce, in silenzio.
― Voltalo! ― disse bwana Nelson, indicando il cadavere.
― Voltalo tu bwana. E’ un tuo diritto. Lo hai ucciso tu.
Nelson non rimase a pensare al fatto che uno dei suoi schiavi gli stesse dando un ordine, la situazione appariva tesa, opprimente. Ficcò la punta dello stivale sotto il petto del ragazzo e lo voltò di scatto. La luna illuminò la faccia di Stefan, il suo unico figlio di sedici anni, la bocca aperta, gli occhi vitrei dal terrore. Le lacrime avevano rigato la sua faccia cosparsa di polvere di carbone e grasso per sembrare nera, le labbra screpolate da urla che nessuno aveva sentito, bagnate di sangue. Nell’esile petto bianco, anche quello cosparso di grasso e carbone, il proiettile in uscita aveva aperto un foro grande come una prugna, che si andava allargando di rosso, il cuore centrato in pieno.
L’urlo di Nelson riecheggiò nel vallone, facendo ululare i cani e scartare i cavalli. Cadde in ginocchio stravolto, inebetito.
― E’ stato un tiro molto buono, bwana. E’ morto subito. Mio figlio era ancora vivo quando il signor Patrickson gli ha tagliato la testa per portarla al villino di caccia per imbalsamarla.
La voce di Giulio Cesare era calma, profonda. Nessuno lo aveva mai sentito parlare così a lungo, così bene nella lingua dei bianchi.
Tirò fuori dalla bisaccia una testa, tenendola dietro la nuca.
― Mio figlio, bwana. È ancora bello, vero? Ho seppellito il suo corpo e ora gli porterò la sua testa. Il signor Patrickson non ha fatto in tempo a imbalsamarla: è stato mangiato dai maiali davanti al nostro cimitero. Mio figlio tu lo avevi chiamato Catone Nelson, ma lui si chiamava Odojnga, il nostro nome africano. Era un ragazzo bellissimo e aveva l’età del tuo, bwana. Avevo solo quello. E gli volevo molto bene, bwana. Era mio figlio.
Giulio Cesare si avvicinò a Nelson, che emetteva un rantolo continuo dalla gola, come un animale ferito a morte, gli occhi vitrei come il figlio. Non riusciva a parlare. Giulio Cesare mise la testa di Odojnga accanto a quella di Stefan.
― Io provo dolore: come un uomo, bwana?
I battitori neri sembravano essere aumentati di numero. Mugolavano un canto a bocca chiusa, ritmato, senza parole. I bianchi a cavallo e a piedi tenevano le mani sui fucili ma non osavano fare nulla. I neri erano troppi, troppo vicini. Qualcuno aveva il machete per disboscare. Molti neri sarebbero morti se avessero fatto fuoco, ma i restanti li avrebbero fatti a pezzi.
Giulio Cesare, si chinò a fianco di Nelson. Sembravano due vecchi amici sotto la luna piena.
― Se io provo dolore vuol dire che sono un uomo anche io? Tu cosa provi, cosa senti adesso? Tu cosa sei bwana?