[Lab5] Catena
Posted: Sat Oct 01, 2022 9:44 pm
25 settembre 2022
Cara sorella,
come ogni settimana settimana, torno a scriverti due paroline sul mio lavoro. Ieri ho incontrato Calogero, un giovane giornalista siciliano che si occupa di storia della mafia. Lui mi ha raccontato un episodio del quale vorrei rendere edotta anche te. Userò il passato remoto, che so piacerti tanto e che anche io adoro, ma meno di quanto adori te, mia bellissima sorellina dagli occhioni neri. Riassumo per te.
Calogero la incontrò in un bar. Lei si chiamava Catena Farina, una donna anziana che parlava, parlava, parlava e non la smetteva mai.
«Scoprii di essere la figlia di un mafioso quando avevo venticinque anni» disse abbassando lo sguardo.
Lei, così piena di principî di libertà e amore, che voleva sconfiggere la violenza e la mafia nella sua terra partendo dai bambini. Gli raccontò di quel giorno, che definiva “quando cominciai a morire”, con un sorriso malinconico sulle labbra, dal quale lui, Calogero, ricavava tanto entusiasmo. Poi lei si alzò dalla sedia e scostò il tavolino. Camminò lentamente verso un angolino semibuio e Calogero la seguì. Lei sollevò lo sguardo e lo scrutò negli occhi.
«Terribile, terribile!» disse. Ogni strada gli ricordava una tragedia indicibile; ogni fiume di sangue che scorreva portava una firma. «Terribile, terribile!» aggiungeva sempre. E pianse. Tra quelle lacrime che scivolavano lungo il viso, Calogero intuí tanta leggerezza. Amarezza e leggerezza contemporaneamente, come solo le donne siciliane sanno fare.
A quel tempo lei faceva la maestra elementare. Aiutava come poteva i suoi alunni: comprava loro i libri, il pane, la pasta, i vestiti e tutto quello che era necessario a una vita libera e dignitosa. Il suo stipendio se ne andava così. Calogero provò tanta pena per Catena, ma cercò di non farlo trasparire. Dopo tutto, lui era un giornalista e doveva rimanere professionale; ma «al cuor non si comanda» disse.
In seguito all’uccisione del sindaco del paesello, Catena aveva trovato ancora più forza per andare avanti. Calogero diede un pugno sul muro. Era arrabbiato. Lei voleva costruire nuovi edifici per i bambini del luogo: non si era mai data per vinta, ma sapeva che aveva bisogno di tanti soldi per acquistare i terreni.
«E come hai fatto?» le chiese.
Lei rispose che era andata a cercare fondi in America. Due anni dopo, era rientrata al suo paesello con una borsa piena di soldi. C’erano quattordici milioni di dollari dentro. Ma qui dovette scontrarsi con le cose meno leggère che esistevano: la burocrazia e la mafia. «Che poi sono la stessa cosa» disse. Ogni volta che capivano la sua intenzione di comprare un terreno, come per magia questo saliva di prezzo. Alla fine però non aveva abbandonato il suo proposito e, nonostante tutto, era riuscita a costruire nove edifici con i quali provava a recuperare ragazzi dalla strada. Allora, disse, le donne da queste parti erano passive: calavano sempre la testa. Ma lei no! Per questo la mafia, fatta di uomini piccoli, la guardava con gli occhi storti.
«Non avevano fatto i conti con la mia testardaggine.»
Calogero allora ripensò alla sua dolce nonna, quando, anni prima, gli raccontava che andava a letto con una camicia da notte con la scritta «Non lo fo per piacer mio, ma per dare figli a Dio». Maledetti! Scambiavano l’assoggettamento con l’amore!
«Io mi sentivo leggera come l’aria» disse Catena «di fronte alla pesantezza della mafia e della sua ancella burocrazia. Nulla fermava i miei progetti». Ma presto si era scontrata con l’aria. Portava i suoi ragazzi a giocare con il pallone in piazza e lí, accanto alla chiesa, ci abitava la zà Michilina, così la chiamavano. Vecchiaccia prepotente e lagnosa. Ogni volta che il pallone le finiva sul balcone, si divertiva a squarciarlo con un coltello e l’aria usciva con un notevole fragore. «Ricordo ancora quel rumore» disse con un sorriso. «Io volevo essere come l’aria che usciva, ma non facevo nessun rumore.» Cosí Catena, senza fiatare, ricomprava sempre un pallone nuovo. «Al miliardesimo» aggiunse «anche Michelina smise, dovette stancarsi, e cosí potemmo giocare in pace.» Rise soddisfatta. Poi: «Per i ragazzi fu una bella lezione. Avevo dimostrato che i prepotenti si combattono con le armi della civiltà e della pazienza. Cosí ho cercato di educarli al bene, al bello e all’onestà.»
Catena si avviò all’uscio del bar. Calogero le tenne dietro fino a quando furono fuori, su un marciapiede. Non c’era nessuno per strada. Passò un uomo su una motocicletta e la salutò con la mano. «Quello era un mio alunno, figlio del sindaco, che era un uomo buono. Il mio migliore amico. Pagò con la vita la sua opposizione alla mafia agraria.» Si accese una sigaretta, fece un solo tiro e poi la buttò in un cestino. «Con lui avevo in progetto di costruire una città del fanciullo, un’oasi di pace per strappare alla violenza i ragazzini del luogo.»
«Alle fine quanti ne hai salvati?» disse Calogero.
«Non so quanti, ma tanti. Certo, ci sono stati anche diversi fallimenti. Quando arrivavano a drogarsi, non c’era nulla da fare. Si trasformavano. A questo punto io mi arrendevo. Prima si moriva di fame; poi è scoppiata la guerra a chi aveva i vestiti migliori, le macchine migliori.» Catena fece un passo indietro e si appoggiò a un muro. «La droga, la droga… Prima, non c’era pane in casa? I padri andavano a rubare e le madri si prostituivano. Poi, non ne ebbero più bisogno. L’arrivismo si era fatto strada nei loro cuori.» Si mise sul bordo del marciapiede e fissò l’orizzonte dando le spalle a Calogero. «Che bel tramonto! Tutte le isole, la laguna con il sole che si specchia nell’acqua! Io ho sempre amato questo tramonto.» Aprì le braccia come per accogliere qualcuno. «Il lavoro è stato sempre il mio insegnamento. Senti il venticello? Soffia libero, libero, libero.»
Calogero si sentiva rinato, il vento gli sbatteva sulle guance sotto i riccioli neri. Pensò a una colomba bianca che atterrava su una spiaggia enorme di sabbia fine. Andò accanto a Catena. «Libero come il vento, così voglio essere.»
Lei allargò ancora le dita delle mani. «Noi Siciliani subiamo da secoli la pesantezza della mafia, eppure ci dicono che siamo tutti mafiosi. Liberi come il vento dobbiamo essere.»
Calogero respirò profondamente.
Cara sorellina, fra poco vado a votare. Adesso so per chi.
Tuo fratello Salvatore
Cara sorella,
come ogni settimana settimana, torno a scriverti due paroline sul mio lavoro. Ieri ho incontrato Calogero, un giovane giornalista siciliano che si occupa di storia della mafia. Lui mi ha raccontato un episodio del quale vorrei rendere edotta anche te. Userò il passato remoto, che so piacerti tanto e che anche io adoro, ma meno di quanto adori te, mia bellissima sorellina dagli occhioni neri. Riassumo per te.
Calogero la incontrò in un bar. Lei si chiamava Catena Farina, una donna anziana che parlava, parlava, parlava e non la smetteva mai.
«Scoprii di essere la figlia di un mafioso quando avevo venticinque anni» disse abbassando lo sguardo.
Lei, così piena di principî di libertà e amore, che voleva sconfiggere la violenza e la mafia nella sua terra partendo dai bambini. Gli raccontò di quel giorno, che definiva “quando cominciai a morire”, con un sorriso malinconico sulle labbra, dal quale lui, Calogero, ricavava tanto entusiasmo. Poi lei si alzò dalla sedia e scostò il tavolino. Camminò lentamente verso un angolino semibuio e Calogero la seguì. Lei sollevò lo sguardo e lo scrutò negli occhi.
«Terribile, terribile!» disse. Ogni strada gli ricordava una tragedia indicibile; ogni fiume di sangue che scorreva portava una firma. «Terribile, terribile!» aggiungeva sempre. E pianse. Tra quelle lacrime che scivolavano lungo il viso, Calogero intuí tanta leggerezza. Amarezza e leggerezza contemporaneamente, come solo le donne siciliane sanno fare.
A quel tempo lei faceva la maestra elementare. Aiutava come poteva i suoi alunni: comprava loro i libri, il pane, la pasta, i vestiti e tutto quello che era necessario a una vita libera e dignitosa. Il suo stipendio se ne andava così. Calogero provò tanta pena per Catena, ma cercò di non farlo trasparire. Dopo tutto, lui era un giornalista e doveva rimanere professionale; ma «al cuor non si comanda» disse.
In seguito all’uccisione del sindaco del paesello, Catena aveva trovato ancora più forza per andare avanti. Calogero diede un pugno sul muro. Era arrabbiato. Lei voleva costruire nuovi edifici per i bambini del luogo: non si era mai data per vinta, ma sapeva che aveva bisogno di tanti soldi per acquistare i terreni.
«E come hai fatto?» le chiese.
Lei rispose che era andata a cercare fondi in America. Due anni dopo, era rientrata al suo paesello con una borsa piena di soldi. C’erano quattordici milioni di dollari dentro. Ma qui dovette scontrarsi con le cose meno leggère che esistevano: la burocrazia e la mafia. «Che poi sono la stessa cosa» disse. Ogni volta che capivano la sua intenzione di comprare un terreno, come per magia questo saliva di prezzo. Alla fine però non aveva abbandonato il suo proposito e, nonostante tutto, era riuscita a costruire nove edifici con i quali provava a recuperare ragazzi dalla strada. Allora, disse, le donne da queste parti erano passive: calavano sempre la testa. Ma lei no! Per questo la mafia, fatta di uomini piccoli, la guardava con gli occhi storti.
«Non avevano fatto i conti con la mia testardaggine.»
Calogero allora ripensò alla sua dolce nonna, quando, anni prima, gli raccontava che andava a letto con una camicia da notte con la scritta «Non lo fo per piacer mio, ma per dare figli a Dio». Maledetti! Scambiavano l’assoggettamento con l’amore!
«Io mi sentivo leggera come l’aria» disse Catena «di fronte alla pesantezza della mafia e della sua ancella burocrazia. Nulla fermava i miei progetti». Ma presto si era scontrata con l’aria. Portava i suoi ragazzi a giocare con il pallone in piazza e lí, accanto alla chiesa, ci abitava la zà Michilina, così la chiamavano. Vecchiaccia prepotente e lagnosa. Ogni volta che il pallone le finiva sul balcone, si divertiva a squarciarlo con un coltello e l’aria usciva con un notevole fragore. «Ricordo ancora quel rumore» disse con un sorriso. «Io volevo essere come l’aria che usciva, ma non facevo nessun rumore.» Cosí Catena, senza fiatare, ricomprava sempre un pallone nuovo. «Al miliardesimo» aggiunse «anche Michelina smise, dovette stancarsi, e cosí potemmo giocare in pace.» Rise soddisfatta. Poi: «Per i ragazzi fu una bella lezione. Avevo dimostrato che i prepotenti si combattono con le armi della civiltà e della pazienza. Cosí ho cercato di educarli al bene, al bello e all’onestà.»
Catena si avviò all’uscio del bar. Calogero le tenne dietro fino a quando furono fuori, su un marciapiede. Non c’era nessuno per strada. Passò un uomo su una motocicletta e la salutò con la mano. «Quello era un mio alunno, figlio del sindaco, che era un uomo buono. Il mio migliore amico. Pagò con la vita la sua opposizione alla mafia agraria.» Si accese una sigaretta, fece un solo tiro e poi la buttò in un cestino. «Con lui avevo in progetto di costruire una città del fanciullo, un’oasi di pace per strappare alla violenza i ragazzini del luogo.»
«Alle fine quanti ne hai salvati?» disse Calogero.
«Non so quanti, ma tanti. Certo, ci sono stati anche diversi fallimenti. Quando arrivavano a drogarsi, non c’era nulla da fare. Si trasformavano. A questo punto io mi arrendevo. Prima si moriva di fame; poi è scoppiata la guerra a chi aveva i vestiti migliori, le macchine migliori.» Catena fece un passo indietro e si appoggiò a un muro. «La droga, la droga… Prima, non c’era pane in casa? I padri andavano a rubare e le madri si prostituivano. Poi, non ne ebbero più bisogno. L’arrivismo si era fatto strada nei loro cuori.» Si mise sul bordo del marciapiede e fissò l’orizzonte dando le spalle a Calogero. «Che bel tramonto! Tutte le isole, la laguna con il sole che si specchia nell’acqua! Io ho sempre amato questo tramonto.» Aprì le braccia come per accogliere qualcuno. «Il lavoro è stato sempre il mio insegnamento. Senti il venticello? Soffia libero, libero, libero.»
Calogero si sentiva rinato, il vento gli sbatteva sulle guance sotto i riccioli neri. Pensò a una colomba bianca che atterrava su una spiaggia enorme di sabbia fine. Andò accanto a Catena. «Libero come il vento, così voglio essere.»
Lei allargò ancora le dita delle mani. «Noi Siciliani subiamo da secoli la pesantezza della mafia, eppure ci dicono che siamo tutti mafiosi. Liberi come il vento dobbiamo essere.»
Calogero respirò profondamente.
Cara sorellina, fra poco vado a votare. Adesso so per chi.
Tuo fratello Salvatore