[MI 173] Il peccato di frate Jordano
Posted: Sun Sep 04, 2022 8:01 pm
Terza traccia: Il segreto.
commento: C18
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― Mi dispiace darle questa incombenza, don Fabrizio.
― Non si faccia scrupolo eccellenza, ci mancherebbe ― rispose il prete seduto davanti alla scrivania del suo vescovo.
― Il fatto è… lei saprà, che dobbiamo chiudere il convento di santa Jela.
― Lo conosco di fama. Un rimasuglio del passato.
― In effetti fu fondato mille anni fa. La struttura è fatiscente ma con dei fondi appositi possiamo ristrutturarlo.
― Per fondare un altro convento?
― Ma ci mancherebbe! Stiamo abolendo e buttando fuori tutti i vecchi ordini di monaci e monache di clausura! Aria! Bisogna uscire dalle vecchie mura e buttarsi in mezzo alla gente, impregnarsi dell’odore delle pecore, darsi al sociale. L’idea è di farne un convitto, un ostello.
― Ottima idea. Almeno si guadagna qualcosa.
― A parte il guadagno, abbiamo un problema. Dentro al convento ci sono ancora una mezza dozzina di vecchi frati. Non possono essere utili nella società moderna, che nemmeno capirebbero. Perciò ho deciso, sia pure a malincuore, di ricoverarli in un ospizio apposito.
― Volete che me ne occupi io?
― Sì. Siete il più affidabile e portato per queste cose.
Don Fabrizio chinò con deferenza la testa.
― Quando devo agire?
― Prima di agire, ecco l’incombenza di cui le parlavo, lei dovrebbe recarsi al convento in veste di confessore.
― Confessore? Sono anni che non confesso.
― Lo so. La direzione del seminario l’assorbe molto a quanto pare, nonostante la scarsità di vocazioni.
― Consideri anche gli allievi esterni…
― Considero tutto don Fabrizio. Le assicuro che considero tutto.
Nel dire queste parole il vescovo lanciò un’occhiata penetrante sul viso del prete, che arrossì e accavallò le gambe.
― Dovrà confessare un vecchio frate malato da tempo. Veramente non muore mai, gli è già stata amministrata diverse volte l’estrema unzione in questi ultimi due anni, ma è sempre lì. Quando se ne sarà andato potremo trasferire gli altri frati.
― Si tratta del priore?
― Non hanno priore. È un frate quasi centenario, un semplice frate, molto rispettato. Con la scusa della confessione si accerti come sta, come la pensa, come la pensano gli altri frati, se sono propensi a trasferirsi dopo la morte del loro confratello. Se ancora non li ho fatti sgombrare è solo per una sorta di…
― Pietà?
― Rispetto. Vada, sondi il terreno e mi faccia sapere.
Don Fabrizio tornò al seminario. Era scocciato da questo incarico e non gli era piaciuto lo sguardo del vescovo; sicuramente sapeva qualcosa, ma difficilmente lo avrebbe accusato di alcunché. Sapeva di essere uno dei preti più brillanti della curia e personalità molto più in alto del vescovo, religiose e laiche, lo avevano in particolare considerazione.
Sentì bussare alla porta della sua camera; un tocco leggero, timido, che riconobbe con un tuffo al cuore, misto di ansia e di gioia. Andò ad aprire.
Il convento di santa Jela, un ammasso di mura scalcinate, sorgeva all’estrema periferia della città, circondato da prati rinsecchiti, rifiuti di ogni genere, file di condomini grigi e fatiscenti con lo sfondo di un cielo grigio da fine del mondo conosciuto. Intorno una rete di strade piene di fossi che a tratti apparivano sterrate. Parcheggiò a malincuore la macchina adiacente a un muro sbrecciato che tagliava a metà le mura del convento, immergendola in mezzo a delle erbacce.
Venne ad aprirgli un frate che sarebbe apparso bene in una stampa di secoli addietro, in un paesaggio dove incombeva la peste, talmente appariva emaciato, sporco e dolorante.
Don Fabrizio si presentò e il frate lo guidò, zoppicante, attraverso un corridoio che sbucava in un patio con un cortile interno e un pozzo centrale, un angolo che un tempo doveva essere stato fiorente a giudicare dalle numerose siepi incolte e stentati alberi da frutto.
― Avevamo anche un orto, ma è faticoso tirare l’acqua dal pozzo per annaffiarlo… ― disse il frate con una voce cantilenante.
― Non avete l’acqua corrente?
― No. Ce l’hanno tolta. Sia fatta la volontà di Dio.
Attraversato il patio entrarono sotto un lungo portico che si perdeva in altri portici più avanti. Salirono delle scale di pietra arcuate dal cammino dei secoli, attraversando un lungo corridoio buio.
― Ma perché non accendete la luce?
― Ce l’hanno tolta. Sia fatta la volontà di Dio.
Davanti a una vecchia e pesante porta borchiata, che starebbe stata di lusso se restaurata in qualche facoltosa villa, il frate si fermò umilmente.
― Qui c’è frate Jordano. Sa che è venuto un confessore e noi tutti ringraziamo il vescovo per averci fatto questo dono. Noi non siamo sacerdoti e non possiamo confessarci.
La stanza era piccola, con un letto, un tavolo, una sedia e un attaccapanni. Sul letto stava disteso un vecchio frate dalla lunga barba bianca.
― Questa è la volta buona padre ― disse vedendo il prete.
― Mi dispiace che dopo, tutto questo sparirà per sempre. ― Indicava in alto e intorno a sè.
― Non tanto per me, ma per i miei fratelli. Sia fatta la volontà di Dio. Questa è la volta buona padre.
― Perché dici che è la volta buona?
― Sto per morire padre. Sono un peccatore e vorrei confessarmi.
― Sono qui per questo.
― Ancora di più peccatore perché una cosa non l’ho mai confessata prima. Peccatore per sempre. Perché non si siede e non si mette la stola, padre?
― Ah! Certo.
Don Fabrizio si sedette con circospezione sulla sedia indossando la stola viola. Dopo i generici preliminari, che gli venivano in mente a stento, il prete fece delle domande specifiche sul genere di peccato che il frate asseriva di aver commesso.
― Concupiscentia pater.
― Concupiscentia!
― Indegnamente mi sono cinto del cordone. Ho ingannato tutti, ho ingannato Dio.
― Non piangere. E raccontami.
― Sono in questo convento da ottanta anni, padre.
― Quanti anni hai?
― Novantatre.
― Ma…
― Sono entrato a tredici anni.
― Continua.
― Dopo pochi anni, nel cortile dei novizi ne vidi uno che leggeva le Scritture. Non dovevo guardarlo, ma non potei farne a meno. Era un angelo. Il sole scendeva a illuminarlo sotto il patio, sembrava chiamarlo in cielo. Io rimanevo incantato a guardarlo.
― E poi?
Il cielo lo chiamò davvero alla fine. Si ammalò e morì.
― Non capisco…
― Mi ammalai anche io per il dolore ed ero contento, perché così speravo di raggiungerlo e ritrovarlo. Ma guarii. Allora andavo sotto il patio, nel punto esatto dove il novizio si sedeva a leggere e aspettavo che il sole scendesse su di me, come era sceso su di lui. Il sole sulla mia pelle, che era stato sulla sua pelle, quel calore che lui aveva provato, che anche io ora provavo, che mi entrava dentro come un balsamo, che mi scioglieva l’anima, che mi inebriava, mi faceva svenire… Ero con lui padre, capisce? Ero con lui. Volevo essere con lui. Sono andato tutti i giorni sotto il patio, per tanto tempo. Poi ho smesso.
― Perché?
― Perché non era giusto padre. Lo so. Ma ho peccato. Non l’ho mai detto, neanche in confessione. Peccato mortale. Ho cercato di punirmi. Feci voto di non uscire più dal monastero, ho messo il cilicio che mi lacera le carni ed è troppo poco, ho passato intere notti per anni prostrato davanti al Santissimo, interi giorni a digiuno e in preghiera. Per tanti lunghi anni. Ma è niente davanti al mio peccato, al mio silenzio. Merito l’inferno padre!
― Dunque questo è il tuo... peccato?
― Si padre. Sono perduto! Sono un peccatore! Mi dispiace aver ingannato tutti!
― Tu… Voi un peccatore! Voi un peccatore!
Don Fabrizio cadde in ginocchio davanti al frate, con gli occhi pieni di lacrime. Sollevò la mano tremante e disse ― Ego te absolvo a peccatis tuis, in nomine Pater, et Filii, et Spiritus Sancti... Amen.
Frate Jordano sorrideva estatico, gli occhi che già vedevano oltre.
― Dio mi assolve!
― Dio non vi ha mai condannato padre! Vi prego di intercedere per me quando sarete davanti a Lui. Io sono un peccatore! Non siete voi! Prenderò il vostro posto, padre. Non mi basterà tutta la vita per espiare! Che Dio abbia pietà di me!