Ubaldo

1
Mi sveglio sotto a una lingua ruvida che mi lecca. C'è uno spinone che mi alita in faccia.
“Tecla, è ora di alzarsi! Spicciati altrimenti perdi il bus” dice questa donna famigliare spingendo via il cane e scoperchiando i letto.
Tecla? Bus?
Sto ancora dormendo e la sveglia non è suonata.
“Guarda che Ubaldo ti aspetta per essere spazzolato.”
Spazzola? Ubaldo?
Mi metto a sedere e non sento dolori alle giunture, anzi è molto piacevole.
È un sogno davvero realistico, anche la fame che sento sembra vera, così la pipì che mi scappa. Decido di stare al gioco del mio cervello che dorme: mi guardo allo specchio e riconosco Tecla la mia alunna di terza. La più asina fra le asine non solo in latino, la mia materia, ma anche in tutte le altre. Mi sa che quest’anno la bocciamo. Quando mi sveglio devo leggere cosa vuol dire sognare di essere la propria alunna più capra. Sarà che non riesco a fare pace con la vecchiaia.
“Sorellina, cretina!” Ahia! Che scappellotto che mi ha tirato questo nano. Fa male, troppo male per essere un sogno.
“Muoviti!” urla la madre dal piano di sotto.
Chissà dov’è il bagno?
Esco, tanto nei sogni le cose si risolvono da sé. Apro una porta a caso e mi trovo davanti un tizio sexy, mai visto e praticamente nudo.
“Tecla, cosa fai qui? Mi devi dire qualcosa?”
“No, no.” Chiudo e provo con la porta di fianco.
“Sei la solita stronza! Apri senza bussare solo per darmi fastidio. Sparisci!”
Anche questa mi è sconosciuta, chiudo e provo con la prossima. Il bagno! Che gioia!
Mi precipito sul water e poi ne approfitto per lavare questo bellissimo corpo flessuoso e morbido.
Mi spiccio che in questo sogno urlano tutti.
La mamma di Tecla mi perseguita: per farla stare zitta spazzolo lo spinone Ubaldo che mi guarda perplesso.
“Come sei elegante stamattina. Niente jeans strappati, niente pancia di fuori, addirittura ti sei messa il golfino che ti ha regalato la nonna. C’è qualcosa che devo sapere?”
Certo, non sono Tecla, sono la signora Perletti, emerita insegnate di latino di sua figlia e vorrei tanto sapere perché la sveglia non suona.
Sento di non poter dire queste cose, sento che c’è qualcosa di molto sbagliato.
“Visto che non mi rispondi, vai a chiamare tua sorella che è in ritardo e metti la merenda nella cartella di Gino. Almeno renditi utile.”
Faccio come mi è stato detto, busso alla porta del mostro urlante e infilo la merenda nella cartella del nano. Ma la mia dov’è?
Corro su in camera e la trovo sotto la scrivania. Speriamo che la disgraziata abbia fatto i compiti.
Appena fuori mi affianca il nano Gino.
“Certo che sei strana oggi, non mi hai ancora picchiato. Guarda c’è quella merda del tuo ragazzo.” Il tono è di tale disprezzo che inizio a preoccuparmi.
Da dietro due mani mi agguantano i seni, vengo avvolta da una nuvola di nicotina e sudore adolescenziale stantio.
“Ecco la mia zoccoletta preferita. Pronta a metterti in cartella le dosi?”
Ruoto fulminea e gli piazzo uno schiaffo in faccia: ma come si permette questo fetido troglodita!
“Amo’ che c’è? Non ti è piaciuto il trip di ieri sera?” È davvero stupito.
Il nano si avvia indifferente, lo rincorro.
“Gino, oggi vengo con te.”
“Stammi lontano, Tecla, che oggi mi fai piú paura del solito.”
Lo spacciatore non mi molla, mi prende per un braccio e insiste.
“Va bene lo schiaffo, va bene che sei vestita come una suora, ma a me non mi molli cosí in mezzo alla strada. Tu hai da rispettare i patti. Io ti organizzo il festino nel giardino della prof di latino e tu porti le dosi a scuola. Festino fatto, a te le cazzo di dosi. Hai capito?”
Mi spavento e ficco in cartella il sacchetto prima di salire sul bus dietro a Gino.
Trovo da sedere vicino a Danila che mi pare ancora la più normale in questa baraonda.
“Tecla, mi dai la dose? Ho visto che te le ha passate.”
Da Danila non me lo aspettavo, sembrava così per bene, buoni voti, sempre a modo. Le passo la dose e lei ricambia con venti euro.
“Ci siamo divertite da matti ieri sera, che figata!”
“Non mi ricordo più niente.”
“Come no? La festa, il giardino della prof. Perletti, lei che esce tremante in camicia da notte, urlando che dovevamo fare i bravi e spegnere il falò, e noi giù a ridere. Ti ricordi?”
“No” inizio a sudare, non capisco cosa sia questa storia.
“Dovevi essere proprio fatta. Hai esagerato come al solito. Le hai pure detto di venire, alla vecchia stronza, e quando lei era abbastanza vicina, l’hai spinta nel falò. Come urlava la strega.”
Adesso mi ricordo il dolore, la paura, l’incommensurabile odio mentre mi andavano a fuoco i capelli, l’ultimo pensiero prima del buio: ti ruberò quello che di più prezioso hai!
“E poi?”
“Niente, la vecchia ha preso fuoco e noi siamo scappati. Tu per prima.”
“Così?”
Non riesco a credere a tanta crudele superficialità, a tanta perfida indifferenza.
“Cosa volevi? Chiamare la polizia? Così ci rompevano pure le palle? Dai, Tecla, che ti prende, almeno non abbiamo latino e i nostri genitori non si sono accorti di un cazzo come al solito.”
Sento freddo, mi rendo conto che è successo qualcosa di terribile.

Nei corridoi non si fa altro che parlare della Perletti arrosto. C’è chi ride sguaiatamente, chi invece é scioccato, l’atmosfera è densa di dicerie.
Sembra che la Perletti, cioè io, verso le otto di sera abbia deciso di bruciare le foglie secche sul retro della sua villetta. Non si capisce come mai l’abbia fatto in camicia da notte lasciando la televisione accesa nel salotto. Fatto sta che deve essere inciampata e ha preso fuoco. Adesso è in ospedale, ustioni di terzo grado su tutto il corpo e non si sa se ce la farà. Cosí ci dice il prof di storia.
Mi sento male, corro in bagno a vomitare. In infermeria chiedo di poter andare a casa.
Quale casa? La mia, quella di Tecla?

Seduta nel bus semivuoto cerco di fare chiarezza prima di arrivare in ospedale: sto andando a trovare il mio corpo bruciacchiato sperando di trovarci dentro Tecla.
E poi cosa faccio? Chiamo un esorcista? Mi invento un rito per rientrare nel mio corpo e poi forse morire a breve?
Ho sessantasette anni, ho sgobbato per tutta la vita, vedova alle soglie della pensione, i figli lontani e disinteressati e sono stata aggredita da un manipolo di adolescenti.

“La Perletti è in intensiva. È messa molto male.”
“Sono la nipote, per favore”
L’infermiera cede.
È da sola in rianimazione. È vigile e intubata, un mostro unto di carne sciolta.
Già parlo del mio corpo come se non mi appartenesse più.
“Tecla, sono la professoressa Perletti. Soffri molto?””
Non può parlare, ma gli occhi le si riempiono di terrore.
“Ti ricordi cosa è successo ieri sera?”
Fa un cenno che pare affermativo.
“Anch’io e mi sono svegliata a casa tua, nel tuo letto, nel tuo corpo. E devo dire, che, a parte le persone che frequenti, mi piace parecchio la tua vita.”
Scendono lacrime, mugola, cerca di muoversi.
“Ti potrei dire una pietosa bugia e far finta di cercare una soluzione per tornare ognuna nel proprio corpo, ma in questo momento preciso mi è venuto in mente che qualche motivo ci deve pur essere perché sia successo così. Non importa se sei tu che non ti meriti di vivere oppure io che mi merito una seconda vita ricca dell’esperienza della precedente. Ma lascerò le cose come stanno.”
Faccio per andarmene.
“Non agitarti troppo che ho il cuore debole.”
Esco inseguita da un concerto di bip impazziti. Incontro l’infermiera che corre in rianimazione, ma ho come il sospetto che non ci sia più molto da fare.

Apro per l’ultima volta la porta della mia casa da professoressa con la chiave nascosta sotto il sasso. Mi aggiro nelle stanze, frugo in questa vita che non mi appartiene più. Gli oggetti mi sono estranei, le foto mi dicono poco o niente, semplici promemoria di ciò che non sarà più.

Al funerale sono in mezzo alla mia nuova famiglia, che non si capacita di questa Tecla gentile e studiosa che da grande vuole fare il medico.
Da come stanno in piedi i miei figli, credo che abbiano già litigato per la casa. Sarà un piacere far loro le più sentite condoglianze.
Solo Ubaldo mi guarda dubbioso.
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