Il domatore di forchette

1
Ho sentito di una storia straordinaria: una forchetta era impazzita in un ristorante scomparendo poco dopo.

La coppia aveva appena preso posto sotto alle luci soffuse. A nessuno in sala ne era sfuggita l’eleganza, la finezza dei modi, la gentilezza dei gesti. Le appliques discrete illuminavano l’incarnato perfetto della donna, lo sguardo dell’uomo seguiva con attenzione ogni suo gesto. Sulla tovaglia di lino balenavano le posate. Mentre lei appoggiava la borsetta sulla sedia libera, lui faceva segno al maître.
In quel preciso istante un’oscena forchetta d’argento a sette rebbi, apparecchiata al posto di lei, impazzì. Si piantò nel collo del marito sotto alla mascella. La moglie iniziò ad urlare mentre cercava di tirare fuori la posata. Fiotti di sangue sul lino bianco, sui bicchieri di cristallo, sui candidi piatti di Limoges.
La donna con la bocca spalancata senza più fiato, cercava di strappare via la forchetta, ma questa continuava ad infierire sulla gola, sul pomo d’adamo, sulle mani dell’uomo che disperato cercava di proteggersi. La posata impietosa e velocissima, si infilzò in uno zigomo, crocifisse una palpebra sul globo oculare.
Tutto attorno una pioggia di schizzi rossi. In un attimo di eternità il ristorante si era trasformato in una macelleria.
E continuava senza pietà, come una macchina da cucire impazzita. Dentro e fuori dal viso dell’uomo, la forchetta si opponeva agli sforzi della donna, le sfuggiva per infilzarsi in un lobo, scendere, spinta da una forza invisibile, ad arare la carne fino alle clavicole stracciando il colletto della camicia.
Era certamente una forchetta posseduta, indifferente alle mani lorde di sangue della donna. Con l’ultimo affondo si piantò nella giugulare dell’uomo per creare un canyon di carne da cui uscivano fiotti di sangue al ritmo del suo cuore terrorizzato.
Era una forchetta veloce e vorace. Quando finalmente cadde spossata sul tavolo erano passati forse 20 secondi.
Dagli altri tavoli occhi sgranati e sguardi scioccati. Alcuni uomini si erano alzati per aiutare la signora. Era chiaro a tutti che lei non era stata in grado di prendere il controllo sulla forchetta, e nemmeno loro ne sarebbero stati capaci.
Il maître, guardando quella devastazione in mezzo alla sala, appoggiò la carta dei vini e chiamò la polizia chiedendosi come descrivere ciò che aveva visto.
La donna inebetita si lasciò trascinare via dal tavolo senza curarsi della sua scollatura strappata e del seno sporco di sangue che ne sporgeva.
Intorno al tavolo dell’incidente si era creato il vuoto. Il sangue colava pigro dal bordo del tavolo in una pozzanghera liscia come uno specchio scarlatto ai piedi del marito immobile.
Nel silenzio che era calato tutti erano consapevoli di aver assistito ad un evento straordinario, di cui precedentemente avevano solo sentito parlare attorno ai falò autunnali. Si sentirono proiettati nei racconti di mezzanotte, quelli che impediscono di addormentarsi sereni.
C’era chi fissava preoccupato le proprie posate sporche di salmone o tartufo, chiedendosi se la consistenza del filetto al sangue che si stava raffreddando fosse diversa dal viso dell’uomo.
Alcuni addirittura azzardavano una riflessione filosofica sulla natura delle posate, rendendosi conto di aver sempre considerato pericolosi i coltelli, non certo le forchette. Queste ultime erano fatte per tenere ferma la preda mentre il coltello taglia, spolpa, sbuccia, compie lo scempio. Nemmeno i risultati erano paragonabili, non si poteva mettere a confronto il lavoro netto e deciso di un coltello con queste carni masticate dalla forchetta.
In quegli istanti silenziosi di sospensione fra il riposo della forchetta e l’arrivo della polizia, mentre ancora gli ospiti avevano gli sguardi rivolti al loro interno per elaborare lo spettacolo, si alzò un uomo.
Un uomo fuori luogo, di quelli invisibili, senza odore, privi di aspetto, un uomo la cui presenza viene confermata dal fatto che occupa una sedia. Uno di quegli uomini che nella memoria lasciano la stessa traccia di una piovra nell’acqua, quelli che sono ovunque ma in nessun luogo. Un uomo da interstizi.
Proprio quell’uomo apparentemente trascurabile, attraversò la sala fino al tavolo, impugnò la forchetta per piantarla con decisione nella mano dell’uomo morto a mo’ di firma. Quando la estrasse, osservò con attenzione le sette precise lacerazioni, e quasi amorevolmente si infilò la forchetta nel taschino della giacca anonima. A quel punto con passo deciso ed elegante agirò il maître basito e se ne andò per la propria strada.
Appena la porta si chiuse con uno sbuffo di aria fresca alle sue spalle, in sala scoppiò il putiferio.
Chi urlava, chi vomitava, chi controllava se si era macchiato, chi tremava, chi scuoteva la testa incredulo, chi si dispiaceva per la donna, chi per il marito, chi era contento di essersela cavata.
Chi ancora si torceva le mani, chi invocava Dio, la Madonna, chi si pentiva dei propri peccati e chi del ristorante scelto, nonostante il fatto che da quella sera sarebbe stato il ristorante più famoso al mondo.
Mentre sul marciapiede un uomo insignificante camminava piano al chiaro di luna cantando una nenia alla sua forchetta, dentro tutti d’accordo avevano dichiarato alla polizia di aver visto il domatore di forchette.
Rimaneva solo da capire che cosa aveva da nascondere l’uomo morto, perché la forchetta del domatore non colpiva mai a caso e questa era una certezza tramandata di padre in figlio nei racconti della buona notte per ricordarsi di andare a tavola con le mani pulite e la coscienza a posto.
Rispondi

Torna a “Racconti”