La gelatina

1
L’ultimo ricordo che ho, è la cucina di casa mia, il mio corpo legato al tavolo e il macellaio che dice a mia moglie: ”Nessuno, ha il diritto di tradirti, amore mio!”
Dietro alla mannaia che scende, vedo il soffitto ingiallito, fuori le bombe esplodono, i tedeschi urlano, pare stiano arrivando gli alleati che tanto aspettavamo, ma per me un tonfo e il buio.
Mi sveglio, se così si può dire, in ammollo nella gelatina. Ho una fettina di cipolla davanti a un occhio e non sento il mio corpo. Non è che non riesco a muoverlo, proprio non lo sento. È un’assenza orrenda, enorme.
Mi rendo conto che posso stare dentro e fuori, e da fuori vedo la mia testa, solo la mia testa in quel grande vaso di vetro capiente e sigillato. Di fianco un vaso uguale, ma vuoto. Vorrei dire che mi tremano le ginocchia, ma non so dove sono.
Appena sento la voce di Lucio rientro nella mia testa conservata. Entra in cucina. Ha in braccio Melina. Sembra svenuta. Mia moglie lo aiuta a legarla al tavolo, poi, con un colpo secco, tagliano la testa anche a lei.
Melina, mia adorata, quanta paura devi aver avuto.
Però che stronza mia moglie. Mi tradisce dal ‘42 col macellaio e non tollera che io m’innamori a mia volta.
Melina è, o forse era, una donna così dolce. La prima volta ci siamo baciati dietro ai cipressi del cimitero. L’avevo accompagnata alla tomba del marito caduto in guerra. Gli occhi arrossati dal pianto, il fazzoletto legato sotto al mento per tenere in ordine i capelli, mi aveva guardato da sotto in su quasi implorando quel bacio.
Aspettavamo la fine della guerra per iniziare una nuova vita. Lei vedova, io tradito col macellaio: potevamo essere felici tutti.

“Lucio, fai piano col vetro caldo, manca solo che si rompa. Mettila lì di fianco a lui, così si guardano i cretini.”
Adesso Melina è vicino a me, probabilmente per sempre. Pur non potendo girare gli occhi, e nemmeno spostare quel pezzo di carota che mi preme sul naso, mi bastava uscire da me per vedere lei. I suoi riccioli biondi intrecciati col sedano, chiodi di garofano galleggiano davanti ai suoi occhi spalancati. Ha l’espressione seria, un po’ stupita, come la mia del resto.

“Adele tesoro, adesso siamo liberi davvero. Ma dovevamo far tutta questa fatica? Non bastava farli fuori e dar la colpa ai tedeschi in fuga?”
“Lucio, tu non capisci. A me non mi tradisce nessuno e men che meno questo deficiente. Figurati, era capace di portarsi via le monete d’oro di sua mamma per rifarsi una vita con quella baldracca.”

Ci mettono in una grande scatola e sento che ci muoviamo. Melina non sembra esserci o forse non possiamo comunicare o forse solo la mia anima è rimasta incastrata in questa testa e mi toccherà rimanerci per sempre.
“Stefano”
“Melina, mia cara”
“Stefano cos’è successo? Ci sono e non ci sono, sono dentro e fuori. È un incubo: la mia testa nella gelatina con tutte le verdure!”
“Ci hanno tagliato la testa, mia cara, e messa davvero in gelatina. Non chiedermi perché. Deve essere stata un’idea di quella mente malata di Adele. Però ci ha decapitato Lucio con la mannaia.”
“Te l’avevo detto che sospettava. Ma tu niente, continuavi a venire da me. E adesso guarda come siamo ridotti? Ti pare che mia sorella debba seppellire una testa in gelatina?”
“Non credo si arriverà a tanto.”

Lo scatolone si ferma. Siamo in un luogo scuro, mi pare una caverna, appoggiati a una specie di mensola sulla roccia.
“Lucio, ce l’hai la bomba a mano fregata ai tedeschi? Dammela!”
Lucio mansueto gliela passa.
“Dai, Lucio, forza, sistemali bene, che guardino verso l’uscita.”
Esco per osservare meglio. Lucio ci gira e si volta verso Adele.
“Adele, cosa fai?” Lei impugna una pistola e gli spara in un ginocchio.
“Così non scappi Lucio e faccio meno fatica a centrarti la testa, pensavi mica che mi dividevo le monete e la vita con te?”
Un altro colpo e di Lucio non c’è più traccia, nemmeno gli ha lasciato il tempo di rispondere.
“Ecco qua,” piazza la mannaia del Lucio in mezzo ai due vetri, “così sarete separati per sempre.”
E mentre se ne va si lancia la granata alle spalle, facendo crollare con un boato il soffitto del passaggio.
Aspettiamo di sentire la voce di Lucio, ma di lui non c’è traccia.
Così prima timidamente e poi con sempre più coraggio osiamo allontanarci di più dalle nostre teste nella speranza di trovare altri vivi non vivi come noi.
È l’estate del 1945
Scopriamo che le nostre teste si trovano in un cunicolo secondario di una grotta sul Monte Baldo. Adele e Lucio non ci avevano portato lontano da casa.
Sono anni meravigliosi. Per un certo periodo seguiamo Adele, che si da delle gran arie da vedova inconsolabile. Cerchiamo di agire come i fantasmi dei romanzi spostando oggetti e spaventando persone, e ci piacerebbe fare qualche dispetto ad Adele; ma non abbiamo capito come fare.
Così ci svaghiamo, soprattutto dopo la fine della guerra.
Frotte di turisti ci divertono con le loro abitudini strane, il topless mi fa impazzire. Il lago d’inverno regala momenti romantici. Ci spingiamo fino a Verona per vedere l’opera, anche Brescia e Trento e tutti i paesini in mezzo non hanno più segreti per noi.
Non andiamo troppo lontano, perché ci coglie un non so che se siamo troppo separati dalle nostre teste.
Spesso ci infiliamo in qualche salotto a guardare la televisione: che spettacolo! Solo la musica, quella davvero è inascoltabile.
Nel 1976 un terremoto riapre il cunicolo e un filo di luce rischiara le nostre teste in gelatina e quel poco che avanza del Lucio. Si è tutto rinsecchito con la pelle attaccata alle ossa, già era brutto in vita e così certo non ci guadagna. Ma che importa, siamo felici lo stesso.

Siamo la notizia del 2013: un gruppo di speleologi ci ha trovato.
Polizia, carabinieri, medici legali e infine la sorella di Melina.
Ci portano fuori dalla caverna. Siamo molto preoccupati.
È tutto un dentro fuori dalle nostre teste, non riusciamo a capire bene cosa ci vogliano fare.
Noi stiamo bene così come siamo. I vivi ci fanno compagnia, non abbiamo né fame, né sete, non patiamo il caldo o il freddo, e ci amiamo.
Secondo il medico legale il Lucio ci ha decapitato, poi mentre nascondeva le nostre teste e l’arma del delitto, è crollata l’uscita. Lo dice a Patrizia, la sorella di Melina. Però, dice anche, che non si capisce bene il movente, che in ogni caso si deve fare un’autopsia dei resti, perché comunque è un caso davvero particolare quello di trovare un corpo mummificato e due teste in gelatina così ben conservate.
Patrizia sapeva della nostra storia d’amore e non aveva mai creduto alla storia del rastrellamento per giustificare la scomparsa di Melina, nemmeno quando avevano trovato il cadavere senza testa. Racconta a un ispettore che la vera colpevole era Adele che da vedova si era data alla bella vita, ma di cui tutti sapevano che aveva una relazione col Lucio, e pure da parecchi anni. Ma Adele è morta ormai: se l’è portata via un tumore fulminante.
Rimanevamo solo noi col nostro amore incorporeo fino al giorno dell’autopsia.
Ci mettono su due tavoli di metallo vicini, osserviamo come aprono i due vasi con cautela.
“Stefano, mi sento mancare. Ho paura.”
“Tranquilla, tesoro, ci guardano e ci rimettono dentro” ma sono molto preoccupato.
Per prima estraggono la testa di Melina. Sono affascinato di come la gelatina scivoli via piano dal cranio portandosi via pezzi di carne come se fosse cotta. Sembra che Melina si stia sciogliendo.
“Hai visto che roba, Melina. Non ti fa impressione?”
“Stefano, mi sento male.”
“Scusa Melina, perché bisbigli, mica ci sentono questi. Che hai detto?”
“Addio Stefano, ti amerò per sempre!”
La sua voce è sempre più fievole e non capisco perché. La sento lontana, tanto lontana. Non sono più abituato a stare senza di lei.
Cerco di chiamarla, ma anche la mia voce è flebile.
Hanno tirato fuori anche la mia testa. Finalmente non ho più quella malefica carota davanti alla bocca, ma mi sento svanire, diventare sempre più inconsistente mentre anche la mia carne scivola giù dal cranio.
Ho capito: è così che si muore per davvero.
“Melina, ti amo anch’io.”
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