La lettera

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Con le braccia conserte l’ispettore continua a fissare la lettera aperta sulla sua scrivania. Segue con lo sguardo la calligrafia ordinata, appoggiata alle linee del foglio a quadretti. Studia il pezzettino di scotch che trattiene un capello. Osserva la busta, con l’indirizzo giusto e l’affrancatura corretta e ancora non si capacita della confessione del ragazzino.
Alza gli occhi. Gli armadi antiquati pieni di fascicoli pare vogliano piombargli addosso. Si concentra sulla finestra. Attraverso le sbarre di ferro intravvede un pezzetto di cielo grigio e si ricorda di avere l’ombrello nel cassetto.
Ettore Perlimbeni è un quattordicenne, e come tale dovrebbe combinare le sue marachelle e cercare di sfuggire alla giusta punizione. Adesso all'ispettore toccherà chiamare il giudice dei minori e informarlo dell’accaduto. Gli toccherà uscire dall’ufficio e guardare in faccia i colleghi. Prevede che gli toccheranno una serie di sgradevolezze, e gli sembra già di sentire i sussurri alle sue spalle.
Un cerchio stringe la sua testa, e fosse solo quello a pesargli.

I fatti erano semplici.
Nella notte tra il 13 e il 14 settembre la statua di Cristoforo Colombo nel parco Colombo era stata danneggiata. Qualcuno, più di uno, adesso lo sapeva, aveva scritto sul piedistallo “stronzo e bastardo” con vernice rossa. Con la stessa bomboletta era stata verniciata gran parte della statua. Inoltre, sempre ai piedi del navigatore era stato defecato e urinato. Tutto intorno bottiglie di birra rotte e mozziconi di sigarette.
Meno male che Ettore nella sua confessione aveva fatto i nomi dei complici. Tutti ragazzi, per l’esattezza quattro, fra i sedici e i diciotto anni. Lui era il più giovane.
Se solo la segreteria non avesse protocollato questa lettera, lui avrebbe potuto fare finta di niente, la compagnia se la sarebbe cavata con una tirata di orecchie e i genitori avrebbero pagato le spese.
E invece no.
Adesso doveva affrontare un colosso di carta per sistemare questa faccenda.
Gli avesse almeno scritto una mail, un whatsapp, fosse venuto a dirglielo di persona, avrebbe potuto fare qualcosa, evitare tutto, non affrontare l’evidenza.
Troppo CSI per questi ragazzini.
Rilegge la lettera.

“Caro ispettore Rendini,
le scrivo per dirle che sono stato io a fare la pipì su Cristoforo Colombo, la cacca no. Non ho nemmeno scritto stronzo e bastardo, però ho dato una mano a verniciare di rosso le gambe.
Non ho bevuto la birra, ma ho fumato una sigaretta, per cui un DNA è sicuramente il mio. Gli altri erano Antonio Trostelli, Giulio Fernigo, Claudio Sterbolini e Paolo Mantieri, però non gli dica che ho fatto la spia altrimenti mi fanno nero. In fondo alla pagina le incollo un mio capello, così è sicuro che non sono un mitomane.
Volevo anche chiederle scusa, perché abbiamo fatto davvero un gran casino e abbiamo spaventato sua moglie, che è scappata via coprendosi il volto. Volevo raggiungerla e dirle che non siamo cattivi, ma poi ho visto che c’era lei che la consolava.
Ispettore, come ha fatto a non riconoscermi? Le ho tagliato l’erba per tutta l’estate!
Distinti saluti
Ettore”

Certo che si ricorda perfettamente Ettore che una volta a settimana passava col tosaerba sui venti metri quadrati di prato che aveva davanti a casa sua. Certo che l’avrebbe riconosciuto.
Certo che la sera del 13 settembre sua moglie era uscita per festeggiare il compleanno di sua cugina. Una festa fra donne, gli aveva detto, alla Tavernetta, un agriturismo a venti chilometri dalla città. Lui era pure stato contento di evitare tutta quella compagnia, con le battute che non lo facevano ridere, le domande insistenti sui casi aperti, le richieste di storie orride di omicidi.
Certo che non avrebbe potuto riconoscerlo: non era lui l’uomo che consolava sua moglie in un parco in cui lei non avrebbe dovuto esserci.
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