Il baobab

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Voleva credere che fosse quel baobab fuori dalla finestra a impedirle di parlare. Le foglie a ventaglietto che si muovevano nel vento come tante manine a salutarla. Quante ne aveva usate come segnalibro, di foglie non di manine. Perché quelle non le aveva mai schiacciate nei libri, e questo il suo terapeuta lo sapeva.
Lei aveva schiacciato tutta una persona e non in un libro.
Per altro lui continuava a fissarla in silenzio, e lei avvolta dalla poltroncina continuava a fissare la finestra.
Appena arrivata aveva dichiarato senza esitazione
“Dottore, ho subito un trauma. Non riesco a parlarne e mi mangia da dentro. Non mi riconosco più.”
Dopo di che non era mai più riuscita ad andare oltre ai convenevoli. Stava seduta lì e si lasciava fissare pazientemente.
Quante ore avevano già passato così, in silenzio, seduti uno di fronte all’altro. Lui che la rassicurava che il silenzio non era un problema, anzi era un’altra forma di comunicazione.
Prima che appiattisse quella donna, leggeva parecchio, e adorava leggere nei parchi dove poteva alzare gli occhi e vedere altre persone, sentire il rumore del chiacchiericcio e il profumo degli alberi. La sua panchina preferita era proprio sotto al baobab del parco. Quando era ora di tornare a casa, si prendeva una foglia dall’albero, la infilava fra le pagine e a casa la metteva nella sua scatola dei ricordi scrivendoci la data a china. Aveva deciso di tingerle tutte d’oro per decorare l’albero di natale di momenti belli.
Ecco questo lo avrebbe potuto raccontare al terapeuta, magari poteva venire fuori un bel quadretto da ossessivo-compulsiva.
L’analista continuava a fissarla, rilassato seguiva il movimento dei suoi occhi, percorreva con lo sguardo tutto il suo corpo e tornava ai suoi occhi.
“Io, dottore, non riesco proprio a parlarne.”
Era la prima frase che diceva da quando era arrivata.
“Non si preoccupi, signora, si prenda tutto il tempo necessario.”
I riflessi di sole sulle foglie la distraevano e allo stesso tempo le ricordavano i giochi di luce nei capelli della donna mentre sgaiattolava fuori dalla sua casa, si, proprio la sua casa dove sulla soglia c’era il marito sorridente e arrossato in viso che la salutava con la mano.
Seduta al sicuro in quella poltrona sotto gli occhi vigili dell’analista poteva ricordare quel terribile pomeriggio tutto d’un fiato.
L’aveva seguita senza nemmeno lasciare la spesa a casa. Si era fermata davanti a una casa più bella della sua, circondata da meravigliose piante, cespugli ben curati e alberi alti, proprio come piacevano a lei. C’era pure una veranda con il dondolo di fianco a un garage, e proprio sul portone del garage l’aveva schiacciata più e più volte, facendo avanti e indietro con la macchina, senza fermarsi nemmeno una volta, senza pietà, le nocche sbiancate sul pomello del cambio.
Non ci aveva più visto dalla gelosia, dall’invidia, dalla rabbia e poi dalla disperazione per quello che aveva fatto.

Non le era venuto in mente niente di meglio che lasciarla lì, andare all’autolavaggio e poi tamponare a tutta velocità un camion.
Suo marito era venuto a prenderla al pronto soccorso, non si era fatta niente, ma era in evidente stato di shock. Era la paura.
Il marito la consolava, le diceva di non preoccuparsi per la macchina, capita alle volte di perdere il controllo. In fondo era andata bene, nessuno si era fatto male. E poi lui aveva una sorpresa.
“Sai, amore, ho trovato la casa dei tuoi sogni. Quella col giardino e gli alberi e la veranda con un fantastico dondolo. Proprio oggi è venuta l’agente immobiliare. Se tu non avessi fatto l’incidente, avremmo già potuto visitarla. Dai, tesoro, non piangere, è una signorina gentilissima, adesso la chiamo e sposto la visita.”

Sono passati tre mesi, l’omicidio della giovane e bella agente immobiliare non è stato risolto.
Sono tre mesi che tace in questo studio incapace di confessare il proprio errore.
Sono tre mesi.

“Signora, il suo tempo è scaduto”
“Grazie, dottore. Ci vediamo la settimana prossima”
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