[Lab 3] Il rammendo
Posted: Fri Jul 15, 2022 10:51 am
Paris ha il fiato corto per la salita. Si toglie il cappello e passa una mano tra i capelli prima di decidersi a bussare. La donna socchiude la porta.
«Buongiorno, mi chiamo Paris Mondani. Mi manda Berto Alunni. Per la camera.»
La padrona di casa esce sulla soglia. Il foulard di lana a piccoli fiori stampati annodato sotto la gola non lascia intuire il colore dei capelli, difficile stabilirne l’età. La donna si pulisce le mani sul grembiule da cucina. Lo squadra con una rapida occhiata: «Mi aspetti qui» risponde. Torna dopo poco con uno straccio e glielo porge. «Prima di entrare le pulisca» dice soffermandosi sulle sue scarpe infangate.
Adelina, così si chiama la locataria, lo fa accomodare in cucina dove la stufa a legna emana un tepore buono. Nell’aria, misto a un sentore di affumicato, aleggia un invitante profumo di sugo di pomodoro. Sulla mensola sopra la madia, Paris nota la cornice con la foto di un uomo giovane illuminata da una candela.
«Lavora giù al cantiere?» gli chiede la donna.
«Sì, mi serve la camera per qualche settimana. Almeno fino a quando non ultimeremo il tratto di strada che va da Anghiari alla Chiassa.»
«Sono duecento lire a settimana, pagamento anticipato.»
Paris preleva dalla tasca della bisaccia un pacchetto avvolto in un foglio di giornale. Lo apre con misurata lentezza, estrae quattro banconote da cinquanta lire e le depone sul tavolo senza dire una parola.
Adelina le prende e lascia al loro posto una chiave.
La puzza di alcol e di vomito impregna l’aria della vecchia locanda.
Un alone acre di fumo aleggia sopra le teste dei soliti clienti impegnati nella partita a carte. Dai vetri delle finestre, coperti da una patina densa di grasso ed escrementi secolari di mosche, spira un soffio gelido che fa svolazzare le tende lacere, nere come ali di pipistrello. Bestemmie e risate sguaiate fanno da sottofondo sonoro alla ennesima serata da ubriaconi.
La cameriera fa su e giù per la sala a riempire di vino scadente i bicchieri mentre cerca di schivare come può le mani che si allungano verso il culo al suo passaggio.
È già al terzo giro dei tavoli quando lo vede. La scarsa illuminazione del locale e il chiacchiericcio alcolico di sottofondo le impediscono di capire chi sia. Di certo non è un cliente abituale.
Sta seduto da solo, indossa una coppola di tweed, tiene i gomiti puntati sul ripiano, le mani sostengono il mento e la testa a tratti oscilla come se l’uomo seguisse un discorso interiore.
Siede composto, le gambe a squadra sotto il tavolino. I pantaloni, arricciati fino alla metà dei polpacci, sono sorretti da un elastico. Le scarpe sono spazzolate di fresco appena velate da un leggero strato di fanghiglia, inevitabile con le piogge degli ultimi giorni. I calzini sembrano quelli indossati da certi signori di città.
È già più di mezz’ora che sta fisso nella stessa posizione. La ragazza non lo perde di vista un istante, pronta a scattare come una gazzella a un semplice gesto di richiamo.
Torna al bancone e riempie due bicchieri, li posa sul vassoio e si avvicina al cliente.
«Credo che entrambi abbiamo bisogno di un goccetto» gli dice a bassa voce.
L’uomo si alza di scatto, le fa un mezzo inchino e si toglie il cappello. Ha i capelli lucidi e neri come le piume di un corvo e una pettinatura ordinata con la divisa centrale. La ragazza si accorge che ai suoi piedi è caduta una fotografia. È piuttosto malridotta e strappata a metà. Fa per chinarsi, ma una mano la blocca con una stretta vigorosa: «Ci penso io» dice con voce dura. La raccoglie, la rimette dentro la fodera del cappello, lascia qualche spicciolo sul tavolo ed esce senza voltarsi indietro, seguito dalle risate sguaiate degli uomini seduti al tavolo a fianco.
«E dai, Gina lascialo perdere. Con quello muori di fame!»
«È la prima volta che lo vedo. Lo conoscete?» risponde la cameriera riempiendo i bicchieri fino all’orlo.»
«È Paris, uno nuovo, lascialo perdere, non è per te» le risponde Berto, il più anziano del gruppo.
Le giornate trascorrono tutte uguali. Paris parte per il lavoro quando è ancora buio e la sera, quando rientra a casa, Adelina gli lascia sul tavolo una scodella di minestra e qualche patata bollita. La conversazione tra loro si limita al minimo richiesto dalla buona educazione.
Finito di cenare entrambi si ritirano nelle loro solitudini.
Paris si chiude nella stanza, estrae dal cassetto del comodino una vecchia foto, la mette sul cuscino e resta per ore a fissare il soffitto prima di riuscire ad addormentarsi.
Nel silenzio può sentire il bisbiglio di Adelina mentre recita il rosario.
Gli operai, giù al cantiere, lo chiamano “il mutolo”. Lavora tutto il giorno a capo basso e una ruga persistente gli solca la fronte. Né l’offerta un bicchiere di vino né una battuta sembra poterlo distrarre dai pensieri.
Ogni volta che nel gruppo si parla di donne, Paris trova la scusa per allontanarsi. Una volta Berto, il caposquadra lo aveva stuzzicato sull’argomento, Paris lo aveva preso per il colletto della giacca e strattonato davanti a tutti.
Un pomeriggio che piove a dirotto il caposquadra valuta che lavorare sulla strada in quelle condizioni sia troppo pericoloso. Gli operai approfittano di quella pausa insperata per una partita a carte alla locanda, ma Paris preferisce tornare a casa.
Il silenzio è rotto dal ticchettio di un orologio a pendolo. Adelina, i lunghi capelli neri raccolti in una treccia, siede sotto la finestra a cucire. Sembra quasi una bambina. Ago e filo danzano agili tra le sue dita; la donna trapunta il tessuto con gesti aggraziati ed esperti.
Paris si sofferma a guardarla finché lei si accorge di essere osservata: «C’era un bel buco da rammendare» gli dice.
Tra le mani stringe uno dei suoi calzini. Si sente avvampare. «Non doveva» le risponde con un filo di voce.
Adelina scuote la testa: «Non è un gran lavoro; una volta ero più brava.»
Lo sguardo di Paris scivola sulla candela accesa sotto la foto del giovane uomo.
Adelina deterge una lacrima col dorso della mano. «Giuseppe morì in un pomeriggio di pioggia come questo» dice senza distogliere lo sguardo dal lavoro.
Paris prende un lungo respiro poi, fruga nella tasca della giacca e depone una manciata di castagne sul tavolo: «Le ho raccolte per strada, stamani.»
Adelina si alza e le asciuga con un panno pulito.
«Può metterle a cuocere sul piano della stufa» gli dice.
Lui annuisce ed, estratto il coltello dal taschino, pratica delle piccole incisioni a forma di croce sui gusci. In breve, il profumo di un ricordo satura la stanza. È il gusto ritrovato di una sera in famiglia.
Il lavoro al cantiere prosegue per qualche settimana, ma, alla fine, arriva il tempo lasciare la casa di Adelina.
«Dai, Paris, sbrigati!» gli gridano i suoi compagni che lo aspettano in strada.
«Arrivo subito, aspettatemi!»
Paris chiude la bisaccia, prende dal cassetto del comodino la mezza foto che portava sempre con sé e la finisce di strappare.
Adelina, coi capelli sciolti sulle spalle, continua a guardarlo dalla finestra di camera fin quando lo vede sparire dietro la curva.
«Buongiorno, mi chiamo Paris Mondani. Mi manda Berto Alunni. Per la camera.»
La padrona di casa esce sulla soglia. Il foulard di lana a piccoli fiori stampati annodato sotto la gola non lascia intuire il colore dei capelli, difficile stabilirne l’età. La donna si pulisce le mani sul grembiule da cucina. Lo squadra con una rapida occhiata: «Mi aspetti qui» risponde. Torna dopo poco con uno straccio e glielo porge. «Prima di entrare le pulisca» dice soffermandosi sulle sue scarpe infangate.
Adelina, così si chiama la locataria, lo fa accomodare in cucina dove la stufa a legna emana un tepore buono. Nell’aria, misto a un sentore di affumicato, aleggia un invitante profumo di sugo di pomodoro. Sulla mensola sopra la madia, Paris nota la cornice con la foto di un uomo giovane illuminata da una candela.
«Lavora giù al cantiere?» gli chiede la donna.
«Sì, mi serve la camera per qualche settimana. Almeno fino a quando non ultimeremo il tratto di strada che va da Anghiari alla Chiassa.»
«Sono duecento lire a settimana, pagamento anticipato.»
Paris preleva dalla tasca della bisaccia un pacchetto avvolto in un foglio di giornale. Lo apre con misurata lentezza, estrae quattro banconote da cinquanta lire e le depone sul tavolo senza dire una parola.
Adelina le prende e lascia al loro posto una chiave.
La puzza di alcol e di vomito impregna l’aria della vecchia locanda.
Un alone acre di fumo aleggia sopra le teste dei soliti clienti impegnati nella partita a carte. Dai vetri delle finestre, coperti da una patina densa di grasso ed escrementi secolari di mosche, spira un soffio gelido che fa svolazzare le tende lacere, nere come ali di pipistrello. Bestemmie e risate sguaiate fanno da sottofondo sonoro alla ennesima serata da ubriaconi.
La cameriera fa su e giù per la sala a riempire di vino scadente i bicchieri mentre cerca di schivare come può le mani che si allungano verso il culo al suo passaggio.
È già al terzo giro dei tavoli quando lo vede. La scarsa illuminazione del locale e il chiacchiericcio alcolico di sottofondo le impediscono di capire chi sia. Di certo non è un cliente abituale.
Sta seduto da solo, indossa una coppola di tweed, tiene i gomiti puntati sul ripiano, le mani sostengono il mento e la testa a tratti oscilla come se l’uomo seguisse un discorso interiore.
Siede composto, le gambe a squadra sotto il tavolino. I pantaloni, arricciati fino alla metà dei polpacci, sono sorretti da un elastico. Le scarpe sono spazzolate di fresco appena velate da un leggero strato di fanghiglia, inevitabile con le piogge degli ultimi giorni. I calzini sembrano quelli indossati da certi signori di città.
È già più di mezz’ora che sta fisso nella stessa posizione. La ragazza non lo perde di vista un istante, pronta a scattare come una gazzella a un semplice gesto di richiamo.
Torna al bancone e riempie due bicchieri, li posa sul vassoio e si avvicina al cliente.
«Credo che entrambi abbiamo bisogno di un goccetto» gli dice a bassa voce.
L’uomo si alza di scatto, le fa un mezzo inchino e si toglie il cappello. Ha i capelli lucidi e neri come le piume di un corvo e una pettinatura ordinata con la divisa centrale. La ragazza si accorge che ai suoi piedi è caduta una fotografia. È piuttosto malridotta e strappata a metà. Fa per chinarsi, ma una mano la blocca con una stretta vigorosa: «Ci penso io» dice con voce dura. La raccoglie, la rimette dentro la fodera del cappello, lascia qualche spicciolo sul tavolo ed esce senza voltarsi indietro, seguito dalle risate sguaiate degli uomini seduti al tavolo a fianco.
«E dai, Gina lascialo perdere. Con quello muori di fame!»
«È la prima volta che lo vedo. Lo conoscete?» risponde la cameriera riempiendo i bicchieri fino all’orlo.»
«È Paris, uno nuovo, lascialo perdere, non è per te» le risponde Berto, il più anziano del gruppo.
Le giornate trascorrono tutte uguali. Paris parte per il lavoro quando è ancora buio e la sera, quando rientra a casa, Adelina gli lascia sul tavolo una scodella di minestra e qualche patata bollita. La conversazione tra loro si limita al minimo richiesto dalla buona educazione.
Finito di cenare entrambi si ritirano nelle loro solitudini.
Paris si chiude nella stanza, estrae dal cassetto del comodino una vecchia foto, la mette sul cuscino e resta per ore a fissare il soffitto prima di riuscire ad addormentarsi.
Nel silenzio può sentire il bisbiglio di Adelina mentre recita il rosario.
Gli operai, giù al cantiere, lo chiamano “il mutolo”. Lavora tutto il giorno a capo basso e una ruga persistente gli solca la fronte. Né l’offerta un bicchiere di vino né una battuta sembra poterlo distrarre dai pensieri.
Ogni volta che nel gruppo si parla di donne, Paris trova la scusa per allontanarsi. Una volta Berto, il caposquadra lo aveva stuzzicato sull’argomento, Paris lo aveva preso per il colletto della giacca e strattonato davanti a tutti.
Un pomeriggio che piove a dirotto il caposquadra valuta che lavorare sulla strada in quelle condizioni sia troppo pericoloso. Gli operai approfittano di quella pausa insperata per una partita a carte alla locanda, ma Paris preferisce tornare a casa.
Il silenzio è rotto dal ticchettio di un orologio a pendolo. Adelina, i lunghi capelli neri raccolti in una treccia, siede sotto la finestra a cucire. Sembra quasi una bambina. Ago e filo danzano agili tra le sue dita; la donna trapunta il tessuto con gesti aggraziati ed esperti.
Paris si sofferma a guardarla finché lei si accorge di essere osservata: «C’era un bel buco da rammendare» gli dice.
Tra le mani stringe uno dei suoi calzini. Si sente avvampare. «Non doveva» le risponde con un filo di voce.
Adelina scuote la testa: «Non è un gran lavoro; una volta ero più brava.»
Lo sguardo di Paris scivola sulla candela accesa sotto la foto del giovane uomo.
Adelina deterge una lacrima col dorso della mano. «Giuseppe morì in un pomeriggio di pioggia come questo» dice senza distogliere lo sguardo dal lavoro.
Paris prende un lungo respiro poi, fruga nella tasca della giacca e depone una manciata di castagne sul tavolo: «Le ho raccolte per strada, stamani.»
Adelina si alza e le asciuga con un panno pulito.
«Può metterle a cuocere sul piano della stufa» gli dice.
Lui annuisce ed, estratto il coltello dal taschino, pratica delle piccole incisioni a forma di croce sui gusci. In breve, il profumo di un ricordo satura la stanza. È il gusto ritrovato di una sera in famiglia.
Il lavoro al cantiere prosegue per qualche settimana, ma, alla fine, arriva il tempo lasciare la casa di Adelina.
«Dai, Paris, sbrigati!» gli gridano i suoi compagni che lo aspettano in strada.
«Arrivo subito, aspettatemi!»
Paris chiude la bisaccia, prende dal cassetto del comodino la mezza foto che portava sempre con sé e la finisce di strappare.
Adelina, coi capelli sciolti sulle spalle, continua a guardarlo dalla finestra di camera fin quando lo vede sparire dietro la curva.