[Lab 2 Fuori concorso] Identità riciclate
Posted: Fri Jun 24, 2022 12:01 pm
Sono struccata, quindi credo che non gli aprirò. Paolo, visto dallo spioncino, sembra tutto deformato, agitato. Mi vuole anche stasera, lo so. Ma io, stasera, non vendo.
Di mestiere timbro carte in un ufficio, per hobby, invece, vendo sogni agli sventurati come lui, che hanno inghiottito di tutto nella vita, anche le ultime briciole di un desiderio. Vendo perché vendere è un’arte di cui necessito per scompormi e ricompormi. Anche da bambina era così. Quando facevano mercato, la domenica, mi vestivo da maschio e ingannavo mia madre; le dicevo che sarei andata a messa e invece, una volta fuori casa, sfilavo dallo zaino una gonnella a fiori salvata da un mucchio di vestiti che lei aveva bollato come “stracci”, la indossavo sopra i calzoni, e questi poi li arrotolavo sopra il ginocchio affinché non sporgessero al di sotto della bambina che volevo essere.
Già mi riciclavo, ma ancora non lo sapevo. Ricordo che, vestita della mia meravigliosa “gonna straccio”, mi insinuavo tra i banchi chiassosi della fiera, che mi sembrava di essere io stessa una di quelle cianfrusaglie inutili e tuttavia vendibili alle casalinghe. Ma la bancarella che più di tutte mi piaceva era quella delle caramelle, che si trovava all’angolo tra via Schiusa e via Brega.
Avrei voluto venderle io, quelle caramelle: morbide, colorate, e profumate d’un odore frivolo che oggi, a ricordarmene, l’euforia esplode senza preavviso.
Io vendo. Tutto quello che non ho potuto comprarmi da ragazza. Un rossetto rosso fragola, un ombretto color arancio pallido, un profumo sfacciato che facesse accapponare la pelle a quanti avrei voluto si fossero allungati per annusarmi. Mi volevano, questo sì. Glielo leggevo negli sguardi traboccanti perversione mentre conducevano sottobraccio mogli grasse, mogli donne. Essere donna è stata una pulsione nata lenta ma inesorabile, come solletico, e infatti a sei anni già l’anima mi tremava di risate: sguaiate, disperate.
Essere donna non è questione di gonne a fiori, tacchi a spillo, o borsette a tracolla, l’ho compreso col tempo; esserlo è sentire che la pelle in cui sei nato non ti appartiene, ti brucia, ti uccide se non te la strappi di dosso. Io non potevo, e allora bruciavo; sarei morta carbonizzata prima o dopo, ma alla fine non morivo mai, il che era peggio, perché ardere per un tempo indefinito ti fa uscire di senno. Sentirsi indefinita fa impazzire. Quei pantaloni mi facevano impazzire, e le camicie buone della domenica a pranzo dai partenti mi facevano impazzire, e mio padre mi faceva impazzire, i suoi discorsi rassicuranti su quanto mi piacesse il calcio, o i culi delle ragazze, o le macchinine della polizia. Volermi definire maschio mi faceva impazzire.
Io vendo. Un chilo di carne bruciata quanto potrà valere? A sedici anni invece ho comprato una piastra per capelli al costo di trentamila lire. La tenevo nascosta sotto il letto e la notte la usavo per addomesticare le mie ciocche ruvide. Lisciavo la mascolinità, che così mi pareva potesse assumere sembianze più gentili. Ecco, essere donna non è questione di gentilezza o ruvidezza, solo che da ragazza non lo capivo. Oggi le donne ruvide mi paiono tali quanto le gentili.
Sentirsi donna, per me, è stato come un solletico che da adolescente è mutato nell’urgenza di piangere. Ma io non potevo, perché i maschi non piangono mai. E allora le lacrime le facevo sgorgare dal cuore, ché tanto era nascosto.
Stasera è meglio che Paolo desista, che se ne torni a casa sua e mi lasci stare così come sto: struccata, spettinata, ancora maschio per un po’. Voglio coccolarlo, il mio maschio riuscito male.
A ventitré anni ho baciato Maria. Aveva un bel sapore, un sapore di donna gentile alla quale avrei voluto assomigliare. Per il mondo degli altri eravamo fidanzati; per il nostro, invece, due amiche complici. Maria è stata la donna della mia vita, lei me l’ha salvata la vita, perché sentirsi donne è anche salvare esseri spauriti come me. Per salvarmi mi ha sposato e siamo andati a vivere a Milano, ché lì sarebbe stato tutto meno etichettabile, mi ripeteva. E infatti lo è stato. La prima cosa che abbiamo fatto a Milano è stata cercare un parrucchiere che mi lisciasse chimicamente i capelli. Abbiamo riso tanto, ci siamo amate con quello che avevamo: la libertà. Una libertà che si è allungata fino al giorno del parto, quando è arrivato Luca, l’amore vero. Ci si può regalare la maternità anche al rovescio, che io mi sentivo madre senza aver sofferto un travaglio lungo dieci ore. Maria era stremata, e io l’amavo come s’ama una Madonna che genera la vita, con devozione.
Luca ha sette anni adesso, e gli ho spiegato che, da domani, quando mi abbraccerà, sul petto sentirà un seno di gomma, non tanto morbido come quello di sua madre, ma pieno d’amore almeno quanto il chirurgo ce ne vorrà infilare. A Luca ho anche detto che l’amore che io e sua madre nutriamo per lui è gentile e ruvido insieme, e carico di una potenza inesauribile perché sgorga da due individui che sanno come riciclarsi. Domani non muoio, domani rinasco.
Ecco, finalmente Paolo ha desistito. Dopo l’amore, sono certa, avrebbe voluto tranquillizzarmi, dirmi che l’intervento sarebbe andato bene ma io, stasera, non voglio vendergli niente, me ne voglio restare con questo maschio ammaccato ancora per un po’, prima di riciclarlo. Paolo, nella mia vita, è arrivato quando il corpo nel quale continuo a respirare si nutriva di ormoni. Lui dice di amarmi, ma io non gli credo. Lui ama l’ibrido che vede, ma non la donna che sto per abbracciare. A Paolo ho deciso di vendere un po’ d’amore consolatorio; uno di quegli amori tiepidi con cui sperano di quietarsi gli uomini confusi come lui. Uno di quegli amori di cui io stessa mi sono servita per capirmi fino alle ossa. Paolo è buono, questo glielo riconosco, ma da stasera io non vendo, io voglio soltanto restarmene con questo straccio di maschio che ho maltrattato da quando sono in vita. Che pure, domani, quando riaprirò gli occhi e mi ritroverò, spero non mi odi, spero che un pezzetto rimanga, spero di sentirlo scorrere nelle vene della splendida, e ruvida, e gentile donna che sarò.
Ecco, dirò anche questo a Luca: di non avere paura né vergogna delle identità riciclate, e di accogliere, sempre, tutte le pulsioni che vorremo essere.
È meglio se dormo, ora, ché domani non voglio trascinarmi la stanchezza di una vita.