La videochiamata (Una storia vera)
Inviato: mer gen 06, 2021 5:40 pm
Era metà settembre e da qualche giorno ero rientrata a Fuerteventura.
Con Roberta avevamo concordato di sentirci in videochiamata al mio rientro, perché aveva delle novità importanti. Il lunedì mattina mi ero collegata su Skype, desiderosa di capire.
Lei si collegò dal salotto di casa sua a Malaga. C'era una bella luce che entrava dalla portafinestra che dava sul terrazzo ed era seduta sul tappeto, appoggiata con le spalle al divano. Indossava una vestaglia di seta bianca, e con la luce del giorno la sua pelle chiara sembrava ancora più luminosa.
“Che bello vederti, finalmente! Come stai bene!” esclamò contenta. Aveva i capelli più lunghi dall'ultima volta e glielo feci notare. Annuì e si scostò due ciocche dietro le orecchie, abbassando lo sguardo. Come a volersi giustificare, disse che doveva tagliarli.
“Stai benissimo”.
Abbozzò un sorriso che lasciava trasparire il filo di timidezza che si portava sempre dietro e si rivelava di tanto in tanto.
Mi chiese subito del mio viaggio e io tirai fuori a casaccio qualche frase che racchiudesse il fulcro di quell'esperienza. Cercai di riassumere in poche parole un'esperienza di due mesi e mezzo, in cui con il bambino in spalla avevamo girato mezza Italia, di fattoria in fattoria, lavorando in cambio di ospitalità.
Non era da me, ma non era di me che volevo parlare.
Feci una pausa alludendo che le lasciavo la parola e lei la colse. Si sistemò il cuscino dietro le spalle, che notai solo in quel momento. Spinse in avanti il computer e cercò i miei occhi nello schermo. La fissai a mia volta. Sembrò come se mi prendesse per mano e si sedesse accanto a me.
Roberta era andata in ospedale una mattina, in preda a dei dolori fortissimi alla schiena, all'addome e all'inguine. Erano talmente intensi che non si muoveva più. Era il 20 agosto 2020.
Da anni soffriva di una forte scogliosi, ma il dolore non era mai stato così paralizzante come in quei giorni. In ospedale le avevano dato un forte anestetico e i dolori si attenuarono. Mentre facevano degli accertamenti di routine, restò sdraiata su un lettino provvisorio in Pronto Soccorso. In cuor suo nutriva la speranza di tornare a casa in giornata. Intanto, con dei messaggi su Whatsapp, ci confrontavamo sull'allattamento. Le avevo confessato che ero un po' stanca e con il viaggio che scombussolava la routine, stavo pensando di staccare Aymar dal seno.
ROBERTA: COME TI CAPISCO GRAZIANA! MIGUEL FA UGUALE! SONO IN CRISI ANCHE IO. PERÒ VORREI ASPETTARE ANCORA..NON SONO PRONTA AD AFRONTARE QUESTO LAVORO!
Nel messaggio successivo mi informava che l'avevano ricoverata perché i risultati delle analisi davano dei valori sballati. Il giorno dopo avrebbero eseguito una TAC. Poteva trattarsi di un tumore. Nel frattempo aveva scoperto che i medicinali che le avevano dato erano incompatibili con l'allattamento. Fine. Senza appello. Senza nessun passaggio graduale e rispettoso che aveva sempre immaginato. Era stato un colpo al cuore, mi aveva scritto. Nient'altro. Il carico emotivo delle sue parole aveva cancellato all'improvviso la leggerezza del nostro discorrere, aprendo uno squarcio inaspettato sulla maternità e sulla vita stessa. Sentivo il tumulto che mi cresceva dentro, a voler fuggire quel confronto non richiesto con la malattia e la morte.
Roberta, sdraiata sul lettino del Pronto Soccorso, sola nella stanza bianca e asettica, aveva aspettato molte ore prima di essere accompagnata in reparto. Il pianto, il tremore e il freddo le avevano fatto compagnia per tutto il tempo. Quelle ore erano parse come un'allucinazione, il tempo si era d'improvviso dilatato e i suoi pensieri erano tanto nuovi e tangibili da apparire surreali. A ritroso aveva ripercorso cammini e passaggi variegati, la giovinezza, i turbamenti.
Aveva pensato al suo bambino ininterrottamente, alla possibilità di non vederlo crescere.
Si era confrontata con la vita che a grande velocità sembrava entrare in un tunnel cieco, e con la morte, la possibilità di morire. E tutto era così grande da farle girare la testa. Era stato come morire davvero. Morire e rinascere, morire e tornare, morire per capire la morte. Fredda come il ghiaccio, tremava e piangeva sotto il lenzuolo bianco del suo lettino, senza riuscire a scaldarsi.
In ospedale ci rimase tre giorni.
Debilitata e stanca era tornata a casa con in mano un referto di sospetto tumore.
Si era nascosta da Miguel altri tre giorni, chiusa in taverna, per recuperare le forze. Era stata la parte più difficile. Lo sentiva ridere e piangere, ignaro che la sua mamma fosse tanto vicina da potergli correre incontro. Una tortura che diede per sempre il benvenuto alla malattia.
Con Roberta avevamo concordato di sentirci in videochiamata al mio rientro, perché aveva delle novità importanti. Il lunedì mattina mi ero collegata su Skype, desiderosa di capire.
Lei si collegò dal salotto di casa sua a Malaga. C'era una bella luce che entrava dalla portafinestra che dava sul terrazzo ed era seduta sul tappeto, appoggiata con le spalle al divano. Indossava una vestaglia di seta bianca, e con la luce del giorno la sua pelle chiara sembrava ancora più luminosa.
“Che bello vederti, finalmente! Come stai bene!” esclamò contenta. Aveva i capelli più lunghi dall'ultima volta e glielo feci notare. Annuì e si scostò due ciocche dietro le orecchie, abbassando lo sguardo. Come a volersi giustificare, disse che doveva tagliarli.
“Stai benissimo”.
Abbozzò un sorriso che lasciava trasparire il filo di timidezza che si portava sempre dietro e si rivelava di tanto in tanto.
Mi chiese subito del mio viaggio e io tirai fuori a casaccio qualche frase che racchiudesse il fulcro di quell'esperienza. Cercai di riassumere in poche parole un'esperienza di due mesi e mezzo, in cui con il bambino in spalla avevamo girato mezza Italia, di fattoria in fattoria, lavorando in cambio di ospitalità.
Non era da me, ma non era di me che volevo parlare.
Feci una pausa alludendo che le lasciavo la parola e lei la colse. Si sistemò il cuscino dietro le spalle, che notai solo in quel momento. Spinse in avanti il computer e cercò i miei occhi nello schermo. La fissai a mia volta. Sembrò come se mi prendesse per mano e si sedesse accanto a me.
Roberta era andata in ospedale una mattina, in preda a dei dolori fortissimi alla schiena, all'addome e all'inguine. Erano talmente intensi che non si muoveva più. Era il 20 agosto 2020.
Da anni soffriva di una forte scogliosi, ma il dolore non era mai stato così paralizzante come in quei giorni. In ospedale le avevano dato un forte anestetico e i dolori si attenuarono. Mentre facevano degli accertamenti di routine, restò sdraiata su un lettino provvisorio in Pronto Soccorso. In cuor suo nutriva la speranza di tornare a casa in giornata. Intanto, con dei messaggi su Whatsapp, ci confrontavamo sull'allattamento. Le avevo confessato che ero un po' stanca e con il viaggio che scombussolava la routine, stavo pensando di staccare Aymar dal seno.
ROBERTA: COME TI CAPISCO GRAZIANA! MIGUEL FA UGUALE! SONO IN CRISI ANCHE IO. PERÒ VORREI ASPETTARE ANCORA..NON SONO PRONTA AD AFRONTARE QUESTO LAVORO!
Nel messaggio successivo mi informava che l'avevano ricoverata perché i risultati delle analisi davano dei valori sballati. Il giorno dopo avrebbero eseguito una TAC. Poteva trattarsi di un tumore. Nel frattempo aveva scoperto che i medicinali che le avevano dato erano incompatibili con l'allattamento. Fine. Senza appello. Senza nessun passaggio graduale e rispettoso che aveva sempre immaginato. Era stato un colpo al cuore, mi aveva scritto. Nient'altro. Il carico emotivo delle sue parole aveva cancellato all'improvviso la leggerezza del nostro discorrere, aprendo uno squarcio inaspettato sulla maternità e sulla vita stessa. Sentivo il tumulto che mi cresceva dentro, a voler fuggire quel confronto non richiesto con la malattia e la morte.
Roberta, sdraiata sul lettino del Pronto Soccorso, sola nella stanza bianca e asettica, aveva aspettato molte ore prima di essere accompagnata in reparto. Il pianto, il tremore e il freddo le avevano fatto compagnia per tutto il tempo. Quelle ore erano parse come un'allucinazione, il tempo si era d'improvviso dilatato e i suoi pensieri erano tanto nuovi e tangibili da apparire surreali. A ritroso aveva ripercorso cammini e passaggi variegati, la giovinezza, i turbamenti.
Aveva pensato al suo bambino ininterrottamente, alla possibilità di non vederlo crescere.
Si era confrontata con la vita che a grande velocità sembrava entrare in un tunnel cieco, e con la morte, la possibilità di morire. E tutto era così grande da farle girare la testa. Era stato come morire davvero. Morire e rinascere, morire e tornare, morire per capire la morte. Fredda come il ghiaccio, tremava e piangeva sotto il lenzuolo bianco del suo lettino, senza riuscire a scaldarsi.
In ospedale ci rimase tre giorni.
Debilitata e stanca era tornata a casa con in mano un referto di sospetto tumore.
Si era nascosta da Miguel altri tre giorni, chiusa in taverna, per recuperare le forze. Era stata la parte più difficile. Lo sentiva ridere e piangere, ignaro che la sua mamma fosse tanto vicina da potergli correre incontro. Una tortura che diede per sempre il benvenuto alla malattia.