[MI169] Cinque giugno
Posted: Sun Jun 05, 2022 10:56 pm
Traccia di mezzanotte: la sera di festa
Cinque giugno
L’auto sbucò dal fondo di una curva. Sotto le ruote, il brecciolino sull’asfalto sconnesso tintinnò come un borsello pieno di monete. La luce riposante del tramonto dava alla carrozzeria della vecchia auto un tono profondo che si sposava con i colori delle campagne circostanti. Già dai primi di maggio, le coltivazioni rigogliose regalavano uno spettacolo conciliante a chiunque le attraversasse per recarsi in città. Era molto che Saul non vi tornava.
Poco dopo, l’auto s'immise in Canal Road e l’asfalto si fece più liscio. Vecchi casali con tetti sbilenchi e recinzioni di mattoni fecero comparsa ai lati della strada per poi lasciare il posto a un gruppetto di case che Saul sapeva dicessero Benvenuti a Castle Rock, milleduecento anime, la maggior parte esperti in commercio di legname o pesca di fiume, nonché in tracanno di whisky a buon mercato.
Canal Road terminava in un incrocio, dove l’insegna del bazar di Jimmy troneggiava su una saracinesca abbassata. In basso, un manifesto ricordava l’appuntamento annuale con la “Festa del Giorno degli Immoti”, che Saul chiamava “giorno della Medusa”. Festa non gli riusciva proprio di chiamarla.
Saul svoltò a destra e prese la via che conduceva alla piazza centrale del paese. Poco prima di averla percorsa, subito dopo il bar del vecchio Tommy che come ogni altro locale del paese era chiuso sin dal mattino, lo vide.
L’auto accostò e si fermò.
La porta si aprì. Saul uscì nel deserto della città. Nonostante il sole fosse ormai molto basso non c’era nemmeno un filo di vento serale e il caldo di giugno era opprimente. L’aria stessa sembrava stanca e come lui tutt’altro che partecipe del giorno di festa. C'era silenzio. Dovevano essere già tutti alla festa.
Saul s'appoggiò alla macchina e accese una sigaretta, con lo sguardo rivolto all’unica persona presente oltre lui che lo stava salutando.
Bill Dembrow, un uomo robusto dal viso lentigginoso e simpatico, con indosso una camicia a quadroni del tutto sbiadita e un paio di jeans molto rovinati stava immobile, sul ciglio della strada, con un braccio sollevato e il volto lievemente obliquo. Un piede era alzato nell’atto di poggiarlo sul marciapiede. Solo che non lo poggiava mai.
Era lì, in quella posa che poteva essere buffa, pensò Saul, se non fosse che non c’è nulla di divertente in un uomo morto.
Nessuno lo aveva toccato. Era uguale a come lo aveva visto l’ultima volta come essere vivente e la prima come… come… così.
Cinque giugno. Sei anni da allora.
Saul ricordò.
Al bar di Tommy c’erano quattro o cinque affezionati, per lo più taglialegna che già dal primo pomeriggio, quando il sole era ancora alto nel cielo, ordinavano da bere con la continuità con la quale un cane piscia nell’erba alla prima uscita dopo un temporale. Tra di loro Bill Dembrow e Tod Howard, un simpatico ragazzotto di cento chili, alle sette erano passati a fare a gara a chi buttava giù più hamburger col ketchup tra un bicchiere e l’altro, con Jimmy a fare da giudice.
Saul era arrivato insieme a lui da meno di un’ora. Come loro solito, i due fratelli avevano festeggiato la fine della giornata al bazar con qualche birra e un paio di piatti di anelli di cipolla.
Se Jimmy non aveva ancora intenzione di lasciare il locale – d’altronde lui non aveva nessuno ad aspettarlo per cena – il fratello salutò e uscì proprio quando gli ultimi raggi di sole accarezzarono Castle Rock. Entrò in auto, mise in moto e accese la radio. I Firegun suonavano Stone my heart. Solo molto più tardi Saul avrebbe notato quella coincidenza assurda.
Oh baby, your eyes stone my body
Medusa, your eyes stone my heart.
In quel momento anche Bill usciva dal bar. Saul se lo vide passare davanti, nella sua camicia a quadroni sporca di ketchup, col passo di chi aveva esagerato col whiskey. Lo salutò col clacson mentre innescava la prima e vide quello che si voltò per ricambiare il saluto mentre si apprestava a salire sul marciapiede…
In quel momento fu un lampo, una luce accecante che avvolse ogni cosa come se una supernova fosse esplosa davanti ai suoi occhi.
Dopodiché, di Bill era rimasta solo una buffa statua in carne e ossa, immobile nell’ultimo passo di una vita da ubriacone.
Come lui, altri quarantadue abitanti di Castle Rock erano finiti allo stesso modo. Seimila circa nella sola contea di Oxford. Tutti pietrificati in quel cinque di giugno che aveva lasciato più di mezzo miliardo di cadaveri non deperibili disseminati sull’intero pianeta in mezzo a miliardi di persone sconvolte.
Saul gettò la sigaretta, rientrò in auto e ripartì. Dopo poche centinaia di metri sostò dove alcune transenne delimitavano la piazza in cui era appena cominciata la cerimonia.
Nel cielo caldo e scuro che sovrastava la piazza si alzavano piccoli serpenti di fumo originati da centinaia di torce accese, ciascuna sostenuta da una mano. Saul, che assisteva per la prima volta alla festa, rimase impressionato dal colpo d’occhio di quella fiaccolata. Ciò che più gli metteva i brividi, però, era che la stessa scena si stava ripetendo nello stesso momento in ogni città del paese e non solo.
Dal campanile un rintocco scandì le parole dell’officiante che invitava i presenti a partecipare a un canto di ringraziamento. Nella litania che prese il via, Saul udì una voce alle sue spalle:
«Che mi venga un colpo! Saul!»
Sul volto ingrassato di Jimmy era visibile lo stupore nel vedere il fratello. Saul cercò di nascondere la delusione che provava. Jimmy stava invecchiando male.
Si scambiarono qualche parola per un po’ con lieve imbarazzo. A un certo punto però Jimmy passò all’attacco.
«Come si sta in esilio, eh, fratello?»
Saul se lo aspettava. Dopo l’ultima lite aveva lasciato tutto per ritirarsi in campagna, solo come un ladro, e non tornava in città da chissà quanto. Nessuno di loro riusciva a capire.
«Meglio che qui» fu l’unica risposta che riuscì a tirar fuori. Avrebbe voluto aggiungere con voi, ma si trattenne.
Anche così Jimmy si inalberò. «Come vedo non sei cambiato. Dopo tutto questo tempo ancora non hai fede! Sei un miscredente, ecco cosa.»
«Credere…»
Saul si limitò a dire questo. Qualcun altro attirò la sua attenzione.
Emily lo stava fissando. Lasciò Jimmy e le si avvicinò.
«Ciao».
Sul viso della moglie solo qualche ruga in più a testimonianza del tanto tempo passato. Per il resto:
«Non sei cambiata per niente» ed era vero, almeno fuori.
«Sei venuto anche tu per la festa?»
«No. Quelle persone sono morte, Emily. Cosa c'è da festeggiare? Io non lo capisco».
«I morti sono sottoterra, Saul. Loro sono ancora qui. E lo saranno sempre». C’era un senso di pace nella voce che a Saul trasmise un brivido. Forse ne provava invidia? Abbassò la testa. Stringeva i denti per la rabbia. Avrebbe voluto crederci anche lui. Avrebbe voluto festeggiare qualcosa, come tutti gli altri, ma la verità era che non riusciva a capire come facessero loro a non rendersi conto che senza una spiegazione e con tutti quei corpi davanti agli occhi nessuno superava il lutto, e questo li stava rendendo tutti pazzi.
«E allora perché sei qui?»
Senza alzare lo sguardo perché lei non vedesse che iniziava a piangere disse:
«Come sta?»
Le lo guardò per qualche istante, poi gli prese la mano.
«Vieni?»
Saul mormorò un sì. Tremando, la seguì. Si allontanarono in silenzio dalla piazza dove la folla avrebbe seguitato a celebrare, tra canti e preghiere, il cinque giugno. Giunsero a un’abitazione che fino a sei anni prima era stata casa loro e adesso era solo casa di Emily.
Lei gli aprì la porta e lo condusse dentro, sempre in silenzio.
Camminavano a luce spenta, ma Saul ricordava ancora ogni centimetro.
«Liz, mamma è a casa, amore» disse lei. «E guarda un po’ che sorpresa, c’è anche papà! Finalmente è tornato per stare un po’ con te».
Saul avvertì una stretta nel petto.
Seduta su una sedia in cucina, nella penombra e davanti al televisore spento, la sua bambina era davvero ancora lì, come il cinque giugno di sei anni prima l’aveva trovata e lasciata per sempre.
Cinque giugno
L’auto sbucò dal fondo di una curva. Sotto le ruote, il brecciolino sull’asfalto sconnesso tintinnò come un borsello pieno di monete. La luce riposante del tramonto dava alla carrozzeria della vecchia auto un tono profondo che si sposava con i colori delle campagne circostanti. Già dai primi di maggio, le coltivazioni rigogliose regalavano uno spettacolo conciliante a chiunque le attraversasse per recarsi in città. Era molto che Saul non vi tornava.
Poco dopo, l’auto s'immise in Canal Road e l’asfalto si fece più liscio. Vecchi casali con tetti sbilenchi e recinzioni di mattoni fecero comparsa ai lati della strada per poi lasciare il posto a un gruppetto di case che Saul sapeva dicessero Benvenuti a Castle Rock, milleduecento anime, la maggior parte esperti in commercio di legname o pesca di fiume, nonché in tracanno di whisky a buon mercato.
Canal Road terminava in un incrocio, dove l’insegna del bazar di Jimmy troneggiava su una saracinesca abbassata. In basso, un manifesto ricordava l’appuntamento annuale con la “Festa del Giorno degli Immoti”, che Saul chiamava “giorno della Medusa”. Festa non gli riusciva proprio di chiamarla.
Saul svoltò a destra e prese la via che conduceva alla piazza centrale del paese. Poco prima di averla percorsa, subito dopo il bar del vecchio Tommy che come ogni altro locale del paese era chiuso sin dal mattino, lo vide.
L’auto accostò e si fermò.
La porta si aprì. Saul uscì nel deserto della città. Nonostante il sole fosse ormai molto basso non c’era nemmeno un filo di vento serale e il caldo di giugno era opprimente. L’aria stessa sembrava stanca e come lui tutt’altro che partecipe del giorno di festa. C'era silenzio. Dovevano essere già tutti alla festa.
Saul s'appoggiò alla macchina e accese una sigaretta, con lo sguardo rivolto all’unica persona presente oltre lui che lo stava salutando.
Bill Dembrow, un uomo robusto dal viso lentigginoso e simpatico, con indosso una camicia a quadroni del tutto sbiadita e un paio di jeans molto rovinati stava immobile, sul ciglio della strada, con un braccio sollevato e il volto lievemente obliquo. Un piede era alzato nell’atto di poggiarlo sul marciapiede. Solo che non lo poggiava mai.
Era lì, in quella posa che poteva essere buffa, pensò Saul, se non fosse che non c’è nulla di divertente in un uomo morto.
Nessuno lo aveva toccato. Era uguale a come lo aveva visto l’ultima volta come essere vivente e la prima come… come… così.
Cinque giugno. Sei anni da allora.
Saul ricordò.
Al bar di Tommy c’erano quattro o cinque affezionati, per lo più taglialegna che già dal primo pomeriggio, quando il sole era ancora alto nel cielo, ordinavano da bere con la continuità con la quale un cane piscia nell’erba alla prima uscita dopo un temporale. Tra di loro Bill Dembrow e Tod Howard, un simpatico ragazzotto di cento chili, alle sette erano passati a fare a gara a chi buttava giù più hamburger col ketchup tra un bicchiere e l’altro, con Jimmy a fare da giudice.
Saul era arrivato insieme a lui da meno di un’ora. Come loro solito, i due fratelli avevano festeggiato la fine della giornata al bazar con qualche birra e un paio di piatti di anelli di cipolla.
Se Jimmy non aveva ancora intenzione di lasciare il locale – d’altronde lui non aveva nessuno ad aspettarlo per cena – il fratello salutò e uscì proprio quando gli ultimi raggi di sole accarezzarono Castle Rock. Entrò in auto, mise in moto e accese la radio. I Firegun suonavano Stone my heart. Solo molto più tardi Saul avrebbe notato quella coincidenza assurda.
Oh baby, your eyes stone my body
Medusa, your eyes stone my heart.
In quel momento anche Bill usciva dal bar. Saul se lo vide passare davanti, nella sua camicia a quadroni sporca di ketchup, col passo di chi aveva esagerato col whiskey. Lo salutò col clacson mentre innescava la prima e vide quello che si voltò per ricambiare il saluto mentre si apprestava a salire sul marciapiede…
In quel momento fu un lampo, una luce accecante che avvolse ogni cosa come se una supernova fosse esplosa davanti ai suoi occhi.
Dopodiché, di Bill era rimasta solo una buffa statua in carne e ossa, immobile nell’ultimo passo di una vita da ubriacone.
Come lui, altri quarantadue abitanti di Castle Rock erano finiti allo stesso modo. Seimila circa nella sola contea di Oxford. Tutti pietrificati in quel cinque di giugno che aveva lasciato più di mezzo miliardo di cadaveri non deperibili disseminati sull’intero pianeta in mezzo a miliardi di persone sconvolte.
Saul gettò la sigaretta, rientrò in auto e ripartì. Dopo poche centinaia di metri sostò dove alcune transenne delimitavano la piazza in cui era appena cominciata la cerimonia.
Nel cielo caldo e scuro che sovrastava la piazza si alzavano piccoli serpenti di fumo originati da centinaia di torce accese, ciascuna sostenuta da una mano. Saul, che assisteva per la prima volta alla festa, rimase impressionato dal colpo d’occhio di quella fiaccolata. Ciò che più gli metteva i brividi, però, era che la stessa scena si stava ripetendo nello stesso momento in ogni città del paese e non solo.
Dal campanile un rintocco scandì le parole dell’officiante che invitava i presenti a partecipare a un canto di ringraziamento. Nella litania che prese il via, Saul udì una voce alle sue spalle:
«Che mi venga un colpo! Saul!»
Sul volto ingrassato di Jimmy era visibile lo stupore nel vedere il fratello. Saul cercò di nascondere la delusione che provava. Jimmy stava invecchiando male.
Si scambiarono qualche parola per un po’ con lieve imbarazzo. A un certo punto però Jimmy passò all’attacco.
«Come si sta in esilio, eh, fratello?»
Saul se lo aspettava. Dopo l’ultima lite aveva lasciato tutto per ritirarsi in campagna, solo come un ladro, e non tornava in città da chissà quanto. Nessuno di loro riusciva a capire.
«Meglio che qui» fu l’unica risposta che riuscì a tirar fuori. Avrebbe voluto aggiungere con voi, ma si trattenne.
Anche così Jimmy si inalberò. «Come vedo non sei cambiato. Dopo tutto questo tempo ancora non hai fede! Sei un miscredente, ecco cosa.»
«Credere…»
Saul si limitò a dire questo. Qualcun altro attirò la sua attenzione.
Emily lo stava fissando. Lasciò Jimmy e le si avvicinò.
«Ciao».
Sul viso della moglie solo qualche ruga in più a testimonianza del tanto tempo passato. Per il resto:
«Non sei cambiata per niente» ed era vero, almeno fuori.
«Sei venuto anche tu per la festa?»
«No. Quelle persone sono morte, Emily. Cosa c'è da festeggiare? Io non lo capisco».
«I morti sono sottoterra, Saul. Loro sono ancora qui. E lo saranno sempre». C’era un senso di pace nella voce che a Saul trasmise un brivido. Forse ne provava invidia? Abbassò la testa. Stringeva i denti per la rabbia. Avrebbe voluto crederci anche lui. Avrebbe voluto festeggiare qualcosa, come tutti gli altri, ma la verità era che non riusciva a capire come facessero loro a non rendersi conto che senza una spiegazione e con tutti quei corpi davanti agli occhi nessuno superava il lutto, e questo li stava rendendo tutti pazzi.
«E allora perché sei qui?»
Senza alzare lo sguardo perché lei non vedesse che iniziava a piangere disse:
«Come sta?»
Le lo guardò per qualche istante, poi gli prese la mano.
«Vieni?»
Saul mormorò un sì. Tremando, la seguì. Si allontanarono in silenzio dalla piazza dove la folla avrebbe seguitato a celebrare, tra canti e preghiere, il cinque giugno. Giunsero a un’abitazione che fino a sei anni prima era stata casa loro e adesso era solo casa di Emily.
Lei gli aprì la porta e lo condusse dentro, sempre in silenzio.
Camminavano a luce spenta, ma Saul ricordava ancora ogni centimetro.
«Liz, mamma è a casa, amore» disse lei. «E guarda un po’ che sorpresa, c’è anche papà! Finalmente è tornato per stare un po’ con te».
Saul avvertì una stretta nel petto.
Seduta su una sedia in cucina, nella penombra e davanti al televisore spento, la sua bambina era davvero ancora lì, come il cinque giugno di sei anni prima l’aveva trovata e lasciata per sempre.