[LAB 1] Il sole degli ultimi
Posted: Fri May 13, 2022 8:55 pm
Il capitano Erich Weber entrò nella cella. Una stanza semioscura tagliata a metà da una fascia di luce che cadeva obliqua dall’alto di una finestra a bocca di lupo, formando un quadrato luminoso sul pavimento di cemento. All’angolo di un tavolaccio stava seduto un ragazzo con una mano appoggiata sulla fronte, invasa da un ciuffo di capelli biondi. Indossava pantaloni strappati, una camicia sporca; sopra le spalle una coperta militare. Non si mosse sentendo entrare qualcuno. Weber lo guardò in silenzio.
― Devo parlare con te ― disse con tono incolore.
Era la prima volta dopo molti anni che riprendeva a parlare tedesco. Il ragazzo alzò la testa di scatto, il ciuffo gli calò sugli occhi grigi. Weber immaginava che fosse giovane, gli era stato detto che i membri del Werwolf erano giovani, ma questo era poco più di un bambino.
― Quanti anni hai?
Il ragazzo non rispondeva. Il suo sguardo era smarrito. Non voleva darlo a vedere ma aveva paura.
― Sedici… ― rispose con voce rauca.
― Quasi… ― aggiunse abbassando lo sguardo.
Weber doveva procedere a quella sorta di inutile interrogatorio, sapeva che il destino del ragazzo era segnato, ma avrebbero dovuto informarlo che si trattava di un bambino, non era pronto a questo.
― Ho parlato con gli altri prigionieri.
― Perché sai parlare tedesco?
― Perché… i miei genitori erano tedeschi.
― Perché hai la divisa americana allora?
― Perché sono americano.
― Perché sei un traditore! ― urlò il ragazzo indignato.
― Non è così.
― Invece è così! Non voglio parlare con te!
― Invece devi. Non troverai molti americani che ti parleranno in tedesco!
Il ragazzo sbuffò attraverso le labbra screpolate.
― Quanti membri del Werwolf sono in questa zona? Dove sono? Che compiti hanno?
Il ragazzo sbuffò un’altra volta, lo sguardo fisso in un punto della parete. Weber diede uno sguardo a dei fogli dattiloscritti che teneva in una cartella.
― Le spie e i sabotatori vengono fucilati, lo sai? Sì?
― Siete voi che dovete essere fucilati! Io sono nella mia patria! Voi no!
― Tu non sei un soldato! Chi dovevi contattare? Dimmi i nomi, i posti, i compiti!
― Io sono un soldato invece! E non dico niente a un traditore!
Weber si accese una sigaretta. Ne offrì una al ragazzo, che fece cenno di no.
― Come ti chiami? Questo puoi dirmelo.
Il ragazzo si spostò in fondo al tavolaccio, sospettoso.
― Helmut ― disse con un filo di voce.
― Stammi a sentire Helmut. Devi dirmi dove sono i tuoi compagni…
― Non tradirò i miei camerati!
― Abbiamo trovato lungo il fiume due ragazzi più grandi di te. Si sono uccisi con il cianuro.
Helmut si morse le labbra. Due lacrime gli esplosero in faccia. Si pulì rabbiosamente con la mano.
― Li conoscevi?
― Non conosco nessuno.
― Abbiamo catturato altri ragazzi in borghese che non sono di qui. Alcuni sono soldati sbandati, altri no. Tu verrai con me e mi dirai se appartengono al Werwolf. Come te.
― Come fai a sapere che io…
― Me lo hai detto tu. Adesso.
Helmut si lanciò addosso a Weber con una rabbia insospettabile, digrignando i denti e alzando i pugni. Weber lo immobilizzò gettandolo a terra. La porta della cella si aprì, il sergente e un poliziotto irruppero ma il capitano fece cenno di uscire.
― Calmati adesso Helmut! Calmati ti ho detto!
Liberò Helmut dalla morsa delle sue braccia, il ragazzo si divincolò ansimando, accucciandosi verso il muro. Era rosso in faccia, aveva il fiato che sapeva di febbre. Piangeva. Weber stette un po’ in silenzio.
― Come si chiamavano?
― Gustav... Karl... ― rispose a bassa voce come chiamando i suoi amici, asciugandosi le lacrime, scostandosi il ciuffo che gli cadeva sugli occhi in continuazione.
― Va bene Helmut. Perché loro avevano il cianuro e tu no?
Helmut non rispondeva, lo sguardo abbassato, il naso che colava.
― Perché sei troppo giovane, vero? Non è una colpa.
― Volevo morire anche io.
― Ti hanno ordinato di non morire quindi? Perché?
― Per non… dimenticare.
― Cosa?
― Voi.
― Helmut, ascoltami. Gustav e Karl erano sporchi di sangue, ma non erano feriti. Sono stati loro a uccidere il borgomastro?
Il ragazzo non rispondeva.
― Sei uno di loro Helmut. Anche se non hai ucciso. Capisci cosa significa? Lo capisci vero?
Helmut taceva. Weber sospirò. Rimasero entrambi in silenzio.
Il capitano si voltò verso la porta, gli bastava dare una voce e si sarebbe aperta, se ne sarebbe andato, non poteva influire sul destino già segnato di quel bambino. Una goccia d’acqua cadeva a intervalli da una tubatura posta sul soffitto formando una pozza che riverberava dove cadeva la luce del sole. Perdersi in quell’idea di mare...
Weber si voltò verso Helmut.
― Vorrei aiutarti ma non posso. Io non posso. Hai una madre e un padre che ti aspettano?
― Sì.
― Vuoi scrivere loro una lettera? Ti prometto che gliela porterò io stesso.
Il ragazzo si passò la mano in faccia per asciugarsi le lacrime e scostarsi il ciuffo che ricadeva di continuo sugli occhi.
― La porterai tu da mamma e papà? Davvero?
Weber pensava che non avrebbe avuto difficoltà a farlo.
― Sì.
― Perché?
― Perché… Perché siamo tedeschi. No?
Weber si stupì nel dire questo. Ma non poteva dire a Helmut che odiava la guerra, che provava pietà per lui, che non poteva fare niente per salvarlo, che avrebbe preferito non conoscerlo. Parole che non sarebbero state capite. Ma un compatriota che porta ai genitori la lettera del figlio sì.
― Ma sei sempre con gli americani ― disse Helmut.
― Lo so. Sono sempre con gli americani. Fa parte della vita.
― Come ti chiami... capitano?
Weber glielo disse. Poi estrasse un foglio dalla cartella e glielo porse con una matita. Helmut posò il foglio sul tavolaccio e si mise a scrivere, la testa china, il ciuffo sugli occhi. Quando ebbe finito porse il foglio a Weber, come un allievo a un professore.
― È in gotico ― disse Weber con un lieve sorriso.
Anche Helmut sorrise.
― Sì. Ero bravo a scuola. Il paese e l’indirizzo sono in stampatello però, così non ti confondi e li trovi subito.
― Hai fatto bene. In America non mi hanno insegnato il gotico a scuola.
Il capitano mise il foglio dentro la cartella.
― Ti farò portare qualcosa di buono da mangiare. Cosa ti piace?
― Oh! ― Helmut sbuffò e sorrise. Aveva un sorriso bellissimo, velato di tristezza.
― Tanto io mangio tutto!
― Immagino ― disse Weber e stava per dire “alla tua età” ma si fermò. Perché non si decideva ad andarsene? Stava perdendo tempo. Sapeva che l’indomani Helmut sarebbe stato fucilato assieme ad altri, non poteva farci niente, la sua condanna era stata già firmata. Weber, si avviò stancamente alla porta.
― Capitano Weber! ― disse Helmut.
Weber si voltò.
― Se mangio buono questa sera vuol dire che… È domani. Sì?
― Sì, Helmut.
― Capitano Weber!
― Sì, Helmut.
― Domando un favore.
― Dimmi.
― Datemi una giacca da soldato. Della Wehrmacht!
― L’avrai.
― Capitano Weber! Signore! È una promessa, signore?
― È... una promessa.
Weber si voltò verso la porta.
― Capitano Weber!
Come Weber si voltò Helmut si irrigidì, sollevò la testa, batté il piede sinistro a terra, si mise sull’attenti e portò di scatto la mano destra sulla fronte nel saluto militare. Weber esitò. Rispose al saluto irrigidendosi anche lui sull’attenti.
***
Helmut saltò dal camion con le mani legate dietro la schiena, scortato dai soldati, scuotendo la testa per togliere il ciuffo dalla fronte. Indossava una giacca da soldato abbottonata fino al collo. Weber sospirò. Lo accompagnarono al palo di legno sbrecciato dove poco prima avevano fucilato altri sabotatori. Un piccolo gruppo di ufficiali, fra cui un allampanato prete in uniforme, stava intorno a lui. Un sergente si fece avanti per bendarlo, Weber prese la benda e si avvicinò a Helmut.
― Porterò la tua lettera a casa.
― Grazie capitano Weber. Di tutto.
― Mi dispiace.
― Adesso sono un soldato, vero?
― Sì Helmut. Sei un soldato.
Il plotone d’esecuzione si schierò.
Helmut sollevò il viso al cielo. Come sentì dare i primi ordini si mise sull’attenti. Gli alamari d’argento della sua giacca luccicarono al sole.
La scarica di fucileria fu secca e breve. Helmut cadde in avanti, con il suo ciuffo al vento che lo accompagnò per l’ultima volta.