[MI167] La scrittura è per me mistero
Posted: Sun Apr 24, 2022 10:48 pm
Traccia di mezzanotte
Di fronte all'arte mi commuovo, e non mi vergogno che si sappia.
Ogni volta succede questo: sento nel petto un movimento verso l'alto, come un fiume che risale alla sorgente; quel mormorio cresce e si gonfia, si arrampica fino a gola e occhi e da qui schizza fuori in lamenti scomposti, gorgoglii e lacrime bollenti.
Mi è capitato ieri l'altro, ad esempio, mentre guardavo in tv un approfondimento su Rothko. Le grandi tele, che del nero sembravano cogliere l'intimità più intima, mi hanno fatto quasi stramazzare a terra. Non so se è un pregio o una iattura: forse più una iattura.
Mi fanno questo effetto soprattutto due forme di arte: la pittura e la scrittura. La scultura, l'architettura e la musica in misura molto più contenuta, e reputo ciò un bene.
La scrittura è per me mistero al grado più alto. Centinaia sono le pagine che hanno accolto le mie lacrime. Il turbamento che mi pervade non è dato dal contenuto, ma dal grado di perfezione con cui esso viene veicolato al lettore: posso singhiozzare anche di fronte alle sillabe di Tre uomini in barca.
Se prendiamo un racconto quale Colline come elefanti bianchi, vediamo che qui lo stupore emotivo nasce sia per il dolore trattato sia per l'ineguagliabile purezza di Hemingway nel condurre il dialogo tra i due protagonisti.
Mentre leggiamo, abbiamo la conferma che qualcosa non va quando l'uomo dice alla ragazza che quella certa cosa "è davvero un'operazione semplicissima", tanto che "non la si può neanche chiamare un'operazione".
E mentre la ragazza guarda il terreno su cui poggiano le gambe del tavolo – i due siedono all'ombra di un bar all'aperto, vicino alla stazione, in attesa del treno per Madrid e sorseggiando una nuova bibita –, l'uomo continua a parlare dicendosi sicuro che lei neppure ci farà caso, tanto è cosa da niente: "Serve solo a far passare l'aria", conclude.
Ecco, qui il lettore comprende di cosa si tratta. E, nel comprendere, ha un capogiro. Non tanto per la cosa in sé, ma per la perizia con cui l'Autore, passo dopo passo, procede.
La ragazza non ha subìto ancora nessun intervento né lo subirà all'interno del racconto, ma un'aria di desolazione, di "perdita", comincia a farsi largo con metallica durezza. Dopo l'affermazione dell'uomo, la ragazza dapprima rimane in silenzio, poi domanda: "E cosa faremo, dopo?"
Lui risponde: "Staremo benissimo, dopo. Come stavamo prima".
"Cosa te lo fa credere?", continua lei.
E l'uomo: "È l'unica cosa che ci preoccupa. È l'unica cosa che ci ha reso infelici".
Ora le carte sono scoperte. La ragazza chiede se davvero lui pensa che "dopo" potranno essere felici, e a un lettore attento non sfugge la polvere di ironia che si posa su ogni sillaba di quella frase, così come non gli sfugge quanto sia spregevole lui, che la esorta a non avere paura perché conosce un sacco di gente "che l'ha fatto".
Anche lei conosce tante che lo hanno fatto, "e dopo erano tutte così felici!", continua sarcastica.
Ed ecco che lui, a cui non è sfuggita l'ironia dolente, le dice che di certo nessuno la obbliga; sa che è semplicissimo, questo sì, ma nessuno, nessuno la obbliga.
"E tu lo vuoi davvero?" domanda lei, sperando, forse, che le allontani dalle labbra quel calice di disperazione.
"Credo che sia la cosa migliore", risponde lui, e insiste sul fatto che non deve però farlo per forza.
"E se lo faccio tu sarai felice e le cose torneranno come prima e tu mi vorrai bene?"
La ragazza sa che ormai tutto è perduto. È avviluppata in una rete che le si stringe intorno a ogni movimento del cuore.
Lei comprende fino in fondo quello che accadrà: guarda dentro le cose con occhi limpidi e acuti; lui, invece, è cieco, sta fermo sulla superficie, e continua a cianciare.
"Potremmo avere tutto e ogni giorno lo rendiamo più impossibile", osserva lei.
Ma "possiamo avere tutto", dice lui. "Possiamo avere il mondo intero, possiamo andare dappertutto".
"No che non possiamo. Non è più nostro".
"È nostro" ribatte l'uomo.
"No, non lo è, e quando te l'hanno portato via, non riesci a riaverlo mai più."
Lui non comprende proprio. Sembra senza cervello, poverino. Sentite come risponde: "Ma non ce l'hanno portato via".
E lei, martire e profeta insieme, conclude: "Aspettiamo e vedremo".
Mi è caduto nel pozzo l'anello d'oro!
Nessuno potrà restituirmelo,
il dito resterà nudo.
Era un dono di nozze,
il dito resterà nudo.
Di fronte all'arte mi commuovo, e non mi vergogno che si sappia.
Ogni volta succede questo: sento nel petto un movimento verso l'alto, come un fiume che risale alla sorgente; quel mormorio cresce e si gonfia, si arrampica fino a gola e occhi e da qui schizza fuori in lamenti scomposti, gorgoglii e lacrime bollenti.
Mi è capitato ieri l'altro, ad esempio, mentre guardavo in tv un approfondimento su Rothko. Le grandi tele, che del nero sembravano cogliere l'intimità più intima, mi hanno fatto quasi stramazzare a terra. Non so se è un pregio o una iattura: forse più una iattura.
Mi fanno questo effetto soprattutto due forme di arte: la pittura e la scrittura. La scultura, l'architettura e la musica in misura molto più contenuta, e reputo ciò un bene.
La scrittura è per me mistero al grado più alto. Centinaia sono le pagine che hanno accolto le mie lacrime. Il turbamento che mi pervade non è dato dal contenuto, ma dal grado di perfezione con cui esso viene veicolato al lettore: posso singhiozzare anche di fronte alle sillabe di Tre uomini in barca.
Se prendiamo un racconto quale Colline come elefanti bianchi, vediamo che qui lo stupore emotivo nasce sia per il dolore trattato sia per l'ineguagliabile purezza di Hemingway nel condurre il dialogo tra i due protagonisti.
Mentre leggiamo, abbiamo la conferma che qualcosa non va quando l'uomo dice alla ragazza che quella certa cosa "è davvero un'operazione semplicissima", tanto che "non la si può neanche chiamare un'operazione".
E mentre la ragazza guarda il terreno su cui poggiano le gambe del tavolo – i due siedono all'ombra di un bar all'aperto, vicino alla stazione, in attesa del treno per Madrid e sorseggiando una nuova bibita –, l'uomo continua a parlare dicendosi sicuro che lei neppure ci farà caso, tanto è cosa da niente: "Serve solo a far passare l'aria", conclude.
Ecco, qui il lettore comprende di cosa si tratta. E, nel comprendere, ha un capogiro. Non tanto per la cosa in sé, ma per la perizia con cui l'Autore, passo dopo passo, procede.
La ragazza non ha subìto ancora nessun intervento né lo subirà all'interno del racconto, ma un'aria di desolazione, di "perdita", comincia a farsi largo con metallica durezza. Dopo l'affermazione dell'uomo, la ragazza dapprima rimane in silenzio, poi domanda: "E cosa faremo, dopo?"
Lui risponde: "Staremo benissimo, dopo. Come stavamo prima".
"Cosa te lo fa credere?", continua lei.
E l'uomo: "È l'unica cosa che ci preoccupa. È l'unica cosa che ci ha reso infelici".
Ora le carte sono scoperte. La ragazza chiede se davvero lui pensa che "dopo" potranno essere felici, e a un lettore attento non sfugge la polvere di ironia che si posa su ogni sillaba di quella frase, così come non gli sfugge quanto sia spregevole lui, che la esorta a non avere paura perché conosce un sacco di gente "che l'ha fatto".
Anche lei conosce tante che lo hanno fatto, "e dopo erano tutte così felici!", continua sarcastica.
Ed ecco che lui, a cui non è sfuggita l'ironia dolente, le dice che di certo nessuno la obbliga; sa che è semplicissimo, questo sì, ma nessuno, nessuno la obbliga.
"E tu lo vuoi davvero?" domanda lei, sperando, forse, che le allontani dalle labbra quel calice di disperazione.
"Credo che sia la cosa migliore", risponde lui, e insiste sul fatto che non deve però farlo per forza.
"E se lo faccio tu sarai felice e le cose torneranno come prima e tu mi vorrai bene?"
La ragazza sa che ormai tutto è perduto. È avviluppata in una rete che le si stringe intorno a ogni movimento del cuore.
Lei comprende fino in fondo quello che accadrà: guarda dentro le cose con occhi limpidi e acuti; lui, invece, è cieco, sta fermo sulla superficie, e continua a cianciare.
"Potremmo avere tutto e ogni giorno lo rendiamo più impossibile", osserva lei.
Ma "possiamo avere tutto", dice lui. "Possiamo avere il mondo intero, possiamo andare dappertutto".
"No che non possiamo. Non è più nostro".
"È nostro" ribatte l'uomo.
"No, non lo è, e quando te l'hanno portato via, non riesci a riaverlo mai più."
Lui non comprende proprio. Sembra senza cervello, poverino. Sentite come risponde: "Ma non ce l'hanno portato via".
E lei, martire e profeta insieme, conclude: "Aspettiamo e vedremo".
Mi è caduto nel pozzo l'anello d'oro!
Nessuno potrà restituirmelo,
il dito resterà nudo.
Era un dono di nozze,
il dito resterà nudo.