[MI166] Come polvere

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Traccia di Mezzogiorno

Come polvere

Ricordo.
Il fiume che scorreva placido solo per noi due, e il sole già vicino al tramonto.
I suoi raggi che ci scaldavano obliqui.
Una luce lievemente aranciata, amplificata dalle foglie e dai rami imbruniti, incombenti dalle sponde. Creavano giochi di ombre inquiete, che sembravano saettare sulle acque come nostalgie di pensieri. O di desideri.
Ricordo. Era una domenica pomeriggio; fine autunno. Io avevo diciassette anni, Roberto da poco ventuno.
Le nostre biciclette abbandonate al limitare del bosco insieme ai maglioncini resi inutili dal troppo caldo. Stavamo in pigro silenzio sui sassi del greto.
Non avevamo deciso di andare al fiume, ci eravamo semplicemente arrivati nella nostra pedalata. E quando il riflesso azzurro dell’acqua ci aveva raggiunti, ci eravamo fermati.
Io mi ero seduta su una grossa pietra mentre lui si era avvicinato alla riva.
Lo avevo atteso mentre faceva rimbalzare i sassi sulla superficie, aspettato che perdesse interesse per quel gioco e lo mostrasse per me.
Avevo chiuso gli occhi, rivolta al sole. L’umido sentore del fiume e il leggero mormorare del suo scorrere.
I tonfi dei sassi di Roberto. Il martellare lontano di un picchio.
Ogni istante pareva ripetersi sempre uguale, come se l’immensità del creato si fosse condensata in una bolla tutta per noi.
Finché un’ombra non si era posata sulle mie palpebre. Lui, fermo tra me e il sole.
Il suo sguardo sulla mia gonna corta. Le sue labbra tirate, sottili per la tensione.
Da tempo non parlavamo.
–A cosa pensi?
Aveva fatto una faccia meravigliata. Sorpreso dalla mia voce.
–Che sei bellissima.
Ma non era venuto da me. Si era solo seduto accanto.

Come era adesso.
Io semi sdraiata, appoggiata sui gomiti e con le gambe allungate in avanti. Calde nell’ultimo sole.
Lui seduto a gambe incrociate, ingobbito, intento ad armeggiare con un legnetto.
Vedevo solo la sua schiena, la camicia azzurra troppo pesante, tesa sul suo fisico massiccio. Le maniche avvoltolate e gli avambracci abbronzati.
Non potevo osservare cosa stesse facendo, ma sapevo che si stava grattando le unghie, perennemente sporche d’officina. Così come non lo abbandonava mai il pungente odore di grasso bruciato delle mani.
Anche se gli avevo giurato che non m’importava, se ne vergognava.
Guardavo la sua schiena e pensavo alle sue mani, alla pelle liscia del mio ventre, delle mie cosce, dei miei seni, che lui non aveva mai cercato.
Perché era un bravo ragazzo, mi dicevo. Un po’ rozzo, taciturno, ma perbene, e mi rispettava davvero.
Diceva di amarmi.
Osservavo la sua schiena, la zazzera nera e riccioluta. Quello che sentivo io era amore?
Come potevo saperlo?
Forse la stretta allo stomaco che mi attanagliava quando lo vedevo era quello. O l’ebrezza dei suoi baci.
Il desiderio delle carezze che non mi dava.
Sospirai, mentre mi sdraiavo con le mani intrecciate dietro la nuca.
Sopra di me l’ondeggiare indolente di un ramo. Foglie accese d’autunno e un cielo intenso cobalto.
I pensieri corsero dove non volevo.
Il negozio era affidato a me fino alla chiusura. L’ultimo cliente era un universitario che aveva affittato un buco lì vicino. Ci vedevamo ogni giorno, scherzavamo, parlavamo del più e del meno. Anche quella sera.
Ma lui si era fermato nel mezzo di una frase. Le sue labbra socchiuse, le pupille dilatate. Il respiro spezzato.
Era rimasto a lungo in silenzio a fissarmi, mentre il cuore mi pulsava nelle orecchie e le gambe tremavano, molli e rigide allo stesso tempo.
Infine, ci eravamo baciati.
Avevo sentito il corpo avvampare, mentre la sua mano cercava i miei seni attraverso la camicetta. S’infilava sotto di essa, mi sfiorava la pancia, tendeva l’elastico delle mutandine.
Ardevo di desiderio.
Ma non lo amavo. E lo avevo allontanato.
–A cosa pensi?– mi chiese Roberto, sempre seduto di spalle, senza voltarsi.
Non gli risposi, non potevo.
Come avrei potuto dirgli che cento, mille volte, mi ero persa nell’immaginare quel che sarebbe potuto accadere quella sera? Quel che mi avrebbe fatto quel ragazzo?
Che mi ero data soddisfazione al pensiero di quella mano tra le mie cosce.
Mi rialzai di scatto. Gli occhi umidi di lacrime. Pensavo di amare Roberto, davvero, e il dolore che provavo sembrava confermarlo, ma come poteva essere che desiderassi così tanto un altro uomo? Che spregevole persona ero, io?
Asciugai le lacrime, ma dovevo avere le mani sporche, perché sentii pungere dentro un occhio.
Fu un dolore intenso e inaspettato, tanto che mi scappò un gemito.
Neppure ebbi il tempo per rendermene conto, che Roberto già stringeva il mio viso, scrutandomi preoccupato.
–È solo polvere– gli spiegai, ma lui parve nemmeno sentire.
La sua indolenza di quel pomeriggio era stata spazzata via dall’apprensione.
Fui obbligata a sdraiarmi nuovamente, nonostante protestassi che non era nulla.
Ma non riuscivo a riaprire l’occhio e lui non demorse.
Con una delicatezza che le sue dita non pensavo avessero, sollevò la palpebra, avvicinandosi tanto da poter vedere:
–Solo un po’ di piccola, fastidiosa polvere.– confermò. E con un’infinita dolcezza provò a soffiare per cacciarla via.
Fu allora che compresi cosa fosse l’amore.
Piccolo come un infinitesimale granello di polvere, immenso come il cuore della persona in cui palpita. E compresi che non avevo nulla di sbagliato, se non il bisogno di amare anche con il corpo, non solo con l’anima.
Sì, io ricordo.
Le ombre ormai lunghe su di noi e un cielo che si scuriva nel crepuscolo. Le mie mani accarezzargli il volto. I suoi occhi a un respiro dai miei:
–Ho paura…
–Anch’io Roberto. Per me è la prima volta…
Lui sorrise:
–Lo è anche per me…
Sbottonò la mia camicetta con impacciata dolcezza.

Io e Roberto ci lasciammo pochi mesi dopo.
Fu la mia immensa, banale, indimenticabile, prima storia d’amore.
L’ho perso di vista negli anni, eppure ancora adesso che non sono più giovane, ogni volta che della polvere mi entra negli occhi, vorrei che le sue mani mi venissero in soccorso.
Desidererei tornare sul greto del fiume e amare per la prima volta.
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