[MI 165] Scarpe
Posted: Sun Mar 27, 2022 8:16 pm
Traccia di mezzogiorno: Le scarpe.
Scarpe
Una goccia di pioggia gli cadde sul volto. Un'unica goccia ma grande abbastanza da bagnargli la fronte. Vi passò il braccio sopra per asciugarsi. La manica, già piuttosto sporca, si imbrattò di terra e fango. Che iniziasse a piovere non gli dispiaceva. Avrebbe bevuto, almeno, semplicemente aprendo la bocca. Era l'unica azione che poteva fare in quel momento. Non fece in tempo a pensarlo che una cascata di acqua fresca gli piovve addosso. Bevve, bevve tanto. E si lavò. Quindi iniziò a dimenarsi per liberare la gamba intrappolata sotto al trave. Sperava di aver ritrovato le forze e di riuscire a togliersi da quella trappola. Ma la gamba era incastrata bene e ad ogni sforzo per smuoverla il dolore si acuiva. La pioggia non cessava e gli parve di scorgere una figura riparata da un ombrello che lo osservava da lontano. Ma poteva essere un'illusione.
Quando smise di piovere e di sperare di liberarsi, vide un uomo avvicinarsi cauto a lui. Era un soldato semplice, molto giovane. E, per fortuna, del suo esercito. Da come era conciato, aveva la divisa stracciata ed era scalzo, doveva essere stato coinvolto anche lui nell'esplosione. Ma sembrava illeso.
- Aiutami, ragazzo! Sposta questa trave! Per favore.
Il ragazzo ci provò più volte senza smuoverla di un centimetro.
Si sedette di fronte a lui. Quindi riprovò ancora.
Poi si sdraiò accanto a lui, le teste vicine, e si accese una sigaretta.
- Vuoi un tiro? - gli chiese.
- Grazie.
I due fumarono in silenzio. Finché la sigaretta finì.
- Io vado - disse il soldato giovane.
L'altro annuì senza dire niente.
Il soldato giovane si avviò, fece pochi passi, e poi tornò indietro.
- Senti, - gli disse - non è che potresti darmi le tue scarpe? Così non farò molta strada.
Lui lo guardò senza parlare, impotente.
- Tanto a te non servono più.
Teresa spense la tele. L'ennesimo film di guerra. Non era dell'umore di guardare certe cose. Sbirciò il cellulare: le nove e quaranta e nessun messaggio in arrivo. Michele aveva detto che sarebbe venuto per cena. Sarà in ritardo, ma arriverà a momenti, pensò. Aveva organizzato questa serata per salutarlo. L'indomani sarebbe partita con la sua classe per una gita di istruzione. Si era sentita obbligata ad andare: era l'unica insegnante non sposata e senza figli.
Fece un giro per la casa per vedere se ci fosse ancora qualcosa da mettere a posto. Tutto era pulito e in ordine. In bagno diede un'ulteriore occhiata al trucco. Passò dalla camera da letto per guardarsi nello specchio dell'armadio. La gonna nuova le stava benissimo, così come la camicetta di seta blu. Sembrava fatta apposta per abbinarsi alle decollété col tacco a spillo che si sarebbe messa non appena fosse arrivato Michele. Per ora indossava le ciabatte, non voleva farsi gonfiare i piedi inutilmente.
In sala da pranzo era tutto pronto. La tavola apparecchiata. Aveva messo anche una tovaglia e dei tovaglioli blu che si intonavano alla sua camicia e alle scarpe. Lui non ci avrebbe fatto caso, ma le sembrò comunque una bella idea. Il risotto ai frutti di mare si era raffreddato nella pentola, ma, pazienza, l'avrebbe riscaldato e sarebbe stato buono comunque.
Alle dieci e un quarto prese il cellulare. Gli avrebbe mandato un messaggio. Sapeva che non doveva, lui era con sua moglie e sarebbe venuto non appena si fosse liberato. Ma non le importò. "Allora? Quando vieni?" digitò con rabbia.
Accese di nuovo la tele. Il film di guerra era finito e abbassò il volume. Anche il suo cellulare taceva ma lo prese lo stesso. Iniziò a sfogliare la galleria di foto. Scorse rapidamente le foto di Michele, le faceva male guardarle. Si soffermò allora sull'immagine di sua sorella Sara con il suo bimbo in braccio. L'aveva scattata al reparto maternità. Lei in camicia da notte, spettinata, il volto tirato ma felice. Pensò che doveva ancora andare a portarle il regalo. Un paio di scarpine da neonato, tanto inutili quanto deliziose.
Michele suonò alla porta alle undici e mezzo.
Teresa sussultò. Si era addormentata sul divano. Fece sedere Michele a tavola e servì il risotto: una palla collosa in cui spiccavano gusci di vongole e tentacoli attorcigliati.
- Grazie, - disse Michele - ma non posso fermarmi a mangiare. Sono solo passato a salutarti. Ho detto a mia moglie che uscivo un attimo.
Teresa perse le staffe:
- Vattene! - gli urlò - Sparisci dalla mia vita!
Michele non se lo fece ripetere, sollevato dal poter tornare presto a casa sua ed evitare di litigare pure con sua moglie.
Teresa lo spinse fuori in malo modo e sbatté la porta.
Una volta chiusa guardò a terra. Le decollété, impettite e inutili, erano rimaste accanto all'ingresso. Teresa si guardò i piedi, le vecchie pantofole, ridicole, che contrastavano con i vestiti eleganti.
Il bambino si era appena addormentato. Finalmente. Era capace di piangere per ore senza alcun motivo apparente. O per lo meno senza che Sara lo capisse. Lo attaccava al seno ma le ragadi le facevano troppo male. Il piccolo sembrava esserne consapevole e si staccava dal capezzolo urlando. Allora gli cambiava il pannolino. Sapeva che i neonati possono piangere perché si sentono bagnati o sporchi, oppure se hanno le coliche. Sara allora gli massaggiava il pancino, ma serviva a poco. Provava anche a mettergli in bocca il ciuccio ma anche questo lo distraeva per poco tempo.
Adesso si era addormentato in braccio a lei, pancia contro pancia. Il visetto appoggiato al suo petto. Sentiva il suo respiro regolare, il suo calore e il peso, leggero ma consistente. Sospirò mentre gli accarezzava i capelli. Erano radi e così sottili,sembravano di una materia diversa dai suoi. Pian piano lo appoggiò sulla culla. Il bimbo ebbe un lieve sussulto, dato dal distacco dal corpo caldo della madre, ma non si svegliò. Sara si sentì sollevata. Finalmente aveva un po' di tempo per sé stessa.
Però invece di allontanarsi dalla culla rimase a fissare suo figlio. Guardò la linea morbida delle guance, le labbra sottili. Con la mano lo sfiorò. Rimaneva sempre stupita di quanto fosse liscia la sua pelle. Poi guardò i piedini, indossava ancora le scarpine che gli aveva regalato sua sorella Teresa. Erano immacolate e così sarebbero rimaste per sempre perché non ci avrebbe mai camminato. Gliele sfilò e rimase ammirata a guardare i piedini paffutelli avvolti dai calzini. Senza un motivo particolare gli tolse anche quelli. Solo per il piacere di guardarli.
Poi le cadde lo sguardo sulle scarpette appoggiate sul tavolo. Un moto di tenerezza violento le fece venire le lacrime agli occhi.
Teresa camminava dietro la scolaresca. La sua collega era davanti e lei faceva da chiudi-fila. Il campo era pieno di visitatori, gruppi di persone seguivano le guide come in un qualsiasi museo. Si vergognava con sé stessa ma non sentì la commozione che si era immaginata. Il cancello con la scritta era trasfigurato dalla folla ben vestita, dagli studenti chiassosi. Le baracche sembravano ripulite, edulcorate, ed era necessario sforzare l'immaginazione per percepire la sofferenza di cui erano state testimoni.
Entrarono quindi in un edificio più grande in cui erano affisse delle teche di vetro. Ognuna conteneva un tipo di oggetto diverso. C'erano le valige, i documenti. Una conteneva i capelli. Un enorme ammasso di capelli di colori diversi. Di fronte a quella vista era impossibile rimanere indifferenti. Teresa sentì la bocca dello stomaco che si chiudeva. Non riuscì a guardare a lungo e passò davanti a un'altra teca. Conteneva scarpe. Di tutti i tipi, da donna e da uomo, ma tutte di foggia antica, marroni e nere.
Più in là c'è n'era un'altra. Grande uguale e piena anch'essa di scarpe.
Solo che erano scarpe da bambini. Una montagna di scarpine.
Teresa rimase impietrita. Anche se quella vista era insostenibile, non riusciva a staccarne lo sguardo. Fu la sua collega a riportarla al presente, toccandole una spalla. Quando Teresa si girò verso di lei, si rese conto di avere il volto bagnato dalle lacrime.
Quando smise di piovere e di sperare di liberarsi, vide un uomo avvicinarsi cauto a lui. Era un soldato semplice, molto giovane. E, per fortuna, del suo esercito. Da come era conciato, aveva la divisa stracciata ed era scalzo, doveva essere stato coinvolto anche lui nell'esplosione. Ma sembrava illeso.
- Aiutami, ragazzo! Sposta questa trave! Per favore.
Il ragazzo ci provò più volte senza smuoverla di un centimetro.
Si sedette di fronte a lui. Quindi riprovò ancora.
Poi si sdraiò accanto a lui, le teste vicine, e si accese una sigaretta.
- Vuoi un tiro? - gli chiese.
- Grazie.
I due fumarono in silenzio. Finché la sigaretta finì.
- Io vado - disse il soldato giovane.
L'altro annuì senza dire niente.
Il soldato giovane si avviò, fece pochi passi, e poi tornò indietro.
- Senti, - gli disse - non è che potresti darmi le tue scarpe? Così non farò molta strada.
Lui lo guardò senza parlare, impotente.
- Tanto a te non servono più.
Teresa spense la tele. L'ennesimo film di guerra. Non era dell'umore di guardare certe cose. Sbirciò il cellulare: le nove e quaranta e nessun messaggio in arrivo. Michele aveva detto che sarebbe venuto per cena. Sarà in ritardo, ma arriverà a momenti, pensò. Aveva organizzato questa serata per salutarlo. L'indomani sarebbe partita con la sua classe per una gita di istruzione. Si era sentita obbligata ad andare: era l'unica insegnante non sposata e senza figli.
Fece un giro per la casa per vedere se ci fosse ancora qualcosa da mettere a posto. Tutto era pulito e in ordine. In bagno diede un'ulteriore occhiata al trucco. Passò dalla camera da letto per guardarsi nello specchio dell'armadio. La gonna nuova le stava benissimo, così come la camicetta di seta blu. Sembrava fatta apposta per abbinarsi alle decollété col tacco a spillo che si sarebbe messa non appena fosse arrivato Michele. Per ora indossava le ciabatte, non voleva farsi gonfiare i piedi inutilmente.
In sala da pranzo era tutto pronto. La tavola apparecchiata. Aveva messo anche una tovaglia e dei tovaglioli blu che si intonavano alla sua camicia e alle scarpe. Lui non ci avrebbe fatto caso, ma le sembrò comunque una bella idea. Il risotto ai frutti di mare si era raffreddato nella pentola, ma, pazienza, l'avrebbe riscaldato e sarebbe stato buono comunque.
Alle dieci e un quarto prese il cellulare. Gli avrebbe mandato un messaggio. Sapeva che non doveva, lui era con sua moglie e sarebbe venuto non appena si fosse liberato. Ma non le importò. "Allora? Quando vieni?" digitò con rabbia.
Accese di nuovo la tele. Il film di guerra era finito e abbassò il volume. Anche il suo cellulare taceva ma lo prese lo stesso. Iniziò a sfogliare la galleria di foto. Scorse rapidamente le foto di Michele, le faceva male guardarle. Si soffermò allora sull'immagine di sua sorella Sara con il suo bimbo in braccio. L'aveva scattata al reparto maternità. Lei in camicia da notte, spettinata, il volto tirato ma felice. Pensò che doveva ancora andare a portarle il regalo. Un paio di scarpine da neonato, tanto inutili quanto deliziose.
Michele suonò alla porta alle undici e mezzo.
Teresa sussultò. Si era addormentata sul divano. Fece sedere Michele a tavola e servì il risotto: una palla collosa in cui spiccavano gusci di vongole e tentacoli attorcigliati.
- Grazie, - disse Michele - ma non posso fermarmi a mangiare. Sono solo passato a salutarti. Ho detto a mia moglie che uscivo un attimo.
Teresa perse le staffe:
- Vattene! - gli urlò - Sparisci dalla mia vita!
Michele non se lo fece ripetere, sollevato dal poter tornare presto a casa sua ed evitare di litigare pure con sua moglie.
Teresa lo spinse fuori in malo modo e sbatté la porta.
Una volta chiusa guardò a terra. Le decollété, impettite e inutili, erano rimaste accanto all'ingresso. Teresa si guardò i piedi, le vecchie pantofole, ridicole, che contrastavano con i vestiti eleganti.
Il bambino si era appena addormentato. Finalmente. Era capace di piangere per ore senza alcun motivo apparente. O per lo meno senza che Sara lo capisse. Lo attaccava al seno ma le ragadi le facevano troppo male. Il piccolo sembrava esserne consapevole e si staccava dal capezzolo urlando. Allora gli cambiava il pannolino. Sapeva che i neonati possono piangere perché si sentono bagnati o sporchi, oppure se hanno le coliche. Sara allora gli massaggiava il pancino, ma serviva a poco. Provava anche a mettergli in bocca il ciuccio ma anche questo lo distraeva per poco tempo.
Adesso si era addormentato in braccio a lei, pancia contro pancia. Il visetto appoggiato al suo petto. Sentiva il suo respiro regolare, il suo calore e il peso, leggero ma consistente. Sospirò mentre gli accarezzava i capelli. Erano radi e così sottili,sembravano di una materia diversa dai suoi. Pian piano lo appoggiò sulla culla. Il bimbo ebbe un lieve sussulto, dato dal distacco dal corpo caldo della madre, ma non si svegliò. Sara si sentì sollevata. Finalmente aveva un po' di tempo per sé stessa.
Però invece di allontanarsi dalla culla rimase a fissare suo figlio. Guardò la linea morbida delle guance, le labbra sottili. Con la mano lo sfiorò. Rimaneva sempre stupita di quanto fosse liscia la sua pelle. Poi guardò i piedini, indossava ancora le scarpine che gli aveva regalato sua sorella Teresa. Erano immacolate e così sarebbero rimaste per sempre perché non ci avrebbe mai camminato. Gliele sfilò e rimase ammirata a guardare i piedini paffutelli avvolti dai calzini. Senza un motivo particolare gli tolse anche quelli. Solo per il piacere di guardarli.
Poi le cadde lo sguardo sulle scarpette appoggiate sul tavolo. Un moto di tenerezza violento le fece venire le lacrime agli occhi.
Teresa camminava dietro la scolaresca. La sua collega era davanti e lei faceva da chiudi-fila. Il campo era pieno di visitatori, gruppi di persone seguivano le guide come in un qualsiasi museo. Si vergognava con sé stessa ma non sentì la commozione che si era immaginata. Il cancello con la scritta era trasfigurato dalla folla ben vestita, dagli studenti chiassosi. Le baracche sembravano ripulite, edulcorate, ed era necessario sforzare l'immaginazione per percepire la sofferenza di cui erano state testimoni.
Entrarono quindi in un edificio più grande in cui erano affisse delle teche di vetro. Ognuna conteneva un tipo di oggetto diverso. C'erano le valige, i documenti. Una conteneva i capelli. Un enorme ammasso di capelli di colori diversi. Di fronte a quella vista era impossibile rimanere indifferenti. Teresa sentì la bocca dello stomaco che si chiudeva. Non riuscì a guardare a lungo e passò davanti a un'altra teca. Conteneva scarpe. Di tutti i tipi, da donna e da uomo, ma tutte di foggia antica, marroni e nere.
Più in là c'è n'era un'altra. Grande uguale e piena anch'essa di scarpe.
Solo che erano scarpe da bambini. Una montagna di scarpine.
Teresa rimase impietrita. Anche se quella vista era insostenibile, non riusciva a staccarne lo sguardo. Fu la sua collega a riportarla al presente, toccandole una spalla. Quando Teresa si girò verso di lei, si rese conto di avere il volto bagnato dalle lacrime.