I lupi di Kabul
Posted: Wed Feb 23, 2022 8:01 am
Commento a Bashir di @Adel J. Pellitteri
Gli uomini con la barba li svegliano all’alba. All’inizio non capiscono cosa sia. Sembra il ronzio lontano di insetti arrabbiati, il cingolare metallico di pentole accartocciate.
Mamma aiuta Aamir a vestirsi in fretta, infila il burqa, i fratelli e la sorella già pronti sulla porta. Escono di casa in silenzio.
La strada traballa sotto i loro piedi mentre corrono verso l’aeroporto con gli occhi nella polvere, una mano aggrappata a chi sta di fronte.
Quando la camionetta svolta l’angolo si trasformano in pietra, ma gli uomini con la barba frenano proprio di fianco a loro, scendono a terra con un salto e le armi in mano.
Le mani di mamma strengono poi spingono Aamir indietro, quelle del fratello grande lo afferrano e lo nascondono dietro le gambe, dove le mani della sorella lo infilano dietro le pieghe del burqa e lo passano alle mani dell’altro fratello.
Le ultime mani lo fanno rotolare dietro un bidone ribaltato.
Aamir cade nella polvere e tra i mattoni, rimane zitto e senza lacrime perché capisce e anche perché dentro di lui c’è solo la voce muta della paura. Gli uomini con la barba non lo vedono, perché lui è ancora basso, abbastanza da nascondersi dietro la sua famiglia.
Da quando sono scomparsi tutti si sveglia da solo. Si alza, si veste, si lava la faccia con l’acqua fredda, poi esce in strada e va a cercare del cibo, le mani premute sulle tasche dei pantaloni.
Aamir cammina veloce, lo sguardo basso, cerca i proiettili. Non è una ricerca che richiede pazienza, ce ne sono ovunque. Si china, li raccoglie, li mette in tasca e li fa suonare, sbatacchiandoli uno contro l’altro.
Aamir si nasconde, aspetta, scruta, sfreccia tra le bancarelle del mercato dove ruba del cibo. Nessuno lo insegue, qualcuno lo nasconde. La città è grigia e polverosa intorno ad Aamir, il cibo che si infila in bocca sa di terra e vento e non riempie la pancia.
Così, un giorno dietro l’altro.
Da quando sono tornati gli uomini con la barba si è aperto un buco che ha ingoiato risate e colori: gli uccellini cantano senza voce, i venditori al mercato osservavano le mosche banchettare sulla loro merce senza muovere un dito. Aamir ruba senza che nessuno lo sgridi.
I fiori, che prima bucavano i mattoni e spaccavano il cemento, ora sono solo crepe e buchi.
Aamir non ha fretta, non ha più una casa dove tornare. Calcia una lattina schiacciata, soffia contro l’aria ferma, rigira i proiettili che gli pesano in tasca. Li schiaccia tra le dita fino a sentire male.
Quando arriva in mezzo al viale si gira e fissa le punte bianche delle montagne, così lontane e tanto vicine. Un giorno andrà lassù, dove tutto sembra pulito e dove nessuno ti chiede cosa fai per strada. Se gli uomini con la barba lo fermassero e glielo chiedessero, che cosa risponderebbe? Aamir non lo sa.
Un fischio gli scaraventa il cuore nello stomaco e lo fa saltare. L’aria si mette a tremare di urla e di spari.
Aamir sa di dover correre, ma le gambe sono diventate colonne e i piedi mattoni.
Di nuovo il fischio, questa volta più vicino.
Aamir vuole schizzare via, sa che stanno arrivando e che gli chiederanno che cosa fa per strada, ma lui ancora non sa che risposta dare.
Non riesce proprio a spostarsi però e allora pensa: “Chi se ne frega, tanto prima o poi mi prenderanno e mi faranno crescere la barba.”
Aamir lascia cadere le braccia lungo i fianchi, il cuore smette di sbattere contro le costole come un uccellino in un camino.
Proprio mentre la camionetta svolta l’angolo, delle mani schizzano fuori dalla casa distrutta di fianco alla quale Aamir sta impalato, lo afferrano, lo tirano e lo fanno sparire.
La camionetta passa sulla strada vuota, la polvere a correrle dietro turbinando.
«Ma non hai sentito il fischio?»
«Che facevi là in mezzo?»
«Volevi farti prendere?»
I ragazzini sono una decina, alti e bassi, piccoli e grandi, ci sono anche delle femmine nota Aamir.
«Chi siete?»
«Siamo i lupi di Kabul.»
«Non ci sono i lupi a Kabul!» ridacchia Aamir, ma smette subito.
«Siamo imbattibili.»
«Siamo inafferrabili.»
«Siete stati voi a fischiare?» chiede Aamir.
«Abbiamo visto arrivare la camionetta.»
«Era un avvertimento.»
«Non avevo capito.» Aamir è confuso, perché l’hanno aiutato? «Grazie.»
Il ragazzino più basso di tutti si avvicina molto e lo studia strizzando gli occhi.
«Sei un lupo solitario?»
Aamir pensa che gli piacerebbe esserlo, i ragazzini sembrano felici, o almeno contenti. Non c’è traccia di paura o di solitudine nei loro movimenti.
Il ragazzino più alto si mette di fianco al più basso e anche lui scruta Aamir, risalendo dai buchi nelle scarpe fino all’ultimo granello di polvere che gli impasta i capelli.
«Credo proprio che tu abbia ragione, Karim.» Il ragazzino più basso annusce e quello più alto lancia ad Aamir un’ultima occhiata. Aamir sente la fame di essere guardato ancora, ma rimane immobile. «Noi siamo i lupi di Kabul, decidiamo noi come vivere. Questo è il nostro branco.» I ragazzini ululano insieme.
Aamir sente un fulmine nella pancia, pensa subito che sia paura, ma è diverso dal solito. Assomiglia al solletico.
«Se vuoi essere un lupo di Kabul c’è posto anche per te,» dice una ragazzina col velo legato intorno alla fronte.
Aamir non sa cosa fanno i lupi di Kabul, dove vivono o cosa mangiano, c’è tempo per scoprirlo; per il momento gli interessa avere un branco.
«Voglio essere un lupo come voi,» dice Aamir e i ragazzini ululano di nuovo.
Aamir segue i lupi nella tana sotto i buchi delle case e sotto la polvere delle strade, impara a fischiare, a vivere sgattaiolando tra i vicoli, impara a suddividere il cibo, ma anche la paura e la solitudine che insieme ai lupi non sembrano così terribili.
Una notte di luna piena, quando i fischi hanno raccolto troppi ragazzini per continuare a nascondersi nella polvere della città, Aamir, Karim e i lupi di Kabul partono ululando verso le montagne in fondo al viale.
Strisciano tra i vicoli e gli uomini con la barba: immobili mentre li seguono, velocissimi quando non guardano. Nessuno rimane indietro. Corrono di notte e si nascondono di giorno.
Lasciano i ricordi crepati e la polvere di Kabul, perché ogni cosa è meglio di quella.
La strada va dritta fino alla cima, loro la seguono fianco a fianco, gli occhi puntati sulla luna sopra di loro.
Gli uomini con la barba li svegliano all’alba. All’inizio non capiscono cosa sia. Sembra il ronzio lontano di insetti arrabbiati, il cingolare metallico di pentole accartocciate.
Mamma aiuta Aamir a vestirsi in fretta, infila il burqa, i fratelli e la sorella già pronti sulla porta. Escono di casa in silenzio.
La strada traballa sotto i loro piedi mentre corrono verso l’aeroporto con gli occhi nella polvere, una mano aggrappata a chi sta di fronte.
Quando la camionetta svolta l’angolo si trasformano in pietra, ma gli uomini con la barba frenano proprio di fianco a loro, scendono a terra con un salto e le armi in mano.
Le mani di mamma strengono poi spingono Aamir indietro, quelle del fratello grande lo afferrano e lo nascondono dietro le gambe, dove le mani della sorella lo infilano dietro le pieghe del burqa e lo passano alle mani dell’altro fratello.
Le ultime mani lo fanno rotolare dietro un bidone ribaltato.
Aamir cade nella polvere e tra i mattoni, rimane zitto e senza lacrime perché capisce e anche perché dentro di lui c’è solo la voce muta della paura. Gli uomini con la barba non lo vedono, perché lui è ancora basso, abbastanza da nascondersi dietro la sua famiglia.
Da quando sono scomparsi tutti si sveglia da solo. Si alza, si veste, si lava la faccia con l’acqua fredda, poi esce in strada e va a cercare del cibo, le mani premute sulle tasche dei pantaloni.
Aamir cammina veloce, lo sguardo basso, cerca i proiettili. Non è una ricerca che richiede pazienza, ce ne sono ovunque. Si china, li raccoglie, li mette in tasca e li fa suonare, sbatacchiandoli uno contro l’altro.
Aamir si nasconde, aspetta, scruta, sfreccia tra le bancarelle del mercato dove ruba del cibo. Nessuno lo insegue, qualcuno lo nasconde. La città è grigia e polverosa intorno ad Aamir, il cibo che si infila in bocca sa di terra e vento e non riempie la pancia.
Così, un giorno dietro l’altro.
Da quando sono tornati gli uomini con la barba si è aperto un buco che ha ingoiato risate e colori: gli uccellini cantano senza voce, i venditori al mercato osservavano le mosche banchettare sulla loro merce senza muovere un dito. Aamir ruba senza che nessuno lo sgridi.
I fiori, che prima bucavano i mattoni e spaccavano il cemento, ora sono solo crepe e buchi.
Aamir non ha fretta, non ha più una casa dove tornare. Calcia una lattina schiacciata, soffia contro l’aria ferma, rigira i proiettili che gli pesano in tasca. Li schiaccia tra le dita fino a sentire male.
Quando arriva in mezzo al viale si gira e fissa le punte bianche delle montagne, così lontane e tanto vicine. Un giorno andrà lassù, dove tutto sembra pulito e dove nessuno ti chiede cosa fai per strada. Se gli uomini con la barba lo fermassero e glielo chiedessero, che cosa risponderebbe? Aamir non lo sa.
Un fischio gli scaraventa il cuore nello stomaco e lo fa saltare. L’aria si mette a tremare di urla e di spari.
Aamir sa di dover correre, ma le gambe sono diventate colonne e i piedi mattoni.
Di nuovo il fischio, questa volta più vicino.
Aamir vuole schizzare via, sa che stanno arrivando e che gli chiederanno che cosa fa per strada, ma lui ancora non sa che risposta dare.
Non riesce proprio a spostarsi però e allora pensa: “Chi se ne frega, tanto prima o poi mi prenderanno e mi faranno crescere la barba.”
Aamir lascia cadere le braccia lungo i fianchi, il cuore smette di sbattere contro le costole come un uccellino in un camino.
Proprio mentre la camionetta svolta l’angolo, delle mani schizzano fuori dalla casa distrutta di fianco alla quale Aamir sta impalato, lo afferrano, lo tirano e lo fanno sparire.
La camionetta passa sulla strada vuota, la polvere a correrle dietro turbinando.
«Ma non hai sentito il fischio?»
«Che facevi là in mezzo?»
«Volevi farti prendere?»
I ragazzini sono una decina, alti e bassi, piccoli e grandi, ci sono anche delle femmine nota Aamir.
«Chi siete?»
«Siamo i lupi di Kabul.»
«Non ci sono i lupi a Kabul!» ridacchia Aamir, ma smette subito.
«Siamo imbattibili.»
«Siamo inafferrabili.»
«Siete stati voi a fischiare?» chiede Aamir.
«Abbiamo visto arrivare la camionetta.»
«Era un avvertimento.»
«Non avevo capito.» Aamir è confuso, perché l’hanno aiutato? «Grazie.»
Il ragazzino più basso di tutti si avvicina molto e lo studia strizzando gli occhi.
«Sei un lupo solitario?»
Aamir pensa che gli piacerebbe esserlo, i ragazzini sembrano felici, o almeno contenti. Non c’è traccia di paura o di solitudine nei loro movimenti.
Il ragazzino più alto si mette di fianco al più basso e anche lui scruta Aamir, risalendo dai buchi nelle scarpe fino all’ultimo granello di polvere che gli impasta i capelli.
«Credo proprio che tu abbia ragione, Karim.» Il ragazzino più basso annusce e quello più alto lancia ad Aamir un’ultima occhiata. Aamir sente la fame di essere guardato ancora, ma rimane immobile. «Noi siamo i lupi di Kabul, decidiamo noi come vivere. Questo è il nostro branco.» I ragazzini ululano insieme.
Aamir sente un fulmine nella pancia, pensa subito che sia paura, ma è diverso dal solito. Assomiglia al solletico.
«Se vuoi essere un lupo di Kabul c’è posto anche per te,» dice una ragazzina col velo legato intorno alla fronte.
Aamir non sa cosa fanno i lupi di Kabul, dove vivono o cosa mangiano, c’è tempo per scoprirlo; per il momento gli interessa avere un branco.
«Voglio essere un lupo come voi,» dice Aamir e i ragazzini ululano di nuovo.
Aamir segue i lupi nella tana sotto i buchi delle case e sotto la polvere delle strade, impara a fischiare, a vivere sgattaiolando tra i vicoli, impara a suddividere il cibo, ma anche la paura e la solitudine che insieme ai lupi non sembrano così terribili.
Una notte di luna piena, quando i fischi hanno raccolto troppi ragazzini per continuare a nascondersi nella polvere della città, Aamir, Karim e i lupi di Kabul partono ululando verso le montagne in fondo al viale.
Strisciano tra i vicoli e gli uomini con la barba: immobili mentre li seguono, velocissimi quando non guardano. Nessuno rimane indietro. Corrono di notte e si nascondono di giorno.
Lasciano i ricordi crepati e la polvere di Kabul, perché ogni cosa è meglio di quella.
La strada va dritta fino alla cima, loro la seguono fianco a fianco, gli occhi puntati sulla luna sopra di loro.