Ripetizioni
Posted: Sat Feb 05, 2022 11:11 am
Commento a "Invisibili" di Luca C.
Le due donne avevano i loro pregiudizi, l’una sull’altra, ma decisero di metterli da parte per il benessere dei rispettivi figli. S’incontrano per un tè pomeridiano, a casa della maggiorente. Tutto era perfettamente pulito, ordinato e di buon gusto, in quella casa.
«C’è un dettaglio che non riesco a capire» disse la signora elegante, poggiando sul piattino la tazza in porcellana. «Perché non vuole che io paghi sua figlia per le ripetizioni d’inglese?»
La donna più dimessa sospirò. Guardò le sue unghie mangiucchiate e poi quelle bellissime di lei.
«È per via di Barry Lyndon.»
«Non capisco.»
«È un film. Di un regista che si chiama Kubrick.»
«So chi è Kubrick. Io e mio marito conosciamo il film. Ora che ci penso, è uno dei più belli che abbiamo mai visto.»
«Ecco, io lo odio. Purtroppo, mia figlia lo vide a tredici anni. Da allora, lo ha rivisto duecentosessantasette volte.»
«Le ha contate?»
«Lei lo fa. Ogni volta che lo vede.»
«Una stereotipia, insomma.»
«Lei sa cos’è una stereotipia?»
«Diedi alcuni esami di psicologia, prima di cambiare corso» rispose la signora, sorridendo. La madre della ragazza si sentì sollevata.
«Lei perciò sa cos’è una sindrome di Asperger?»
«Autismo ad alto funzionamento. Certo.»
«Mia figlia ha sviluppato una fissazione per l’Inghilterra e la lingua inglese. In casa pensa e parla solo in inglese. Facciamo fatica a comunicare con lei.»
«Ancora non capisco.»
«Cosa?»
«Perché non vuole che le paghi le ripetizioni?»
«Vede» rispose la donna, stringendo la sciarpa luccicante «in realtà, io spero che suo figlio possa aiutare Benedetta.»
«A comunicare. Certo. Lo farà. E le pagherò le ripetizioni. Ha altro da aggiungere?» rispose, poggiando la tazza sul piattino.
Benedetta salì le scale che portavano all’ingresso della casa di Giorgio. Contò i passi. Tredici scalini.
«Mio figlio l’aspetta nella studio di mio marito. Le porterò il tè e i biscotti fra quarantacinque minuti. Sua madre ha detto che lei lo prende ogni giorno alle cinque.»
Benedetta sorrise. Non rispose. Si recò nello studio da Giorgio. Lui era già lì, col quaderno già aperto, illuminato dalla luce bianca dalla finestra. Nel complesso, era un ragazzo tranquillo, che andava bene a scuola. Aveva soltanto difficoltà in inglese.
Benedetta si sedette di fronte. Prese dallo zaino un vecchio iPod e le cuffie e cominciò ad ascoltare la colonna sonora di Barry Lyndon.
«Vuoi vedere il libro?» chiese Giorgio. «Stiamo facendo la parte sul cyberbullismo.»
Benedetta sorrise. Tolse le cuffie. Rispose, in perfetto inglese:
«Non capisco cosa stai dicendo.»
Giorgio si spazientì un poco. Anche il suo professore voleva che parlassero sempre in inglese. Ma, come poteva parlarlo, se prima nessuno glielo insegnava a dovere?
Provò a mettere insieme qualche parola, ma la suo conoscenza del vocabolario era povera e la grammatica era carente. Ricordò che la madre gli aveva detto che Benedetta era “speciale.” Di sforzarsi un poco, per farsi capire.
«L’esercizio. Fare l’esercizio.»
«Molto bene» rispose Benedetta, sempre in inglese. «A che pagina?»
Giorgio capì che voleva vedere il libro. Glielo mostrò. Benedetta lesse l’esercizio con perfetta pronuncia.
«Uao» fece Giorgio, in italiano. «Tu sai veramente bene l’inglese. Anche meglio del mio professore, forse.»
«Non capisco quello che stai dicendo» rispose Benedetta.
«Fa niente. Facciamo che svolgo l’esercizio e poi me lo correggi.»
Benedetta sorrise, ma era chiaro che ormai non capiva appieno quando qualcuno le parlava in italiano. Ricominciò ad ascoltare la musica.
«Non è male» disse Giorgio, mentre lavorava. «La musica che ascolti. La sento, dalla cuffie. Forse è a volume troppo alto. Lo dico per le tue orecchie.»
Benedetta sorrise.
Giorgio finì il compito. Glielo consegnò. Disse:
«Ora mi fai sentire la musica?»
«Io non capisco quello che hai…»
Giorgio riprovò in inglese.
«Ehm. La musica. Ascoltare?»
Benedetta sorrise. Gli passò le cuffie e l’iPod.
«Schubert…» lesse il ragazzo, istantaneamente rapito dal secondo movimento del secondo trio per pianoforte. Benedetta correre il compito con una penna rossa.
«Qui dice che hai ascoltato questa musica duecentosessantotto volte…» disse Giorgio, leggendo sul vecchio schermino dell’iPod. Notò anche che era l’unico album contenuto nell’intero archivio.
Alle cinque, puntuale, arrivò la madre col tè e i biscotti. Benedetta aveva appena finito di correggere il compito. Il figlio si avvicinò alla madre e le disse qualcosa nell’orecchio. La donna sorrise.
«Nessun problema» rispose. Gli diede la carta di credito.
Mentre Benedetta mangiava i biscotti e beveva il tè, Giorgio andò al computer del padre, sullo store di musica, e collegò l’iPod. Quindi, lo restituì a Benedetta.
«Un regalo.»
«Please?»
«A gift» disse Giorgio, molto contento d’aver ricordato subito la parola inglese per “regalo.” Benedetta gli riconsegnò il suo esercizio corretto. Il ragazzo si mise le mani fra i capelli. Aveva sbagliato quasi tutto. Come sarebbe mai arrivato alla perfetta conoscenza che Benedetta aveva della lingua inglese? Mai l’obiettivo gli era sembrato più distante.
«Ti ho regalato un album di Schubert» disse, sempre abbastanza sconsolato. «Pensavo che forse avevi voglia di cambiare. Un poco, non tanto.»
«Non capisco quello che stai dicendo» rispose, in inglese, l’insegnante di ripetizioni.
«Fa niente» risponde Giorgio, sospirando, vedendo il suo compito, pensando a quanto aveva ancora da imparare, prima di giungere a una buona padronanza.
Il tè si raffreddava nelle tazze e la luce della finestra era diventata gialla, come accade a una certa ora della sera, e illuminava e ombreggiava il volto spigoloso della ragazza, sottolineando uno stato d’animo d’irrequietezza che forse Giorgio riusciva a comprendere. Anche lui, a volte, provava quel suo stesso desiderio di perfezione. Così umano, così fragile.
Schubert, Trio n.2, op.100, andante con moto
https://www.youtube.com/watch?v=nioKJNp8ADE
Le due donne avevano i loro pregiudizi, l’una sull’altra, ma decisero di metterli da parte per il benessere dei rispettivi figli. S’incontrano per un tè pomeridiano, a casa della maggiorente. Tutto era perfettamente pulito, ordinato e di buon gusto, in quella casa.
«C’è un dettaglio che non riesco a capire» disse la signora elegante, poggiando sul piattino la tazza in porcellana. «Perché non vuole che io paghi sua figlia per le ripetizioni d’inglese?»
La donna più dimessa sospirò. Guardò le sue unghie mangiucchiate e poi quelle bellissime di lei.
«È per via di Barry Lyndon.»
«Non capisco.»
«È un film. Di un regista che si chiama Kubrick.»
«So chi è Kubrick. Io e mio marito conosciamo il film. Ora che ci penso, è uno dei più belli che abbiamo mai visto.»
«Ecco, io lo odio. Purtroppo, mia figlia lo vide a tredici anni. Da allora, lo ha rivisto duecentosessantasette volte.»
«Le ha contate?»
«Lei lo fa. Ogni volta che lo vede.»
«Una stereotipia, insomma.»
«Lei sa cos’è una stereotipia?»
«Diedi alcuni esami di psicologia, prima di cambiare corso» rispose la signora, sorridendo. La madre della ragazza si sentì sollevata.
«Lei perciò sa cos’è una sindrome di Asperger?»
«Autismo ad alto funzionamento. Certo.»
«Mia figlia ha sviluppato una fissazione per l’Inghilterra e la lingua inglese. In casa pensa e parla solo in inglese. Facciamo fatica a comunicare con lei.»
«Ancora non capisco.»
«Cosa?»
«Perché non vuole che le paghi le ripetizioni?»
«Vede» rispose la donna, stringendo la sciarpa luccicante «in realtà, io spero che suo figlio possa aiutare Benedetta.»
«A comunicare. Certo. Lo farà. E le pagherò le ripetizioni. Ha altro da aggiungere?» rispose, poggiando la tazza sul piattino.
Benedetta salì le scale che portavano all’ingresso della casa di Giorgio. Contò i passi. Tredici scalini.
«Mio figlio l’aspetta nella studio di mio marito. Le porterò il tè e i biscotti fra quarantacinque minuti. Sua madre ha detto che lei lo prende ogni giorno alle cinque.»
Benedetta sorrise. Non rispose. Si recò nello studio da Giorgio. Lui era già lì, col quaderno già aperto, illuminato dalla luce bianca dalla finestra. Nel complesso, era un ragazzo tranquillo, che andava bene a scuola. Aveva soltanto difficoltà in inglese.
Benedetta si sedette di fronte. Prese dallo zaino un vecchio iPod e le cuffie e cominciò ad ascoltare la colonna sonora di Barry Lyndon.
«Vuoi vedere il libro?» chiese Giorgio. «Stiamo facendo la parte sul cyberbullismo.»
Benedetta sorrise. Tolse le cuffie. Rispose, in perfetto inglese:
«Non capisco cosa stai dicendo.»
Giorgio si spazientì un poco. Anche il suo professore voleva che parlassero sempre in inglese. Ma, come poteva parlarlo, se prima nessuno glielo insegnava a dovere?
Provò a mettere insieme qualche parola, ma la suo conoscenza del vocabolario era povera e la grammatica era carente. Ricordò che la madre gli aveva detto che Benedetta era “speciale.” Di sforzarsi un poco, per farsi capire.
«L’esercizio. Fare l’esercizio.»
«Molto bene» rispose Benedetta, sempre in inglese. «A che pagina?»
Giorgio capì che voleva vedere il libro. Glielo mostrò. Benedetta lesse l’esercizio con perfetta pronuncia.
«Uao» fece Giorgio, in italiano. «Tu sai veramente bene l’inglese. Anche meglio del mio professore, forse.»
«Non capisco quello che stai dicendo» rispose Benedetta.
«Fa niente. Facciamo che svolgo l’esercizio e poi me lo correggi.»
Benedetta sorrise, ma era chiaro che ormai non capiva appieno quando qualcuno le parlava in italiano. Ricominciò ad ascoltare la musica.
«Non è male» disse Giorgio, mentre lavorava. «La musica che ascolti. La sento, dalla cuffie. Forse è a volume troppo alto. Lo dico per le tue orecchie.»
Benedetta sorrise.
Giorgio finì il compito. Glielo consegnò. Disse:
«Ora mi fai sentire la musica?»
«Io non capisco quello che hai…»
Giorgio riprovò in inglese.
«Ehm. La musica. Ascoltare?»
Benedetta sorrise. Gli passò le cuffie e l’iPod.
«Schubert…» lesse il ragazzo, istantaneamente rapito dal secondo movimento del secondo trio per pianoforte. Benedetta correre il compito con una penna rossa.
«Qui dice che hai ascoltato questa musica duecentosessantotto volte…» disse Giorgio, leggendo sul vecchio schermino dell’iPod. Notò anche che era l’unico album contenuto nell’intero archivio.
Alle cinque, puntuale, arrivò la madre col tè e i biscotti. Benedetta aveva appena finito di correggere il compito. Il figlio si avvicinò alla madre e le disse qualcosa nell’orecchio. La donna sorrise.
«Nessun problema» rispose. Gli diede la carta di credito.
Mentre Benedetta mangiava i biscotti e beveva il tè, Giorgio andò al computer del padre, sullo store di musica, e collegò l’iPod. Quindi, lo restituì a Benedetta.
«Un regalo.»
«Please?»
«A gift» disse Giorgio, molto contento d’aver ricordato subito la parola inglese per “regalo.” Benedetta gli riconsegnò il suo esercizio corretto. Il ragazzo si mise le mani fra i capelli. Aveva sbagliato quasi tutto. Come sarebbe mai arrivato alla perfetta conoscenza che Benedetta aveva della lingua inglese? Mai l’obiettivo gli era sembrato più distante.
«Ti ho regalato un album di Schubert» disse, sempre abbastanza sconsolato. «Pensavo che forse avevi voglia di cambiare. Un poco, non tanto.»
«Non capisco quello che stai dicendo» rispose, in inglese, l’insegnante di ripetizioni.
«Fa niente» risponde Giorgio, sospirando, vedendo il suo compito, pensando a quanto aveva ancora da imparare, prima di giungere a una buona padronanza.
Il tè si raffreddava nelle tazze e la luce della finestra era diventata gialla, come accade a una certa ora della sera, e illuminava e ombreggiava il volto spigoloso della ragazza, sottolineando uno stato d’animo d’irrequietezza che forse Giorgio riusciva a comprendere. Anche lui, a volte, provava quel suo stesso desiderio di perfezione. Così umano, così fragile.
Schubert, Trio n.2, op.100, andante con moto
https://www.youtube.com/watch?v=nioKJNp8ADE