L'uomo di sabbia
Posted: Sat Jan 22, 2022 11:50 am
Commento a "Il picnic" di Pale Star
Mamma ci aveva lasciato presto, perciò papà mandava avanti la famiglia da solo. Poiché non voleva farci mancare niente, aveva due lavori. Oltre a insegnare scienze al mattino, nel pomeriggio correggeva bozze per una casa editrice di testi scientifici e scolastici. Si rilassava un po’ solo nel fine settimana, chiuso nello studio. Nonostante ormai tutti ascoltino la musica su internet, lui era uno di quei fissati con un giradischi e un hi-fi di qualità. Gli piaceva comprare vinili di musica su internet. Aveva un gusto musicale molto raffinato. Dallo studio, quando la ascoltava con la porta aperta, si sentiva musica classica, jazz, world music. Restava lì fino a tarda sera, alternativamente lavorando e ascoltando musica, e dormiva poco, aveva sempre segni sotto gli occhi. Anche noi restavamo svegli, finché era in piedi lui, giocando in stanza o semplicemente guardando video alla luce azzurra del televisore. In casa, da quando la mamma se n’era andata, non si dormiva molto, come se ci aspettassimo che, da un momento all’altro, lei tornasse.
Zia Eudora si vedeva di rado, il che era un peccato, perché era uno spasso. Non si era mai sposata. Era intendimento comune, in famiglia, che fosse innamorata senza speranze del professore universitario di cui era l’eterna assistente, al dipartimento di archeologia. Quando veniva era sempre piena di racconti e di ninnoli che venivano da ogni parte del mondo.
Poi ci fu quella volta che ci regalò l’uomo di sabbia.
Non era fatto esattamente di sabbia: era una bambola molto grande, alta grossomodo quanto mia sorella (un po’ più bassa di me), realizzato in canapa, vimini e garza. Aveva, al posto degli occhi, due bottoni di azzurro color del topazio, ma erano sicuramente pietre semipreziose, e un naso a tubo arancione, sottolineato da un inquietante sorriso dello stesso colore. Aveva un foro sulla cima della testa.
«Da dove viene l’uomo di sabbia?»
«L’ho trovato in un mercatino in Danimarca. Se le mie informazione sono corrette, e di solito lo sono, qui andrebbe versata la sabbia…» disse la zia, mentre ci presentava il nuovo giocattolo — ammesso che fosse tale.
«La sabbia?»
Papà, nel frattempo, con fare scettico, preparava del caffè, del latte e dei biscotti per la zia, che si sarebbe fermata per un giorno e mezzo, prima di ripartire per l’Africa centrale, dove cercava, insieme al suo capo, l’anello di congiunzione fra la scimmia e l’uomo. Con un uomo della cultura scientifica di nostro padre, sapevamo già tutto su questo genere di cose, anche se ancora dovevamo studiarle a scuola.
«Qui si versa la sabbia» spiegò. «Va a sabbia.»
«Che intendi dire?» chiedevamo noi, che non eravamo più nella pelle.
«Va a sabbia. Così mi dicono le mie ricerche. Quando l’ho preso ho pensato subito a voi» rispose zia Eudora.
Che intendeva dire, con “va a sabbia”? Cosa sarebbe successo, se lo avessimo caricato? Avrebbe cominciato a muoversi? A parlare? Sarebbe stato un amico, o una minaccia? Aveva un aspetto vagamente minaccioso, con quell’eterno ghigno sul viso.
«Questo lo porto direttamente in garage…» disse papà. «Altrimenti i bambini non dormiranno la notte al pensiero di lui che si aggira per casa.»
Già non dormivamo di nostro, in effetti, anche se papà non se ne accorgeva.
«Non siamo più bambini» protestò mia sorella, più bassa di me, ma più grande. Lei andava già alle scuole medie, cominciava a volersi considerare come un’adulta.
«No, certo…» disse zia Eudora, sorridendo stancamente. La zia era molto bella, ma cominciava ad avere rughe attorno alla bocca, sulla fonte. Papà la rimproverava perché non si decideva a sposarsi, nonostante avesse ancora una fila di corteggiatori, mentre lei lo rimproverava perché era rimasto solo, dopo che la mamma se n’era andata. Erano molto uniti, nel complesso.
Zia Eudora il giorno dopo ci portò in città. Andammo al museo di scienze naturali, al cinema, a mangiare un gelato, mentre papà, che in teoria doveva approfittare per riposarsi, probabilmente stava correggendo dei compiti o editando un libro, bevendo troppo caffè e facendo tutta quella serie di errori che fanno gli scapoli o, nel suo caso, i vedovi, quando rimangono soli troppo a lungo.
«Troverai l’anello mancante?» le chiedemmo, quando accompagnammo la zia in aeroporto.
«Ne dubito. Ma faremo qualche passo in avanti. La scienza è un’impresa collettiva» ci spiegò, mentre papà guidava sulla strada provinciale.
Al ritorno, chiedemmo a papà se potessimo fermarci a vedere l’oasi naturale di Torre Guaceto. Non c’importava tanto di vedere gli animali, ma volevamo farci una riserva di sabbia per caricare lo strano pupazzo che ci aveva regalato la zia. Non vedevamo l’ora di vedere come funzionasse.
«È da ieri che state in giro. Non siete stanchi?»
«Neppure un po’.»
«Torre Guaceto. Prima o poi, dovevo portarvi. So che bisogna prenotare. Cercate il numero su internet.»
Dettammo il numero a nostro padre, che chiamò alla riserva col cellulare connesso col bluetooth dell’auto. Fummo fortunati, si erano appena liberati due posti per uno dei tour guidati con il naturalista. Eravamo in tre, ma ci dissero che andava bene uguale.
Il giro durava circa tre ore. Vedemmo la fauna della riserva, restando affascinati in particolare dalle grandi tartarughe e dagli uccelli, che non erano come quelli che vedevamo in città. Però non ci scordammo del nostro compito principale. Di nascosto, riempimmo le tasche delle giacche e gli zainetti, che c’eravamo portati per quel compito, con la sabbia bianca della riserva — operazione forse illegale, ma eravamo bambini, non badavamo a ciò. Papà era sempre affascinato da quel genere di esperienze. Penso il suo amore per la natura fosse sconfinato. Era più prudente di zia Eudora. Non aveva mai tentato la difficile strada della carriera accademica. Forse, se la mamma non fosse mancata tanto presto, avrebbe provato, ma doveva occuparsi di noi.
Papà era un signore elegante, tanto giovane. Trentasei anni, bei capelli biondo cenere, un viso onesto. Sicuramente sono parziale, nei suoi riguardi, perché era mio padre, ma a me è sempre sembrato una bravissima persona. Un sognatore, a suo modo.
Tornammo perciò a casa, carichi di sabbia. Papà non aveva ancora attuato la sua minaccia, di portare l’uomo di sabbia in garage, perciò, per il momento, restava la sua presenza inquietante nella nostra stanza.
Appena fummo soli, versammo la sabbia nel foro sulla sua testa e aspettammo. Naturalmente, non successe niente. Ci sentimmo sciocchi. Quella sera ci mettemmo a letto, stanchissimi. Non riuscimmo, come al solito, a guardare il televisore o fare sciocchezze al cellulare. Le nostre palpebre s’appesantirono di colpo e sprofondammo in un sonno profondo.
Ci svegliammo il giorno dopo, perfettamente riposati e perfino vogliosi di affrontare un lunedì. A scuola eravamo ancora a metà dell’anno, un anno particolarmente faticoso per mia sorella che adesso era alle medie. C’alzammo da soli e ci vestimmo di tutto punto, quindi andammo in cucina per la colazione, ma, stranamente, non era in tavola. Poiché ci tenevamo a diventare subito indipendenti, decidemmo di prepararla da soli. Latte bollito per noi, caffè per papà, feste di pane tostato (in famiglia ne eravamo appassionati, e poi era un modo per non gettare il pane raffermo) con burro e marmellata.
Dov’era, nostro padre?
Non era nella sua stanza da letto. Andammo nello studio. Era steso sul divano, con un libro aperto sul petto, che dormiva profondamente-
Voglio essere chiaro: l’uomo di sabbia non fece miracoli. Non arrivò, per noi, una nuova madre. Una forza misteriosa avrebbe sempre tenuto papà legato alla mamma. Però le informazioni della zia erano esatte. Era vero che l’uomo di sabbia, una volta caricato, funzionava. Da quel giorno, in casa, ritrovammo almeno il sonno.
Vedi anche:
L’uomo di sabbia (Hans Christian Andersen), favola in inglese all’indirizzo https://www.hcandersen-homepage.dk/?page_id=1940
L’uomo della sabbia (E.T.A. Hoffman), riassunto all’indirizzo https://it.wikipedia.org/wiki/L%27uomo_della_sabbia
Mamma ci aveva lasciato presto, perciò papà mandava avanti la famiglia da solo. Poiché non voleva farci mancare niente, aveva due lavori. Oltre a insegnare scienze al mattino, nel pomeriggio correggeva bozze per una casa editrice di testi scientifici e scolastici. Si rilassava un po’ solo nel fine settimana, chiuso nello studio. Nonostante ormai tutti ascoltino la musica su internet, lui era uno di quei fissati con un giradischi e un hi-fi di qualità. Gli piaceva comprare vinili di musica su internet. Aveva un gusto musicale molto raffinato. Dallo studio, quando la ascoltava con la porta aperta, si sentiva musica classica, jazz, world music. Restava lì fino a tarda sera, alternativamente lavorando e ascoltando musica, e dormiva poco, aveva sempre segni sotto gli occhi. Anche noi restavamo svegli, finché era in piedi lui, giocando in stanza o semplicemente guardando video alla luce azzurra del televisore. In casa, da quando la mamma se n’era andata, non si dormiva molto, come se ci aspettassimo che, da un momento all’altro, lei tornasse.
Zia Eudora si vedeva di rado, il che era un peccato, perché era uno spasso. Non si era mai sposata. Era intendimento comune, in famiglia, che fosse innamorata senza speranze del professore universitario di cui era l’eterna assistente, al dipartimento di archeologia. Quando veniva era sempre piena di racconti e di ninnoli che venivano da ogni parte del mondo.
Poi ci fu quella volta che ci regalò l’uomo di sabbia.
Non era fatto esattamente di sabbia: era una bambola molto grande, alta grossomodo quanto mia sorella (un po’ più bassa di me), realizzato in canapa, vimini e garza. Aveva, al posto degli occhi, due bottoni di azzurro color del topazio, ma erano sicuramente pietre semipreziose, e un naso a tubo arancione, sottolineato da un inquietante sorriso dello stesso colore. Aveva un foro sulla cima della testa.
«Da dove viene l’uomo di sabbia?»
«L’ho trovato in un mercatino in Danimarca. Se le mie informazione sono corrette, e di solito lo sono, qui andrebbe versata la sabbia…» disse la zia, mentre ci presentava il nuovo giocattolo — ammesso che fosse tale.
«La sabbia?»
Papà, nel frattempo, con fare scettico, preparava del caffè, del latte e dei biscotti per la zia, che si sarebbe fermata per un giorno e mezzo, prima di ripartire per l’Africa centrale, dove cercava, insieme al suo capo, l’anello di congiunzione fra la scimmia e l’uomo. Con un uomo della cultura scientifica di nostro padre, sapevamo già tutto su questo genere di cose, anche se ancora dovevamo studiarle a scuola.
«Qui si versa la sabbia» spiegò. «Va a sabbia.»
«Che intendi dire?» chiedevamo noi, che non eravamo più nella pelle.
«Va a sabbia. Così mi dicono le mie ricerche. Quando l’ho preso ho pensato subito a voi» rispose zia Eudora.
Che intendeva dire, con “va a sabbia”? Cosa sarebbe successo, se lo avessimo caricato? Avrebbe cominciato a muoversi? A parlare? Sarebbe stato un amico, o una minaccia? Aveva un aspetto vagamente minaccioso, con quell’eterno ghigno sul viso.
«Questo lo porto direttamente in garage…» disse papà. «Altrimenti i bambini non dormiranno la notte al pensiero di lui che si aggira per casa.»
Già non dormivamo di nostro, in effetti, anche se papà non se ne accorgeva.
«Non siamo più bambini» protestò mia sorella, più bassa di me, ma più grande. Lei andava già alle scuole medie, cominciava a volersi considerare come un’adulta.
«No, certo…» disse zia Eudora, sorridendo stancamente. La zia era molto bella, ma cominciava ad avere rughe attorno alla bocca, sulla fonte. Papà la rimproverava perché non si decideva a sposarsi, nonostante avesse ancora una fila di corteggiatori, mentre lei lo rimproverava perché era rimasto solo, dopo che la mamma se n’era andata. Erano molto uniti, nel complesso.
Zia Eudora il giorno dopo ci portò in città. Andammo al museo di scienze naturali, al cinema, a mangiare un gelato, mentre papà, che in teoria doveva approfittare per riposarsi, probabilmente stava correggendo dei compiti o editando un libro, bevendo troppo caffè e facendo tutta quella serie di errori che fanno gli scapoli o, nel suo caso, i vedovi, quando rimangono soli troppo a lungo.
«Troverai l’anello mancante?» le chiedemmo, quando accompagnammo la zia in aeroporto.
«Ne dubito. Ma faremo qualche passo in avanti. La scienza è un’impresa collettiva» ci spiegò, mentre papà guidava sulla strada provinciale.
Al ritorno, chiedemmo a papà se potessimo fermarci a vedere l’oasi naturale di Torre Guaceto. Non c’importava tanto di vedere gli animali, ma volevamo farci una riserva di sabbia per caricare lo strano pupazzo che ci aveva regalato la zia. Non vedevamo l’ora di vedere come funzionasse.
«È da ieri che state in giro. Non siete stanchi?»
«Neppure un po’.»
«Torre Guaceto. Prima o poi, dovevo portarvi. So che bisogna prenotare. Cercate il numero su internet.»
Dettammo il numero a nostro padre, che chiamò alla riserva col cellulare connesso col bluetooth dell’auto. Fummo fortunati, si erano appena liberati due posti per uno dei tour guidati con il naturalista. Eravamo in tre, ma ci dissero che andava bene uguale.
Il giro durava circa tre ore. Vedemmo la fauna della riserva, restando affascinati in particolare dalle grandi tartarughe e dagli uccelli, che non erano come quelli che vedevamo in città. Però non ci scordammo del nostro compito principale. Di nascosto, riempimmo le tasche delle giacche e gli zainetti, che c’eravamo portati per quel compito, con la sabbia bianca della riserva — operazione forse illegale, ma eravamo bambini, non badavamo a ciò. Papà era sempre affascinato da quel genere di esperienze. Penso il suo amore per la natura fosse sconfinato. Era più prudente di zia Eudora. Non aveva mai tentato la difficile strada della carriera accademica. Forse, se la mamma non fosse mancata tanto presto, avrebbe provato, ma doveva occuparsi di noi.
Papà era un signore elegante, tanto giovane. Trentasei anni, bei capelli biondo cenere, un viso onesto. Sicuramente sono parziale, nei suoi riguardi, perché era mio padre, ma a me è sempre sembrato una bravissima persona. Un sognatore, a suo modo.
Tornammo perciò a casa, carichi di sabbia. Papà non aveva ancora attuato la sua minaccia, di portare l’uomo di sabbia in garage, perciò, per il momento, restava la sua presenza inquietante nella nostra stanza.
Appena fummo soli, versammo la sabbia nel foro sulla sua testa e aspettammo. Naturalmente, non successe niente. Ci sentimmo sciocchi. Quella sera ci mettemmo a letto, stanchissimi. Non riuscimmo, come al solito, a guardare il televisore o fare sciocchezze al cellulare. Le nostre palpebre s’appesantirono di colpo e sprofondammo in un sonno profondo.
Ci svegliammo il giorno dopo, perfettamente riposati e perfino vogliosi di affrontare un lunedì. A scuola eravamo ancora a metà dell’anno, un anno particolarmente faticoso per mia sorella che adesso era alle medie. C’alzammo da soli e ci vestimmo di tutto punto, quindi andammo in cucina per la colazione, ma, stranamente, non era in tavola. Poiché ci tenevamo a diventare subito indipendenti, decidemmo di prepararla da soli. Latte bollito per noi, caffè per papà, feste di pane tostato (in famiglia ne eravamo appassionati, e poi era un modo per non gettare il pane raffermo) con burro e marmellata.
Dov’era, nostro padre?
Non era nella sua stanza da letto. Andammo nello studio. Era steso sul divano, con un libro aperto sul petto, che dormiva profondamente-
Voglio essere chiaro: l’uomo di sabbia non fece miracoli. Non arrivò, per noi, una nuova madre. Una forza misteriosa avrebbe sempre tenuto papà legato alla mamma. Però le informazioni della zia erano esatte. Era vero che l’uomo di sabbia, una volta caricato, funzionava. Da quel giorno, in casa, ritrovammo almeno il sonno.
Vedi anche:
L’uomo di sabbia (Hans Christian Andersen), favola in inglese all’indirizzo https://www.hcandersen-homepage.dk/?page_id=1940
L’uomo della sabbia (E.T.A. Hoffman), riassunto all’indirizzo https://it.wikipedia.org/wiki/L%27uomo_della_sabbia