La rosa invisibile
Posted: Sat Jan 08, 2022 1:53 pm
Commento a "La poesia cura" di Irene
Buenos Aires, 1963. Joachim St.Thomas fu convocato nell’ufficio del responsabile del dipartimento di letterature comparate. Era quasi certo che si sarebbe preso un rimprovero perché, nella sua eterna indecisione, non aveva ancora presentato la proposta di ricerca per il dottorato.
«Lei è di madrelingua inglese, vero?» chiese invece il responsabile, dietro i pesanti occhiali neri.
«Mio padre è inglese.»
«Sì, ma il suo livello d’inglese è da madrelingua.»
«Sì.»
«Domani si presenti alla biblioteca nazionale di Buenos Aires. Ho un amico non vedente che ha bisogno della sua assistenza. Faccia il mio nome alla reception».
«Assistenza?»
«Le sto proponendo un lavoro. Lei vive ancora coi suoi genitori, vero?»
“Con la borsa di studio che mi passate…” stava per rispondere Joachim, ma si fermò.
«Un lavoretto per arrotondare non sarebbe male.»
«Bene. Vada.»
Prima di tornare a casa, si fermò alla biblioteca del dipartimento per prelevare un libro di poesie di Melville (noto ai più come autore di Moby Dick). Era quasi certo che avrebbe fatto la tesi su di lui.
Il grande viale alberato che conduceva alla biblioteca nazionale si stava spogliando delle sue foglie gialle, che volavano nel vento formando correnti gradevoli e leggiadre. Lì per lì non ci fece caso.
La receptionist della biblioteca lo mandò all’ultimo piano, ufficio in fondo. Joachim si chiedeva chi fosse quest’amico del capo del suo dipartimento in cerca d’assistenza. Bussò, ma non rispose. Si sedette fuori dall’ufficio col suo libro di poesie di Melville e cominciò a compulsarlo.
Un uomo alto, magro ed elegante uscì dall’ufficio. Si chiese se fosse la persona con cui doveva lavorare, ma era evidentemente dotato di vista, perché disse:
«Le poesie di Melville?»
«Per la mia tesi di dottorato.»
«Ne parli a Jorge, sarà contento di aiutarla. Non si spaventi, è la persona più civile che ci sia al mondo.»
Il ragazzo si chiese perché dovesse spaventarsi…
Nel suo ufficio, un uomo era seduto in penombra. Sulle gambe aveva un grosso libro giallo che sfogliava lentamente.
«Ormai lo faccio solo per abitudine» spiegò. «Sia gentile, prenda il libro nero che sta sulla sedia di fronte alla scrivania, si sieda, e cominci a leggere.»
«Va bene.»
Joachim prese il libro. Disse.
«Nella stanza non c’è luce.»
«No, certo. Apra la tenda.»
Joachim eseguì. Una bellissima veduta di Buenos Aires dall’ultimo piano del grande edificio.
Iniziò a leggere. Erano poesie di John Milton (un poeta cieco, noto ai più come autore di Paradiso perduto.)
Joachim andò avanti per circa un’ora e mezza. Quindi l’uomo gli disse di fermarsi e di prendere il magnetofono che era da qualche parte per la stanza e di porlo sulla scrivania. Cominciò a dettare degli appunti sulle poesie che Joachim aveva appena lette. Quando finì, l’uomo disse:
«Lei sta conseguendo il suo dottorato.»
«Sì.»
«Su cosa sta ricercando?»
«Le poesie di Melville. Credo.»
«Crede, o ne è sicuro?»
«Penso di sì.»
«Bene. Ora mi dica com’è il tempo fuori. Sia onesto. Bioy dice sempre che è terribile, ma non può essere terribile ogni giorno.»
«È una bellissima giornata d’autunno. È piacevole camminare nella brezza.»
«Lo sospettavo. Lei legge bene Milton. Può tornare domani?»
«Ne sarei onorato.»
«Perché?»
«Insomma, lei è…»
«Un umile poeta minore. Non si scomponga. Venga domani. Dirò alla mia segretaria di farle trovare del materiale su Melville.»
«Grazie.»
«Buona giornata» concluse seccamente l’uomo, e ricominciò a sfogliare il libro che aveva in grembo, quello che non poteva leggere perché, da qualche anno, era completamente cieco.
Isabella era molto piacevole da guardare. Un volto pieno, bei occhi lucenti, una fantastica corona di capelli neri tagliati corti. Ogni tanto pensava di farle delle avances, ma non voleva rovinare la sua amicizia. Era l’unica donna (fra quelle che conosceva) che avesse un profondo intendimento della letteratura.
«Com’è andata la giornata?»
«Sono stato alla biblioteca nazionale.»
«Nulla di nuovo.»
«Insomma. Sono stato ai piani alti.»
«Che intendi dire?»
«Intendo dire che sono stato dal direttore.»
La ragazza rise e cominciò a tempestarlo con pallottole di pane. Il cameriere servì loro baccalà fritto e polpette al sugo. Erano seduti al tavolo di un bistrot economico, per studenti.
«Vuoi dire che sei stato ricevuto dal direttore della biblioteca nazionale argentina?»
«Sì.»
«Vuoi dire, in altri termini, che sei stato ricevuto dal maggiore poeta argentino vivente?»
«Secondo alcuni. A mio parere…»
«Vuoi dire che… aspetta, non stai scherzando. Si vede quando menti. Sei stato veramente da Borges?»
Joachim spiegò all’amica tutta la situazione. Lei era di gran lunga una maggiore ammiratrice dell’opera del poeta argentino rispetto al suo amico. Il suo volto s’arrossò d’invidia. Chiese:
«Com’è?»
«Estremamente civile.»
«Ti odio. Stasera paghi tu il conto.»
«Beh, dal momento che ho un nuovo lavoro…»
Isabella ricominciò a colpirlo con una tempesta di molliche di pane.
Il giorno dopo, si presentò puntuale all’ufficio di Borges, alle dieci del mattino. Quel giorno Bioy (che non poteva non essere Bioy Casares, stretto collaboratore del poeta e, a sua volta, scrittore di fama) non c’era. Le tende erano aperte. Borges aveva già con sé il magnetofono.
«Si sieda. Ricominci da dove s’era interrotto ieri.»
«Certo.»
Quella volta, Borges lo fermò quasi subito.
«Sento una gran nuvola in tesa. Credo che dovrò comporre una poesia. Le spiace lasciarmi la mia privacy?»
«Certo.»
«Aspetti fuori.»
Joachim uscì dalla stanza, confuso. Rimase ad attendere per circa due ore, quindi Borges s’affacciò alla porta per richiamarlo. Si sedettero di nuovo uno di fronte all’altro.
«La mia segretaria ha il materiale su Melville di cui le parlavo ieri. L’ho selezionato personalmente.»
«Lei è gentile. So che il suo tempo è prezioso.»
«Lei leggi bene Milton, ma per ora ho concluso.»
«Capisco.»
«Buona giornata.»
Qualche mese dopo, erano in primavera, Joachim, mentre prendeva una scorciatoia per evitare il capo del suo dipartimento (non aveva ancora avanzato la sua proposta di tesi) sentì qualcosa inseguirlo e percuoterlo in testa con un libro.
«È uscito» disse Isabella, prendendolo sottobraccio.
«Non capisco.»
Gli mostrò L’altro, lo stesso. L’ultimo libro di poesie di Borges.
«Ti confesso che non è fra i miei preferiti.»
«Perché non hai gusto. Sediamoci a un bar, te ne leggo una.»
Una scusa per rinviare una visita al dipartimento. Perché no.
Ordinarono due caffè ai tavolini di ferro battuto.
Isabella, felice, sfogliò il libro e lesse:
«Una rosa a Milton.
Delle generazioni delle rose
che nel fondo del tempo si sono perdute
voglio che una si salvi dall’oblio,
una senza marchio o segno tra le cose
che furono. Il destino mi concede
questo dono di nominare per la prima volta
quel fiore silenzioso, l’ultima
rosa che Milton avvicinò al suo viso,
senza vederla. Oh tu, vermiglia e gialla
o bianca rosa di un giardino cancellato,
lascia magicamente il tuo passato
immemorabile e in questi versi brilla,
oro, sangue o avorio e tenebrosa
come nelle sue mani, invisibile rosa.*»
Isabella si fermò, rossa in viso, estasiata.
«Che pensi?» chiese a Joachim.
«Milton era cieco, come lui.»
«Sì.»
Si sentiva scosso. La cameriera arrivò coi caffè, ma lui ignorò il suo.
«Penso che descriva… l’ultima rosa che ha visto» concluse, semplicemente, mentre affiorava qualche lacrima. Pensava di non essere un sentimentale.
* Traduzione di Livia Bacchi Wilcock, in Poesie di Jorge Luis Borges, BUR.
Buenos Aires, 1963. Joachim St.Thomas fu convocato nell’ufficio del responsabile del dipartimento di letterature comparate. Era quasi certo che si sarebbe preso un rimprovero perché, nella sua eterna indecisione, non aveva ancora presentato la proposta di ricerca per il dottorato.
«Lei è di madrelingua inglese, vero?» chiese invece il responsabile, dietro i pesanti occhiali neri.
«Mio padre è inglese.»
«Sì, ma il suo livello d’inglese è da madrelingua.»
«Sì.»
«Domani si presenti alla biblioteca nazionale di Buenos Aires. Ho un amico non vedente che ha bisogno della sua assistenza. Faccia il mio nome alla reception».
«Assistenza?»
«Le sto proponendo un lavoro. Lei vive ancora coi suoi genitori, vero?»
“Con la borsa di studio che mi passate…” stava per rispondere Joachim, ma si fermò.
«Un lavoretto per arrotondare non sarebbe male.»
«Bene. Vada.»
Prima di tornare a casa, si fermò alla biblioteca del dipartimento per prelevare un libro di poesie di Melville (noto ai più come autore di Moby Dick). Era quasi certo che avrebbe fatto la tesi su di lui.
Il grande viale alberato che conduceva alla biblioteca nazionale si stava spogliando delle sue foglie gialle, che volavano nel vento formando correnti gradevoli e leggiadre. Lì per lì non ci fece caso.
La receptionist della biblioteca lo mandò all’ultimo piano, ufficio in fondo. Joachim si chiedeva chi fosse quest’amico del capo del suo dipartimento in cerca d’assistenza. Bussò, ma non rispose. Si sedette fuori dall’ufficio col suo libro di poesie di Melville e cominciò a compulsarlo.
Un uomo alto, magro ed elegante uscì dall’ufficio. Si chiese se fosse la persona con cui doveva lavorare, ma era evidentemente dotato di vista, perché disse:
«Le poesie di Melville?»
«Per la mia tesi di dottorato.»
«Ne parli a Jorge, sarà contento di aiutarla. Non si spaventi, è la persona più civile che ci sia al mondo.»
Il ragazzo si chiese perché dovesse spaventarsi…
Nel suo ufficio, un uomo era seduto in penombra. Sulle gambe aveva un grosso libro giallo che sfogliava lentamente.
«Ormai lo faccio solo per abitudine» spiegò. «Sia gentile, prenda il libro nero che sta sulla sedia di fronte alla scrivania, si sieda, e cominci a leggere.»
«Va bene.»
Joachim prese il libro. Disse.
«Nella stanza non c’è luce.»
«No, certo. Apra la tenda.»
Joachim eseguì. Una bellissima veduta di Buenos Aires dall’ultimo piano del grande edificio.
Iniziò a leggere. Erano poesie di John Milton (un poeta cieco, noto ai più come autore di Paradiso perduto.)
Joachim andò avanti per circa un’ora e mezza. Quindi l’uomo gli disse di fermarsi e di prendere il magnetofono che era da qualche parte per la stanza e di porlo sulla scrivania. Cominciò a dettare degli appunti sulle poesie che Joachim aveva appena lette. Quando finì, l’uomo disse:
«Lei sta conseguendo il suo dottorato.»
«Sì.»
«Su cosa sta ricercando?»
«Le poesie di Melville. Credo.»
«Crede, o ne è sicuro?»
«Penso di sì.»
«Bene. Ora mi dica com’è il tempo fuori. Sia onesto. Bioy dice sempre che è terribile, ma non può essere terribile ogni giorno.»
«È una bellissima giornata d’autunno. È piacevole camminare nella brezza.»
«Lo sospettavo. Lei legge bene Milton. Può tornare domani?»
«Ne sarei onorato.»
«Perché?»
«Insomma, lei è…»
«Un umile poeta minore. Non si scomponga. Venga domani. Dirò alla mia segretaria di farle trovare del materiale su Melville.»
«Grazie.»
«Buona giornata» concluse seccamente l’uomo, e ricominciò a sfogliare il libro che aveva in grembo, quello che non poteva leggere perché, da qualche anno, era completamente cieco.
Isabella era molto piacevole da guardare. Un volto pieno, bei occhi lucenti, una fantastica corona di capelli neri tagliati corti. Ogni tanto pensava di farle delle avances, ma non voleva rovinare la sua amicizia. Era l’unica donna (fra quelle che conosceva) che avesse un profondo intendimento della letteratura.
«Com’è andata la giornata?»
«Sono stato alla biblioteca nazionale.»
«Nulla di nuovo.»
«Insomma. Sono stato ai piani alti.»
«Che intendi dire?»
«Intendo dire che sono stato dal direttore.»
La ragazza rise e cominciò a tempestarlo con pallottole di pane. Il cameriere servì loro baccalà fritto e polpette al sugo. Erano seduti al tavolo di un bistrot economico, per studenti.
«Vuoi dire che sei stato ricevuto dal direttore della biblioteca nazionale argentina?»
«Sì.»
«Vuoi dire, in altri termini, che sei stato ricevuto dal maggiore poeta argentino vivente?»
«Secondo alcuni. A mio parere…»
«Vuoi dire che… aspetta, non stai scherzando. Si vede quando menti. Sei stato veramente da Borges?»
Joachim spiegò all’amica tutta la situazione. Lei era di gran lunga una maggiore ammiratrice dell’opera del poeta argentino rispetto al suo amico. Il suo volto s’arrossò d’invidia. Chiese:
«Com’è?»
«Estremamente civile.»
«Ti odio. Stasera paghi tu il conto.»
«Beh, dal momento che ho un nuovo lavoro…»
Isabella ricominciò a colpirlo con una tempesta di molliche di pane.
Il giorno dopo, si presentò puntuale all’ufficio di Borges, alle dieci del mattino. Quel giorno Bioy (che non poteva non essere Bioy Casares, stretto collaboratore del poeta e, a sua volta, scrittore di fama) non c’era. Le tende erano aperte. Borges aveva già con sé il magnetofono.
«Si sieda. Ricominci da dove s’era interrotto ieri.»
«Certo.»
Quella volta, Borges lo fermò quasi subito.
«Sento una gran nuvola in tesa. Credo che dovrò comporre una poesia. Le spiace lasciarmi la mia privacy?»
«Certo.»
«Aspetti fuori.»
Joachim uscì dalla stanza, confuso. Rimase ad attendere per circa due ore, quindi Borges s’affacciò alla porta per richiamarlo. Si sedettero di nuovo uno di fronte all’altro.
«La mia segretaria ha il materiale su Melville di cui le parlavo ieri. L’ho selezionato personalmente.»
«Lei è gentile. So che il suo tempo è prezioso.»
«Lei leggi bene Milton, ma per ora ho concluso.»
«Capisco.»
«Buona giornata.»
Qualche mese dopo, erano in primavera, Joachim, mentre prendeva una scorciatoia per evitare il capo del suo dipartimento (non aveva ancora avanzato la sua proposta di tesi) sentì qualcosa inseguirlo e percuoterlo in testa con un libro.
«È uscito» disse Isabella, prendendolo sottobraccio.
«Non capisco.»
Gli mostrò L’altro, lo stesso. L’ultimo libro di poesie di Borges.
«Ti confesso che non è fra i miei preferiti.»
«Perché non hai gusto. Sediamoci a un bar, te ne leggo una.»
Una scusa per rinviare una visita al dipartimento. Perché no.
Ordinarono due caffè ai tavolini di ferro battuto.
Isabella, felice, sfogliò il libro e lesse:
«Una rosa a Milton.
Delle generazioni delle rose
che nel fondo del tempo si sono perdute
voglio che una si salvi dall’oblio,
una senza marchio o segno tra le cose
che furono. Il destino mi concede
questo dono di nominare per la prima volta
quel fiore silenzioso, l’ultima
rosa che Milton avvicinò al suo viso,
senza vederla. Oh tu, vermiglia e gialla
o bianca rosa di un giardino cancellato,
lascia magicamente il tuo passato
immemorabile e in questi versi brilla,
oro, sangue o avorio e tenebrosa
come nelle sue mani, invisibile rosa.*»
Isabella si fermò, rossa in viso, estasiata.
«Che pensi?» chiese a Joachim.
«Milton era cieco, come lui.»
«Sì.»
Si sentiva scosso. La cameriera arrivò coi caffè, ma lui ignorò il suo.
«Penso che descriva… l’ultima rosa che ha visto» concluse, semplicemente, mentre affiorava qualche lacrima. Pensava di non essere un sentimentale.
* Traduzione di Livia Bacchi Wilcock, in Poesie di Jorge Luis Borges, BUR.