[MI159] Il prezzo della festa
Posted: Sun Nov 28, 2021 11:53 pm
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Traccia di mezzogiorno: Il debito
L’aria era illuminata da lampi di luce colorata che sussultavano al ritmo della musica, sempre più potente man mano che Sara si avvicinava.
I bassi le facevano vibrare lo stomaco.
Con gambe tremanti, il coltello in tasca e il cuore spaventato, raggiunse il piccolo cancello che conduceva alla festa. Davanti a esso, un ragazzo a un tavolo con bottiglie colme di liquido verde e bicchieri.
Sorridendole, lui ne riempì uno e con gesti precisi, usando uno strano cucchiaino forato, diede fuoco a una zolletta di zucchero che vi aveva posato sopra. Fece colare il fluido bruciato dentro alla bevanda e infine le porse il liquore, dicendo solamente:
-D’un sorso.
Lei obbedì. Aveva un sapore misto tra anice e menta. Strano. Buono.
Lo sentì scendere caldo lungo l’esofago e poi giù nello stomaco. Sprigionò una potente fiammata che le pervase le membra istantaneamente, arrivando a ogni estremità, fino a farle vibrare la pelle. La testa fu di colpo più leggera, inebriata.
Chiese cosa le avesse dato e:
-La fata verde- rispose lui, soffiandole un bacio dal palmo della mano distesa.
Poi la musica la catturò.
Era madida di sudore.
Aveva ballato come un’ossessa per ore.
La musica era parte di lei. Una parte imprescindibile. Estenuante. Martellante.
La fata verde era entrata nel suo corpo a più riprese e sentiva che, oramai, aveva preso il controllo totale.
Dimentica d’ogni cosa, non riusciva a fermarsi. Ballava, ancheggiava, mimava pose provocanti senza averne coscienza. Devastata dalla roboante musica ossessiva, allucinata dall’assenzio. Eccitata per la promiscuità dei corpi accalcati sulla pista.
Era diventata parte integrante della festa. Ne era stata assorbita, annichilita. Godendone come mai in vita sua.
Roteava la testa, muoveva le braccia. Le sue gambe ritmavano un frenetico tributo al dio pagano della musica.
Il cuore pompava con vigore un sangue vivo ed infuocato.
Nella mente risuonava un lungo, inesauribile, sibilo di piacere.
Non ricordava con chi avesse ballato, probabilmente con nessuno. Lei era il ballo. Il suo corpo era il ballo. Disinibito, libero e primitivo.
Nemmeno rammentava perché fosse lì.
Era entrata in un’estasi ancestrale. Come la danzatrice di una qualche tribù che intorno al fuoco cerca il contatto con gli spiriti celesti.
E poi…
Poi la musica cessò.
Cadde un assordante silenzio.
E mentre capiva che il fischio nei suoi timpani era l’assenza di suono, vide gli altri corpi rallentare come in uno slow-motion, lentamente, fino a fermarsi. Così il suo. Così il suo sangue. Così il suo cuore.
Le persone intorno a lei, indipendentemente dall’età, erano sudate e stravolte al suo pari. Tutti respiravano con affanno.
Pochi istanti d’immobilità, finché, silenziosi e senza spiegazione, si misero in una lunga e ordinata fila.
Sara li imitò senza sapere cosa significasse.
Dalle casse sorse una nuova melodia, completamente differente dalla precedente.
Era musica classica, violini. Quieta, sì, ma in realtà la sentì penetrare dentro di sé in una nuova e sconosciuta maniera. Era ancora talmente ricettiva che lo struggente vibrare degli archi si fuse in armonia con lei, facendole risuonare parti del corpo inaspettate. I capezzoli si inturgidirono. Lo stomaco si contrasse di aspettativa.
“Cosa mi succede?” si domandò con il fiato spezzato.
La lunga fila avanzava lentamente.
Da qualche minuto Sara si era costretta a rimanere rigida, con le braccia strette intorno al seno, per provare a contenere la volontà autonoma che il suo corpo stava sviluppando. Quasi incapace di riprendere il controllo della propria mente.
-Sei nuova? Non ti ho vista l’ultima volta- le disse una voce alle sue spalle, distraendola dalla lotta con se stessa.
Si voltò e vide un ometto con un completo verde acceso e camicia rosa. O meglio, viola, per il sudore che aveva bagnato abbondantemente anche la giacca.
Si chiamava Giò, disse, e le dichiarò di essere un agente di modelle, che lei era fantastica e che l’avrebbe portata su, verso le stelle.
Intanto la fila avanzava.
Le disse talmente tante cose, le fece talmente tanti apprezzamenti che la frastornò ancor di più. Tanto che credette di aver frainteso le sue ultime parole.
-Mi scusi?- chiese con la bocca impastata.
L’omino sorrise smagliante, ripetendo:
-Ho detto: se sopravvivremo. No?-
Lei sentì il cuore perdere un battito, mentre la cruda realtà spazzava via l’illusione in cui era fuggita. Adesso ricordava perché si trovasse lì. La ragione di quella festa. La scelta che doveva fare.
Nuovamente percepì il peso del serramanico nella tasca dei jeans.
-Già, bellezza- proseguì l’altro -Siamo tutti qui per la medesima ragione: abbiamo tutti un suo coltello in tasca e tutti gli dobbiamo qualcosa di inestimabile. Soldi, fama, fortuna o chissà cosa. È come questa incredibile festa, puoi goderne sfrenatamente, ma a un certo momento devi renderne conto. E oggi, come ogni lustro, lui vuole il pagamento: dobbiamo decidere se ammazzare una persona e avere il debito cancellato per altri cinque anni, oppure…
-Oppure?
Lui fece spallucce:
-Non lo so, io ho ucciso ogni volta- e il suo sorriso divenne maligno.
Tremante, Sara si voltò, concentrandosi di nuovo sulla fila. Adesso c’erano solo otto persone davanti a lei. Si fermavano alcuni istanti, poi qualcuno andava a sinistra e altri, meno numerosi, a destra. Non capiva.
Tre persone.
Infine, anche l’ultima donna si spostò, lasciando che lo sguardo di Sara scoprisse qualcosa di inaspettato.
Su una poltrona, no, su un trono dall’alto schienale imbottito di pelle rossa, sedeva il loro ospite.
Lei non lo aveva mai visto davvero, prima, ma era l’uomo che possedeva il suo futuro. Colui che le aveva imposto quella condizione e datole il serramanico che pesava nella tasca. A lei come a tutti i presenti.
L’essere con cui era in debito e che l’aveva posta al bivio tra uccidere e perdere ogni cosa.
Indossava un completo di pelle nera, con una camicia grigia scura e portava occhiali da sole nonostante fosse notte. “Come in quel film che piace ai miei: Matrix” pensò.
Solo che là era un energumeno di colore a recitare la parte. Qui, invece, un ometto decisamente sovrappeso, con calvizie e guance paonazze.
“Di persona il diavolo non è granché, in fondo” si trovò a pensare.
Ma toccava a lei, e fu di fronte al trono.
L’uomo allungò le braccia con i pugni chiusi e, dopo un istante, li ruotò. Aprì le mani a palmi in su.
Nella sinistra c’era una pillola rossa, nell’altra, bianca.
I violini raggiunsero un apice parossistico e il corpo di Sara vibrò rispondendo alla musica, cercando di rubarle il controllo. Lei resistette a fatica.
L’uomo parlò con voce ferma e senza accento particolare:
-La pillola rossa, e la festa prosegue: quali ne siano le conseguenze. La pillola bianca, e torni nel mondo dell’illusione. La tua anima sarà salva e il tuo destino segnato. Qual è la tua libera scelta?
Lei inghiottì sonoramente. Si voltò a sinistra, verso una porta scorrevole dietro cui scompariva chi andava da quella parte.
Là si sarebbero compiute le uccisioni, adesso lo sapeva. E se ognuno doveva uccidere un'altra persona, solo la metà di chi entrava sarebbe sopravvissuta. Il cinquanta percento di possibilità di vedere l’alba.
Volse lo sguardo a destra, verso il viottolo dove la gente si allontanava a capo chino. Quale destino li attendeva? Quali conseguenze? Quale percentuale di futuro?
Poteva essere cento quanto zero, non lo sapeva: era l’incertezza della vita.
Ma era poi davvero quello a contare, o piuttosto la forza selvaggia e primordiale che urlava nel suo corpo? La ricchezza che lui le dava o la salvezza dell’anima immortale?
Questo era il bivio, alla fine. No? Chi essere e chi no.
Avere o...
-Quindi?- chiese lui impaziente.
Lei non rispose, invece sussurrò:
-Perché devo scrivere quel che accadrà, se decido di uccidere e sopravvivo?
Ghignò divertito:
-Perché il diavolo esiste grazie alle storie narrate su di lui, no? Sarebbe nulla senza di esse e senza gli uomini che vi credono.
-Ma io non so scrivere bene.
Il sorriso divenne maligno:
-Importa davvero?- sibilò suadente.
Tremando, Sara allungò la mano e scelse...
Traccia di mezzogiorno: Il debito
L’aria era illuminata da lampi di luce colorata che sussultavano al ritmo della musica, sempre più potente man mano che Sara si avvicinava.
I bassi le facevano vibrare lo stomaco.
Con gambe tremanti, il coltello in tasca e il cuore spaventato, raggiunse il piccolo cancello che conduceva alla festa. Davanti a esso, un ragazzo a un tavolo con bottiglie colme di liquido verde e bicchieri.
Sorridendole, lui ne riempì uno e con gesti precisi, usando uno strano cucchiaino forato, diede fuoco a una zolletta di zucchero che vi aveva posato sopra. Fece colare il fluido bruciato dentro alla bevanda e infine le porse il liquore, dicendo solamente:
-D’un sorso.
Lei obbedì. Aveva un sapore misto tra anice e menta. Strano. Buono.
Lo sentì scendere caldo lungo l’esofago e poi giù nello stomaco. Sprigionò una potente fiammata che le pervase le membra istantaneamente, arrivando a ogni estremità, fino a farle vibrare la pelle. La testa fu di colpo più leggera, inebriata.
Chiese cosa le avesse dato e:
-La fata verde- rispose lui, soffiandole un bacio dal palmo della mano distesa.
Poi la musica la catturò.
Era madida di sudore.
Aveva ballato come un’ossessa per ore.
La musica era parte di lei. Una parte imprescindibile. Estenuante. Martellante.
La fata verde era entrata nel suo corpo a più riprese e sentiva che, oramai, aveva preso il controllo totale.
Dimentica d’ogni cosa, non riusciva a fermarsi. Ballava, ancheggiava, mimava pose provocanti senza averne coscienza. Devastata dalla roboante musica ossessiva, allucinata dall’assenzio. Eccitata per la promiscuità dei corpi accalcati sulla pista.
Era diventata parte integrante della festa. Ne era stata assorbita, annichilita. Godendone come mai in vita sua.
Roteava la testa, muoveva le braccia. Le sue gambe ritmavano un frenetico tributo al dio pagano della musica.
Il cuore pompava con vigore un sangue vivo ed infuocato.
Nella mente risuonava un lungo, inesauribile, sibilo di piacere.
Non ricordava con chi avesse ballato, probabilmente con nessuno. Lei era il ballo. Il suo corpo era il ballo. Disinibito, libero e primitivo.
Nemmeno rammentava perché fosse lì.
Era entrata in un’estasi ancestrale. Come la danzatrice di una qualche tribù che intorno al fuoco cerca il contatto con gli spiriti celesti.
E poi…
Poi la musica cessò.
Cadde un assordante silenzio.
E mentre capiva che il fischio nei suoi timpani era l’assenza di suono, vide gli altri corpi rallentare come in uno slow-motion, lentamente, fino a fermarsi. Così il suo. Così il suo sangue. Così il suo cuore.
Le persone intorno a lei, indipendentemente dall’età, erano sudate e stravolte al suo pari. Tutti respiravano con affanno.
Pochi istanti d’immobilità, finché, silenziosi e senza spiegazione, si misero in una lunga e ordinata fila.
Sara li imitò senza sapere cosa significasse.
Dalle casse sorse una nuova melodia, completamente differente dalla precedente.
Era musica classica, violini. Quieta, sì, ma in realtà la sentì penetrare dentro di sé in una nuova e sconosciuta maniera. Era ancora talmente ricettiva che lo struggente vibrare degli archi si fuse in armonia con lei, facendole risuonare parti del corpo inaspettate. I capezzoli si inturgidirono. Lo stomaco si contrasse di aspettativa.
“Cosa mi succede?” si domandò con il fiato spezzato.
La lunga fila avanzava lentamente.
Da qualche minuto Sara si era costretta a rimanere rigida, con le braccia strette intorno al seno, per provare a contenere la volontà autonoma che il suo corpo stava sviluppando. Quasi incapace di riprendere il controllo della propria mente.
-Sei nuova? Non ti ho vista l’ultima volta- le disse una voce alle sue spalle, distraendola dalla lotta con se stessa.
Si voltò e vide un ometto con un completo verde acceso e camicia rosa. O meglio, viola, per il sudore che aveva bagnato abbondantemente anche la giacca.
Si chiamava Giò, disse, e le dichiarò di essere un agente di modelle, che lei era fantastica e che l’avrebbe portata su, verso le stelle.
Intanto la fila avanzava.
Le disse talmente tante cose, le fece talmente tanti apprezzamenti che la frastornò ancor di più. Tanto che credette di aver frainteso le sue ultime parole.
-Mi scusi?- chiese con la bocca impastata.
L’omino sorrise smagliante, ripetendo:
-Ho detto: se sopravvivremo. No?-
Lei sentì il cuore perdere un battito, mentre la cruda realtà spazzava via l’illusione in cui era fuggita. Adesso ricordava perché si trovasse lì. La ragione di quella festa. La scelta che doveva fare.
Nuovamente percepì il peso del serramanico nella tasca dei jeans.
-Già, bellezza- proseguì l’altro -Siamo tutti qui per la medesima ragione: abbiamo tutti un suo coltello in tasca e tutti gli dobbiamo qualcosa di inestimabile. Soldi, fama, fortuna o chissà cosa. È come questa incredibile festa, puoi goderne sfrenatamente, ma a un certo momento devi renderne conto. E oggi, come ogni lustro, lui vuole il pagamento: dobbiamo decidere se ammazzare una persona e avere il debito cancellato per altri cinque anni, oppure…
-Oppure?
Lui fece spallucce:
-Non lo so, io ho ucciso ogni volta- e il suo sorriso divenne maligno.
Tremante, Sara si voltò, concentrandosi di nuovo sulla fila. Adesso c’erano solo otto persone davanti a lei. Si fermavano alcuni istanti, poi qualcuno andava a sinistra e altri, meno numerosi, a destra. Non capiva.
Tre persone.
Infine, anche l’ultima donna si spostò, lasciando che lo sguardo di Sara scoprisse qualcosa di inaspettato.
Su una poltrona, no, su un trono dall’alto schienale imbottito di pelle rossa, sedeva il loro ospite.
Lei non lo aveva mai visto davvero, prima, ma era l’uomo che possedeva il suo futuro. Colui che le aveva imposto quella condizione e datole il serramanico che pesava nella tasca. A lei come a tutti i presenti.
L’essere con cui era in debito e che l’aveva posta al bivio tra uccidere e perdere ogni cosa.
Indossava un completo di pelle nera, con una camicia grigia scura e portava occhiali da sole nonostante fosse notte. “Come in quel film che piace ai miei: Matrix” pensò.
Solo che là era un energumeno di colore a recitare la parte. Qui, invece, un ometto decisamente sovrappeso, con calvizie e guance paonazze.
“Di persona il diavolo non è granché, in fondo” si trovò a pensare.
Ma toccava a lei, e fu di fronte al trono.
L’uomo allungò le braccia con i pugni chiusi e, dopo un istante, li ruotò. Aprì le mani a palmi in su.
Nella sinistra c’era una pillola rossa, nell’altra, bianca.
I violini raggiunsero un apice parossistico e il corpo di Sara vibrò rispondendo alla musica, cercando di rubarle il controllo. Lei resistette a fatica.
L’uomo parlò con voce ferma e senza accento particolare:
-La pillola rossa, e la festa prosegue: quali ne siano le conseguenze. La pillola bianca, e torni nel mondo dell’illusione. La tua anima sarà salva e il tuo destino segnato. Qual è la tua libera scelta?
Lei inghiottì sonoramente. Si voltò a sinistra, verso una porta scorrevole dietro cui scompariva chi andava da quella parte.
Là si sarebbero compiute le uccisioni, adesso lo sapeva. E se ognuno doveva uccidere un'altra persona, solo la metà di chi entrava sarebbe sopravvissuta. Il cinquanta percento di possibilità di vedere l’alba.
Volse lo sguardo a destra, verso il viottolo dove la gente si allontanava a capo chino. Quale destino li attendeva? Quali conseguenze? Quale percentuale di futuro?
Poteva essere cento quanto zero, non lo sapeva: era l’incertezza della vita.
Ma era poi davvero quello a contare, o piuttosto la forza selvaggia e primordiale che urlava nel suo corpo? La ricchezza che lui le dava o la salvezza dell’anima immortale?
Questo era il bivio, alla fine. No? Chi essere e chi no.
Avere o...
-Quindi?- chiese lui impaziente.
Lei non rispose, invece sussurrò:
-Perché devo scrivere quel che accadrà, se decido di uccidere e sopravvivo?
Ghignò divertito:
-Perché il diavolo esiste grazie alle storie narrate su di lui, no? Sarebbe nulla senza di esse e senza gli uomini che vi credono.
-Ma io non so scrivere bene.
Il sorriso divenne maligno:
-Importa davvero?- sibilò suadente.
Tremando, Sara allungò la mano e scelse...