[MI 159]La vocazione di Tomè
Posted: Sun Nov 28, 2021 11:18 pm
Traccia di Mezzanotte
commento
Tomè era il più giovane di sette fratelli; in verità sarebbe stato l’ultimo di tredici se tutti gli altri fossero sopravvissuti. Nell’anno di grazia 1244 il padre di Tomè lasciò questo mondo quando lui aveva solo otto anni, e alla sua dipartita lasciò un piccolo podere, tre vacche e un somaro.
Ernesto, il maggiore dei fratelli, prese le redini della casa e per prima cosa stabilì che c’erano troppe bocche da sfamare per i pochi frutti che poteva dare la loro terra. Lui aveva già messo al mondo due figli e a metterne al mondo altri due ci aveva pensato il secondo fratello.
Non ci volle molto per fare i conti; fu evidente a tutti che quello di troppo era proprio Tomè. Così Ernesto un mattino d’autunno lo svegliò alla buon’ora, gli disse di prendere la sua roba e lo accompagnò all’abazia.
Col cappello in mano parlò prima con il frate guardiano, poi col priore.
“È un ragazzo gracile,” disse “poco adatto alla vita nei campi. Ora che sta per arrivare l’inverno rischia di morire di fame e di freddo.”
Fu così che Tomè entrò nell’abazia dei benedettini.
Fra’ Tancredi era il maestro dello scriptorium e cercava di ammaestrare quei cinque o sei ragazzini che, condividendo il destino di Tomè, erano finiti lì a causa della loro indigenza.
“Occhi acuti e mano ferma.” soleva dire ogni qual volta faceva iniziare gli esercizi con la tavoletta di argilla. “Nessun errore è concesso; la pergamena è un bene prezioso e costa molti denari. Imparate a copiare con precisione ogni tratto e ogni punto.”
Tomè possedeva un ottimo spirito di osservazione e riusciva bene nel compito. Non era difficile per lui riprodurre le linee, i tratti e punti che si trovavano sulla pagina di origine, anche se non capiva il significato di tanto lavoro. Rimaneva invece affascinato dalle miniature colorate che a volte comparivano negli originali, e si rammaricava di non poter copiare anche quelle. In particolare era rimasto rapito da una raffigurazione della Vergine col bambino che era appesa su una parete dello scriptorium, forse perché gli ricordava sua madre.
“Non dovete distrarvi.” ammoniva fra Tancredi “Benedite di non saper leggere; in questo modo il maligno non potrà tentarvi.”
Gli orari dell’abazia erano molto faticosi. Anche se Tomè e i suoi compagni non indossavano ancora l’abito, erano ugualmente costretti ad alzarsi alle tre del mattino per seguire la preghiera.
L’abate parlava in modo strano, in una lingua diversa da quella che lui aveva imparato da sua madre.
Quando aveva cercato qualche spiegazione gli era stato detto che tutti loro erano lì per salvare le anime degli uomini con le loro preghiere; e allora Tomè si era convinto che quella doveva essere una magia potente e pericolosa; per quello lui non poteva comprenderla, anzi, era meglio che non la comprendesse affatto.
Ma la curiosità è nemica della prudenza.
Vinicio, o meglio Fra’ Vinicio era poco più che un ragazzo, poteva avere l’età del fratello mezzano di Tomè, circa sedici anni. Aveva preso l’abito da meno di un anno, ma siccome proveniva da una famiglia nobile aveva ricevuto l’istruzione che lo rendeva capace di leggere le pagine che Tomè faticosamente trascriveva sulla tavoletta per esercizio.
Tra i due era nata una buona confidenza, tanto che un giorno, mentre Vinicio stava consultando un vecchio incunabolo, Tomè gli si avvicinò e gli chiese: “Cosa c’è scritto?”
“Sono i comandamenti.” rispose Vinicio.
“È lì che c’è scritto che non posso tirare il collo alla gallina del mio vicino nemmeno quando gli scappa e arriva sulla mia terra?”
Vinicio si mise a ridere, ma continuò: “Sì, in un certo senso. Non è scritto proprio così, ma dice che non si deve rubare e nemmeno desiderare ciò che appartiene a un altro.”
“E poi?”
“Se prometti di non dire nulla a Fra Tancredi, posso insegnarti a leggere e a comprendere il latino.”
Trascorsero tre anni. Tomè apprese rapidamente da Vinicio ogni suo insegnamento. Quando fu accolto ufficialmente nello scriptorium e iniziò a copiare sulla pergamena dovette continuare a fingere di non comprendere ciò che stava scrivendo, e quando notava qualche errore nell’originale lo copiava identico trattenendosi dal desiderio di correggerlo. Ma potendo leggere, la sua consapevolezza cresceva alimentata dai testi di storia e di filosofia.
Tra i suoi compagni di un tempo solo lui era stato ammesso allo scriptorium; gli altri non si erano dimostrati all’altezza ed erano finiti, chi a fare il garzone di cucina, chi in falegnameria, chi nel magazzino: tutti mestieri onorevoli che avrebbero potuto svolgere anche fuori dal monastero, mentre quello dell’amanuense non avrebbe potuto farsi altro che lì. Questo voleva dire per Tomè prepararsi per prendere l’abito, ma non si sentiva sicuro di desiderare quella vita. Nei momenti liberi aveva iniziato a disegnare; provava a riprodurre l’immagine della Vergine col bambino a cui era tanto affezionato, ma ogni tanto, per burla, provava a ritrarre anche qualche frate.
“Il re! Il re pernotterà presso la nostra abazia!”
In quei giorni non si sentiva dire altro. Tutto era in gran fermento e ognuno si dava da fare per accogliere degnamente il sovrano. Tanto più che Luigi IX di Francia era stato toccato dalla mano di Dio con una guarigione miracolosa dalla febbre malsana e ora aveva fatto voto di riconquistare Gerusalemme.
Il re arrivò al tramonto con tutto il suo seguito. Vestiva abiti umili e aveva con sé il bastone del pellegrino. Così però non si poteva dire dei cavalieri che lo accompagnavano e che ostentavano il loro potere e le loro ricchezze.
La gente del villaggio e tutti i nobili della zona erano accorsi insieme a un buon numero di questuanti malati di scrofola che pregavano per il tocco del re.
Vinicio sembrava preso dalla febbre. Anche la sua famiglia era venuta al convento e il richiamo del sangue aveva acceso una luce diversa nei suoi occhi.
“La Terra Santa. Finalmente l’occasione per dimostrare il vero valore di un uomo.”
Tomè ascoltava incredulo i suoi discorsi, facendo fatica a riconoscere l’amico che sembrava sul punto di gettare l’abito e impugnare le armi.
“Ma non sta forse scritto di non ammazzare?” gli fece notare.
“Questo è il re santo e questa impresa la vuole Dio stesso.”
“Non sta forse scritto di non nominare il nome di Dio invano?”
Tomè scosse la testa.
“Mia madre mi ha raccontato molte volte il suo dolore per tutti i fratelli che non ho mai conosciuto perché la febbre se li è portati via; eppure la febbre, nonostante ci abbia preso, ha risparmiato me e gli altri fratelli, ma tra noi nessuno ha gridato al miracolo. Sarà perché siamo povera gente.
I re fanno le guerre per l’onore, questo l’ho imparato nei libri, ma da mia madre ho imparato quanto dolore provocano a chi vive della propria terra”. Ma nulla sembrava poter scuotere Vinicio dai suoi propositi.
C’era una gran confusione nel convento, una grande festa, più grande di quella di Pasqua, di quando si festeggia la resurrezione di Nostro Signore. L’abate si prosternava in mille inchini e tutti erano in preda a una frenesia collettiva.
Non sta forse scritto: non avrai altro dio all’infuori di me? Ma questo Tomè lo pensò soltanto.
Andò allo scriptorium. Approfittando della confusione staccò dal muro il quadro della Vergine.
È vero, sta anche scritto di non rubare. Mi confesserò e farò penitenza.
lo nascose nella sua bisaccia e se ne andò per la sua strada.
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Tomè era il più giovane di sette fratelli; in verità sarebbe stato l’ultimo di tredici se tutti gli altri fossero sopravvissuti. Nell’anno di grazia 1244 il padre di Tomè lasciò questo mondo quando lui aveva solo otto anni, e alla sua dipartita lasciò un piccolo podere, tre vacche e un somaro.
Ernesto, il maggiore dei fratelli, prese le redini della casa e per prima cosa stabilì che c’erano troppe bocche da sfamare per i pochi frutti che poteva dare la loro terra. Lui aveva già messo al mondo due figli e a metterne al mondo altri due ci aveva pensato il secondo fratello.
Non ci volle molto per fare i conti; fu evidente a tutti che quello di troppo era proprio Tomè. Così Ernesto un mattino d’autunno lo svegliò alla buon’ora, gli disse di prendere la sua roba e lo accompagnò all’abazia.
Col cappello in mano parlò prima con il frate guardiano, poi col priore.
“È un ragazzo gracile,” disse “poco adatto alla vita nei campi. Ora che sta per arrivare l’inverno rischia di morire di fame e di freddo.”
Fu così che Tomè entrò nell’abazia dei benedettini.
Fra’ Tancredi era il maestro dello scriptorium e cercava di ammaestrare quei cinque o sei ragazzini che, condividendo il destino di Tomè, erano finiti lì a causa della loro indigenza.
“Occhi acuti e mano ferma.” soleva dire ogni qual volta faceva iniziare gli esercizi con la tavoletta di argilla. “Nessun errore è concesso; la pergamena è un bene prezioso e costa molti denari. Imparate a copiare con precisione ogni tratto e ogni punto.”
Tomè possedeva un ottimo spirito di osservazione e riusciva bene nel compito. Non era difficile per lui riprodurre le linee, i tratti e punti che si trovavano sulla pagina di origine, anche se non capiva il significato di tanto lavoro. Rimaneva invece affascinato dalle miniature colorate che a volte comparivano negli originali, e si rammaricava di non poter copiare anche quelle. In particolare era rimasto rapito da una raffigurazione della Vergine col bambino che era appesa su una parete dello scriptorium, forse perché gli ricordava sua madre.
“Non dovete distrarvi.” ammoniva fra Tancredi “Benedite di non saper leggere; in questo modo il maligno non potrà tentarvi.”
Gli orari dell’abazia erano molto faticosi. Anche se Tomè e i suoi compagni non indossavano ancora l’abito, erano ugualmente costretti ad alzarsi alle tre del mattino per seguire la preghiera.
L’abate parlava in modo strano, in una lingua diversa da quella che lui aveva imparato da sua madre.
Quando aveva cercato qualche spiegazione gli era stato detto che tutti loro erano lì per salvare le anime degli uomini con le loro preghiere; e allora Tomè si era convinto che quella doveva essere una magia potente e pericolosa; per quello lui non poteva comprenderla, anzi, era meglio che non la comprendesse affatto.
Ma la curiosità è nemica della prudenza.
Vinicio, o meglio Fra’ Vinicio era poco più che un ragazzo, poteva avere l’età del fratello mezzano di Tomè, circa sedici anni. Aveva preso l’abito da meno di un anno, ma siccome proveniva da una famiglia nobile aveva ricevuto l’istruzione che lo rendeva capace di leggere le pagine che Tomè faticosamente trascriveva sulla tavoletta per esercizio.
Tra i due era nata una buona confidenza, tanto che un giorno, mentre Vinicio stava consultando un vecchio incunabolo, Tomè gli si avvicinò e gli chiese: “Cosa c’è scritto?”
“Sono i comandamenti.” rispose Vinicio.
“È lì che c’è scritto che non posso tirare il collo alla gallina del mio vicino nemmeno quando gli scappa e arriva sulla mia terra?”
Vinicio si mise a ridere, ma continuò: “Sì, in un certo senso. Non è scritto proprio così, ma dice che non si deve rubare e nemmeno desiderare ciò che appartiene a un altro.”
“E poi?”
“Se prometti di non dire nulla a Fra Tancredi, posso insegnarti a leggere e a comprendere il latino.”
Trascorsero tre anni. Tomè apprese rapidamente da Vinicio ogni suo insegnamento. Quando fu accolto ufficialmente nello scriptorium e iniziò a copiare sulla pergamena dovette continuare a fingere di non comprendere ciò che stava scrivendo, e quando notava qualche errore nell’originale lo copiava identico trattenendosi dal desiderio di correggerlo. Ma potendo leggere, la sua consapevolezza cresceva alimentata dai testi di storia e di filosofia.
Tra i suoi compagni di un tempo solo lui era stato ammesso allo scriptorium; gli altri non si erano dimostrati all’altezza ed erano finiti, chi a fare il garzone di cucina, chi in falegnameria, chi nel magazzino: tutti mestieri onorevoli che avrebbero potuto svolgere anche fuori dal monastero, mentre quello dell’amanuense non avrebbe potuto farsi altro che lì. Questo voleva dire per Tomè prepararsi per prendere l’abito, ma non si sentiva sicuro di desiderare quella vita. Nei momenti liberi aveva iniziato a disegnare; provava a riprodurre l’immagine della Vergine col bambino a cui era tanto affezionato, ma ogni tanto, per burla, provava a ritrarre anche qualche frate.
“Il re! Il re pernotterà presso la nostra abazia!”
In quei giorni non si sentiva dire altro. Tutto era in gran fermento e ognuno si dava da fare per accogliere degnamente il sovrano. Tanto più che Luigi IX di Francia era stato toccato dalla mano di Dio con una guarigione miracolosa dalla febbre malsana e ora aveva fatto voto di riconquistare Gerusalemme.
Il re arrivò al tramonto con tutto il suo seguito. Vestiva abiti umili e aveva con sé il bastone del pellegrino. Così però non si poteva dire dei cavalieri che lo accompagnavano e che ostentavano il loro potere e le loro ricchezze.
La gente del villaggio e tutti i nobili della zona erano accorsi insieme a un buon numero di questuanti malati di scrofola che pregavano per il tocco del re.
Vinicio sembrava preso dalla febbre. Anche la sua famiglia era venuta al convento e il richiamo del sangue aveva acceso una luce diversa nei suoi occhi.
“La Terra Santa. Finalmente l’occasione per dimostrare il vero valore di un uomo.”
Tomè ascoltava incredulo i suoi discorsi, facendo fatica a riconoscere l’amico che sembrava sul punto di gettare l’abito e impugnare le armi.
“Ma non sta forse scritto di non ammazzare?” gli fece notare.
“Questo è il re santo e questa impresa la vuole Dio stesso.”
“Non sta forse scritto di non nominare il nome di Dio invano?”
Tomè scosse la testa.
“Mia madre mi ha raccontato molte volte il suo dolore per tutti i fratelli che non ho mai conosciuto perché la febbre se li è portati via; eppure la febbre, nonostante ci abbia preso, ha risparmiato me e gli altri fratelli, ma tra noi nessuno ha gridato al miracolo. Sarà perché siamo povera gente.
I re fanno le guerre per l’onore, questo l’ho imparato nei libri, ma da mia madre ho imparato quanto dolore provocano a chi vive della propria terra”. Ma nulla sembrava poter scuotere Vinicio dai suoi propositi.
C’era una gran confusione nel convento, una grande festa, più grande di quella di Pasqua, di quando si festeggia la resurrezione di Nostro Signore. L’abate si prosternava in mille inchini e tutti erano in preda a una frenesia collettiva.
Non sta forse scritto: non avrai altro dio all’infuori di me? Ma questo Tomè lo pensò soltanto.
Andò allo scriptorium. Approfittando della confusione staccò dal muro il quadro della Vergine.
È vero, sta anche scritto di non rubare. Mi confesserò e farò penitenza.
lo nascose nella sua bisaccia e se ne andò per la sua strada.