[MI159] I ricordi condivisi col tempo
Inviato: dom nov 28, 2021 8:58 pm
Traccia di Mezzanotte: I dieci comandamenti.
L'altro giorno mi alzai presto. La prima cosa che faccio di solito e che feci anche quella mattina, è guardare fuori, attraverso il vetro della finestra della cucina. Davanti a casa, una enorme pianta di noce, limita la vista sull'orizzonte durante il giorno, ma nella notte, a quell'ora di buio, le sue fronde scarmigliate e povere di foglie, mi appaiono come delle enormi mani scheletriche che afferrano il vuoto e i miei pensieri. Poi questi svaniscono al momento che abbandono la finestra, col pensiero ultimo, che sarà un nuovo giorno, appena qualcosa di decisamente solito e certo apparirà oltre di quella pianta: il sole.
Scesi alla macchina che erano quasi le sei, in perfetto orario. Un'ora per vestirmi e bermi la mia adorata tazza di caffellatte, e non prima di averci messo dentro quattro gallette: quelle della Oro Saiwa. Quando racconto che mi è rimasta questa abitudine e che a sessant'anni non ho mai smesso di farmi la zuppetta di biscotti, pensano che io sia rimasto un bambino dentro.
Durante il viaggio in auto nella notte fonda verso Bergamo, pensai a quell'evento che si sarebbe verificato verso le sette: il cielo nero si sarebbe illuminato lento, annunciando che andavo incontro all'est. Anche questa abitudine da boy scout non mi è mai andata via. Non uso navigatori in auto, ma nonostante tutto, non mi perdo mai. Così fu. Verso le sette arrivai alla barriera di Milano: oramai era mattino. Il resto della mattina la passai a fare il mio intervento di assistenza in un cantiere. E poi di nuovo in auto verso il casello autostradale che mi avrebbe condotto verso casa. Sguardo dritto verso quell'ovest da cui ero partito e a cui tornavo. Arrivai dopo mezzora a Milano: il traffico abbastanza tranquillo delle undici del sabato, confermava le abitudini dei milanesi di prendere baracche e baracchini e scappare dalla città il venerdì sera, per andare verso i laghi.
Certo sapevo che qualche milanese l'avrei trovato ancora dentro casa, in città: una di queste era mia sorella. Ricordo che cercai il suo numero di cellulare per avvisarla che sarei passato a trovarla.
Cerco e ricerco nella rubrica consapevole che sto guidando e che non dovrei. “ Affanculo” mi dico; come al solito, dopo aver cambiato telefono, non ho registrato il suo numero. Penso che proverò lo stesso augurandomi che la sorpresa riuscirà, dato che non la vedo da tre anni. Per la verità, varie volte passo per Milano, ma sempre con quella fretta di tornare a casa che ti obbliga a rinunciare: “ Possibile che sei sempre in giro per lavoro dalle mie parti e non passi mai?”. Come darle torto. Eppure da buon cristiano so che potrei farle visita almeno alle feste, secondo il comandamento di santificare le feste, o di visitare i malati. Io sinceramente odio spostarmi alla domenica. Insomma, dopo tutti i chilometri fatti in settimana, un po di pace. Arrivai sotto casa sua dopo un giro di viali e controviali, rimanendo stupito del traffico: i milanesi erano rimasti a casa. Dopo aver cercato un introvabile posto per parcheggiare, scesi dall'auto col pensiero: “ scommetto che adesso neanche sta a casa e ho fatto tutto questo giro per niente”. Sotto il portone del condominio in cui abita tirai fuori gli occhiali per leggere i cognomi al citofono. Mi accorsi che ne avevano installato uno nuovo, uno di quelli con i numeri da comporre e poi premere l'asterisco. Compongo il numero venti e poi schiaccio il tasto, ma la chiamata non si avvia. Impreco. Nel mentre che cerco di capire cosa non funziona due condomini si avvicinano alle mie spalle: “ scusate un attimo” faccio io, cercando di non apparire uno dei soliti rompipalle che vanno in giro a suonare ai campanelli per dire “ sa di una casa in affitto? Ma tutte le manovre per far suonare il campanello non funzionano. Improvvisamente sento nominare il mio nome: “ Raffaele!!”. Faccio che girarmi e cosa vedo? Lei a braccetto con mio cognato, imbacuccati pesantemente e con tanto di mascherina. Appena la vedo mi accorgo dei tre anni passati attraverso l'evidenza della pelle pallida del suo viso e le rughe che avanzano. Di impulso l'abbraccio e sento il suo contraccambiare tra le risate per la scenetta quasi comica. Mi stacco per un attimo da lei e mi butto sopra mio cognato abbracciandolo. Ridiamo commossi tutti quanti e Gianni già mi tira per il braccio: “ ué! ma non stiamo qui come salami al freddo: saliamo a casa”.
Ci siamo ritrovati in cucina a chiacchierare di questi anni passati. A parlare di pensione, di figli, di nipoti, dei miei sette anni di lavoro che ancora mi attendono. Ma mentre mi accorgo che si è fatto mezzogiorno e mi alzo per salutare, Gianni mi prende per il braccio e mi ritira giù sulla sedia: “ Che fai! Già te la svigni?”. Vedo lei che corre a mettere la pentola sul fuoco, tirare fuori riso, funghi, salsiccia di cavallo e dice: “ ho già tutto pronto e mangi con noi e non protestare nemmeno”.
Alle sue parole decise mi arrendo. Non posso essere così maleducato e andarmene subito dopo tre anni che non mi faccio vedere. “ Complimenti alla cuoca”, faccio io, dopo aver mangiato e gustato tutto. Adesso faccio il caffè: la sento dire. Ma è stato durante la posa delle tazzine del caffè fumante che la malinconia si fa spazio tra di noi. Gianni racconta dell'intervento al cuore che fece due anni fa e che gli ha lasciato diverse conseguenze, tra cui, quella di non ricordare. Io prendo a consolarlo dicendogli che è normale. Mia sorella gli ricorda che poteva andare peggio per via di quei minuti in cui i dottori ebbero difficoltà.
“ Ricordare? Gianni sai che a volte torna utile, specialmente ai compleanni!!”.
Non capisco come, ma dopo le risate, mi ricordo delle urla di mio fratello piccolo, e del sangue di mia madre sul pavimento, le porte dell'inferno dell'orfanotrofio. Mi faccio serio e parlo di quei pensieri che mai me ne sono andati via dalla mente nonostante siano passati la bellezza di cinquantacinque anni. A questo punto è Gianni che capisce che stiamo entrando nei ricordi del nostro doloroso passato: e dai! Lasciamo perdere queste storie vecchie!”. Anch'io vorrei lasciare stare ma lei vuole entrare nel discorso. Mi dice che un anno fa aveva bisticciato al telefono proprio con lui, con quel fratello che ebbe a rimproverarla di non averle detto niente sulla vita di nostra madre.
In un lampo ripercorro la mia infanzia. Marinella poi infierisce ricordando che solo lei vide mio padre con la pistola in mano puntata su di mia madre che voleva lasciarlo, stanca di ritrovarsi sempre incinta e di fare una vita grama. “ Babbo! Babbo! Non farlo!” urlò lei! Poi la fuga alla ricerca di aiuto con in braccio mio fratellino. Mio padre che getta via la pistola ma che colpisce con uno sgabello la testa di mia madre che scappa via per sempre, lasciando il solo ricordo del suo sangue sul pavimento come eredità. Eppure, non posso fare a meno, in quella cucina, di esternare quella profonda solidarietà per quella madre che ci abbandonò facendoci finire in orfanotrofio, e per quel padre che non si macchio del delitto di uccidere. Il ricordo del suo ritorno pacificatore con mio padre, dopo dieci anni, nel vederli insieme, fu per me come conoscerli per la prima volta. Ma è ancora una volta Gianni che ci stoppa nella nostra struggente anamnesi del nostro passato. Ma sì! Lasciamo perdere chi non c'è più... faccio io.
Si erano fatte le tre e questa volta Gianni non mi fermò quando mi alzai dal tavolo per andarmene. Li abbracciai entrambi e andai via promettendo che non avrei lasciato ripassare tre anni per farmi rivedere. Il sole cominciava ad adagiarsi nella sua culla, tra le Alpi, per il riposo, ed io ritrovavo quell'ovest compagno di viaggio verso casa. Ma i ricordi mi assalirono ancora. Con tutta la loro potenza di emozioni. “Onora tuo padre e tua madre”, lo ricordo sempre ai miei figli. Qualsiasi sofferenza ti arrecheranno a causa della loro vita. Perché lo sbaglio è sempre dietro l'angolo di ogni strada.
L'altro giorno mi alzai presto. La prima cosa che faccio di solito e che feci anche quella mattina, è guardare fuori, attraverso il vetro della finestra della cucina. Davanti a casa, una enorme pianta di noce, limita la vista sull'orizzonte durante il giorno, ma nella notte, a quell'ora di buio, le sue fronde scarmigliate e povere di foglie, mi appaiono come delle enormi mani scheletriche che afferrano il vuoto e i miei pensieri. Poi questi svaniscono al momento che abbandono la finestra, col pensiero ultimo, che sarà un nuovo giorno, appena qualcosa di decisamente solito e certo apparirà oltre di quella pianta: il sole.
Scesi alla macchina che erano quasi le sei, in perfetto orario. Un'ora per vestirmi e bermi la mia adorata tazza di caffellatte, e non prima di averci messo dentro quattro gallette: quelle della Oro Saiwa. Quando racconto che mi è rimasta questa abitudine e che a sessant'anni non ho mai smesso di farmi la zuppetta di biscotti, pensano che io sia rimasto un bambino dentro.
Durante il viaggio in auto nella notte fonda verso Bergamo, pensai a quell'evento che si sarebbe verificato verso le sette: il cielo nero si sarebbe illuminato lento, annunciando che andavo incontro all'est. Anche questa abitudine da boy scout non mi è mai andata via. Non uso navigatori in auto, ma nonostante tutto, non mi perdo mai. Così fu. Verso le sette arrivai alla barriera di Milano: oramai era mattino. Il resto della mattina la passai a fare il mio intervento di assistenza in un cantiere. E poi di nuovo in auto verso il casello autostradale che mi avrebbe condotto verso casa. Sguardo dritto verso quell'ovest da cui ero partito e a cui tornavo. Arrivai dopo mezzora a Milano: il traffico abbastanza tranquillo delle undici del sabato, confermava le abitudini dei milanesi di prendere baracche e baracchini e scappare dalla città il venerdì sera, per andare verso i laghi.
Certo sapevo che qualche milanese l'avrei trovato ancora dentro casa, in città: una di queste era mia sorella. Ricordo che cercai il suo numero di cellulare per avvisarla che sarei passato a trovarla.
Cerco e ricerco nella rubrica consapevole che sto guidando e che non dovrei. “ Affanculo” mi dico; come al solito, dopo aver cambiato telefono, non ho registrato il suo numero. Penso che proverò lo stesso augurandomi che la sorpresa riuscirà, dato che non la vedo da tre anni. Per la verità, varie volte passo per Milano, ma sempre con quella fretta di tornare a casa che ti obbliga a rinunciare: “ Possibile che sei sempre in giro per lavoro dalle mie parti e non passi mai?”. Come darle torto. Eppure da buon cristiano so che potrei farle visita almeno alle feste, secondo il comandamento di santificare le feste, o di visitare i malati. Io sinceramente odio spostarmi alla domenica. Insomma, dopo tutti i chilometri fatti in settimana, un po di pace. Arrivai sotto casa sua dopo un giro di viali e controviali, rimanendo stupito del traffico: i milanesi erano rimasti a casa. Dopo aver cercato un introvabile posto per parcheggiare, scesi dall'auto col pensiero: “ scommetto che adesso neanche sta a casa e ho fatto tutto questo giro per niente”. Sotto il portone del condominio in cui abita tirai fuori gli occhiali per leggere i cognomi al citofono. Mi accorsi che ne avevano installato uno nuovo, uno di quelli con i numeri da comporre e poi premere l'asterisco. Compongo il numero venti e poi schiaccio il tasto, ma la chiamata non si avvia. Impreco. Nel mentre che cerco di capire cosa non funziona due condomini si avvicinano alle mie spalle: “ scusate un attimo” faccio io, cercando di non apparire uno dei soliti rompipalle che vanno in giro a suonare ai campanelli per dire “ sa di una casa in affitto? Ma tutte le manovre per far suonare il campanello non funzionano. Improvvisamente sento nominare il mio nome: “ Raffaele!!”. Faccio che girarmi e cosa vedo? Lei a braccetto con mio cognato, imbacuccati pesantemente e con tanto di mascherina. Appena la vedo mi accorgo dei tre anni passati attraverso l'evidenza della pelle pallida del suo viso e le rughe che avanzano. Di impulso l'abbraccio e sento il suo contraccambiare tra le risate per la scenetta quasi comica. Mi stacco per un attimo da lei e mi butto sopra mio cognato abbracciandolo. Ridiamo commossi tutti quanti e Gianni già mi tira per il braccio: “ ué! ma non stiamo qui come salami al freddo: saliamo a casa”.
Ci siamo ritrovati in cucina a chiacchierare di questi anni passati. A parlare di pensione, di figli, di nipoti, dei miei sette anni di lavoro che ancora mi attendono. Ma mentre mi accorgo che si è fatto mezzogiorno e mi alzo per salutare, Gianni mi prende per il braccio e mi ritira giù sulla sedia: “ Che fai! Già te la svigni?”. Vedo lei che corre a mettere la pentola sul fuoco, tirare fuori riso, funghi, salsiccia di cavallo e dice: “ ho già tutto pronto e mangi con noi e non protestare nemmeno”.
Alle sue parole decise mi arrendo. Non posso essere così maleducato e andarmene subito dopo tre anni che non mi faccio vedere. “ Complimenti alla cuoca”, faccio io, dopo aver mangiato e gustato tutto. Adesso faccio il caffè: la sento dire. Ma è stato durante la posa delle tazzine del caffè fumante che la malinconia si fa spazio tra di noi. Gianni racconta dell'intervento al cuore che fece due anni fa e che gli ha lasciato diverse conseguenze, tra cui, quella di non ricordare. Io prendo a consolarlo dicendogli che è normale. Mia sorella gli ricorda che poteva andare peggio per via di quei minuti in cui i dottori ebbero difficoltà.
“ Ricordare? Gianni sai che a volte torna utile, specialmente ai compleanni!!”.
Non capisco come, ma dopo le risate, mi ricordo delle urla di mio fratello piccolo, e del sangue di mia madre sul pavimento, le porte dell'inferno dell'orfanotrofio. Mi faccio serio e parlo di quei pensieri che mai me ne sono andati via dalla mente nonostante siano passati la bellezza di cinquantacinque anni. A questo punto è Gianni che capisce che stiamo entrando nei ricordi del nostro doloroso passato: e dai! Lasciamo perdere queste storie vecchie!”. Anch'io vorrei lasciare stare ma lei vuole entrare nel discorso. Mi dice che un anno fa aveva bisticciato al telefono proprio con lui, con quel fratello che ebbe a rimproverarla di non averle detto niente sulla vita di nostra madre.
In un lampo ripercorro la mia infanzia. Marinella poi infierisce ricordando che solo lei vide mio padre con la pistola in mano puntata su di mia madre che voleva lasciarlo, stanca di ritrovarsi sempre incinta e di fare una vita grama. “ Babbo! Babbo! Non farlo!” urlò lei! Poi la fuga alla ricerca di aiuto con in braccio mio fratellino. Mio padre che getta via la pistola ma che colpisce con uno sgabello la testa di mia madre che scappa via per sempre, lasciando il solo ricordo del suo sangue sul pavimento come eredità. Eppure, non posso fare a meno, in quella cucina, di esternare quella profonda solidarietà per quella madre che ci abbandonò facendoci finire in orfanotrofio, e per quel padre che non si macchio del delitto di uccidere. Il ricordo del suo ritorno pacificatore con mio padre, dopo dieci anni, nel vederli insieme, fu per me come conoscerli per la prima volta. Ma è ancora una volta Gianni che ci stoppa nella nostra struggente anamnesi del nostro passato. Ma sì! Lasciamo perdere chi non c'è più... faccio io.
Si erano fatte le tre e questa volta Gianni non mi fermò quando mi alzai dal tavolo per andarmene. Li abbracciai entrambi e andai via promettendo che non avrei lasciato ripassare tre anni per farmi rivedere. Il sole cominciava ad adagiarsi nella sua culla, tra le Alpi, per il riposo, ed io ritrovavo quell'ovest compagno di viaggio verso casa. Ma i ricordi mi assalirono ancora. Con tutta la loro potenza di emozioni. “Onora tuo padre e tua madre”, lo ricordo sempre ai miei figli. Qualsiasi sofferenza ti arrecheranno a causa della loro vita. Perché lo sbaglio è sempre dietro l'angolo di ogni strada.