[MI158] Una stupida canzone
Posted: Sun Nov 14, 2021 10:16 pm
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Traccia di mezzanotte: Rinascita.
[MI158] Una stupida canzone
Lo sognavo ogni tanto.
Nel sogno lo incontravo in posti diversi e inaspettati.
La cosa avveniva casualmente, senza una volontà o una regola precisa.
Quella che non variava era la modalità, lui stava sempre in mezzo ad altra gente: davanti al Liceo, o in un bar affollato, nell’atrio di un cinema in attesa dello spettacolo, oppure in un capannello di gente alla fermata di un bus. Ovunque fosse c'era folla e ressa.
Io capivo che si trovava lì ancora prima di vederlo: la sua voce tra le altre era inconfondibile, allora lo cercavo tra quegli sconosciuti e finalmente lo rivedevo.
Lui non si accorgeva mai di me per primo: restavo li, a poca distanza, immobile e in silenzio a osservarlo muoversi e parlare, pieno di vita come sempre, come non era più da tempo.
Mi godevo quella visione come un regalo, mi riempiva l’animo di gioia: seguivo quei suoi gesti misurati e sicuri che conoscevo in ogni dettaglio, avvertivo la sua presenza come reale, sentivo la sensazione di vivida pienezza che aveva lasciato impressa nel mio ricordo.
Lo guardavo vivere e discorrere con altri ignaro della mia presenza: accumulavo quella vita come fossero fotogrammi di un film da conservare preziosamente, per quando il film sarebbe finito.
Allora mi facevo avanti e lo fermavo toccandogli una spalla o prendendolo per un braccio, facendolo voltare verso di me.
- Ciao “testina”! Ma, da dove salti fuori? - esclamava sorpreso e felice di vedermi.
Ci abbracciavamo con grandi pacche sulle spalle: era solido, vero, caldo e vivo: non poteva essere un sogno quello, i sogni non sono così pensavo.
La sorpresa nel ritrovarlo prendeva subito il colore di una consolazione, sentivo qualcosa scaldarmi il petto, l’emozione di un sollievo forte, di una gioia indicibile.
Non poteva essere vero, eppure Giulio era li: mi davo dei pizzichi sulle braccia per verificare di essere sveglio; facevano un male bestia, questo provava che non stessi dormendo.
Non mi domandavo come fosse potuto accadere, se la cosa fosse possibile o meno, se si trattava di un miracolo, preferivo non pensarci,
l'unica cosa che importava era che lui fosse li, che potessi parlargli, sentire la sue voce, scherzarci come avevamo sempre fatto.
Mi veniva una spiegazione: tutto ciò che avevo vissuto dall'ultima sera in cui ci eravamo salutati, era stato solo un sogno.
Un sogno stupido e credibile come sanno essere certe volte i sogni.
Quella sera avevo la febbre alta ed ero intontito di calmanti, c'era quella stronzata di canzone: “Azzurro” di Celentano - che manco mi piaceva - come un disco incantato, che continuava a girarmi in testa mentre ci dicevamo le ultime cose prima di separarci.
La canzone mi ossessionava, la febbre saliva nonostante l'antibiotico, poi forse mi ero assopito, nel delirio avevo fatto questo sogno del cazzo, un sogno che era durato mesi, dove tutto finiva in merda.
- Vado a cercare del fumo, ho voglia di una canna sta sera. - Disse, e aveva un'aria stanca, forse un po' malinconica. - Se lo trovo, forse dopo torno e ci facciamo una canna. Tu cerca di sopravvivere.
Aveva sorriso ed era uscito: fuori era già notte e c'era la neve, io pensavo a lui, al gelo della strada e tremavo nel delirio della febbre.
Poi tutti lo cercavano senza trovarlo. Le telefonate che si inseguivano fino alla notte del giorno seguente.
L'ultima il mattino di due giorni appresso, quella di sua madre, che metteva fine alla ricerca.
Tutto finiva con un pomeriggio scuro di gelo e nebbia in quel cimitero all’inglese di Torino sud.
Era stato di certo così, avevo sognato, solo un brutto sogno dovuto alla febbre, un incubo del cazzo.
Ora era finita, ero sveglio finalmente, tutto si era chiarito, e le cose tornavano al loro posto.
Gli dicevo: - Ma, se sei qui... Allora non sei...
Lui mi guardava con l'espressione interrogativa con cui si guarda un ubriaco.
- Cazzo dici? Ti sei fumato il cervello? Certo che sono qui. Dove cazzo dovrei essere? Tu invece, sei sicuro esserci del tutto?
E poi rideva canzonandomi. Quanto mi piaceva vederlo ridere nuovamente in quella maniera.
La sua risata riempiva lo spazio di calore, di ritorno alla vita.
Non me ne importava più un cazzo di sapere dove era stato, cosa fosse successo, se avevo sognato o no, sapevo solo che ora era qui, era con me, come una volta.
Poi normalmente, si parlava delle cose nostre, come se di tempo nel mezzo non ne fosse trascorso.
Facevamo come al solito una passeggiata per il centro città: in via Po all’angolo con piazza Castello, d’autunno c’era sempre un banchetto con le caldarroste.
Avevano un profumo che ricordava l’infanzia, ne acquistavamo un cartoccio ciascuno, poi le sgranocchiavamo ancora bollenti, lasciando una scia di bucce scure lungo i sottoportici. Eravamo dei veri sudicioni, senza creanza e indifferenti del decoro urbano. Ma non ce ne fregava un emerito tubo.
Si tornava ai momenti fulgidi, fatti di incosciente adolescenza e fraterna amicizia, di sfrenata voglia di fare e vivere.
A fine giornata ci si lasciava normalmente, dandoci appuntamento per il giorno dopo, salutandoci battendo un cinque o con un abbraccio affettuoso e ruvido.
Mi sentivo felice, raggiante, ripagato, come chi sia scampato a una grave malattia, o abbia terminato una lunga degenza, con l’anima colma di una rinnovata felicità.
Poi mi risvegliavo: era mattino. Ci voleva e un po’ a svuotarmi dagli strascichi del sogno.
Tornava la lucida realtà, la rabbia per averci creduto ancora una volta, il sapore di una nuova delusione.
Restava la fatica di una’altra giornata di vita da affrontare, con la pena di una salita troppo ardua.
Ricominciava quel tempo grigio, senza sogni, illusioni e miracoli.
Quella che dicevano: fosse la vita che continuava.
Traccia di mezzanotte: Rinascita.
[MI158] Una stupida canzone
Lo sognavo ogni tanto.
Nel sogno lo incontravo in posti diversi e inaspettati.
La cosa avveniva casualmente, senza una volontà o una regola precisa.
Quella che non variava era la modalità, lui stava sempre in mezzo ad altra gente: davanti al Liceo, o in un bar affollato, nell’atrio di un cinema in attesa dello spettacolo, oppure in un capannello di gente alla fermata di un bus. Ovunque fosse c'era folla e ressa.
Io capivo che si trovava lì ancora prima di vederlo: la sua voce tra le altre era inconfondibile, allora lo cercavo tra quegli sconosciuti e finalmente lo rivedevo.
Lui non si accorgeva mai di me per primo: restavo li, a poca distanza, immobile e in silenzio a osservarlo muoversi e parlare, pieno di vita come sempre, come non era più da tempo.
Mi godevo quella visione come un regalo, mi riempiva l’animo di gioia: seguivo quei suoi gesti misurati e sicuri che conoscevo in ogni dettaglio, avvertivo la sua presenza come reale, sentivo la sensazione di vivida pienezza che aveva lasciato impressa nel mio ricordo.
Lo guardavo vivere e discorrere con altri ignaro della mia presenza: accumulavo quella vita come fossero fotogrammi di un film da conservare preziosamente, per quando il film sarebbe finito.
Allora mi facevo avanti e lo fermavo toccandogli una spalla o prendendolo per un braccio, facendolo voltare verso di me.
- Ciao “testina”! Ma, da dove salti fuori? - esclamava sorpreso e felice di vedermi.
Ci abbracciavamo con grandi pacche sulle spalle: era solido, vero, caldo e vivo: non poteva essere un sogno quello, i sogni non sono così pensavo.
La sorpresa nel ritrovarlo prendeva subito il colore di una consolazione, sentivo qualcosa scaldarmi il petto, l’emozione di un sollievo forte, di una gioia indicibile.
Non poteva essere vero, eppure Giulio era li: mi davo dei pizzichi sulle braccia per verificare di essere sveglio; facevano un male bestia, questo provava che non stessi dormendo.
Non mi domandavo come fosse potuto accadere, se la cosa fosse possibile o meno, se si trattava di un miracolo, preferivo non pensarci,
l'unica cosa che importava era che lui fosse li, che potessi parlargli, sentire la sue voce, scherzarci come avevamo sempre fatto.
Mi veniva una spiegazione: tutto ciò che avevo vissuto dall'ultima sera in cui ci eravamo salutati, era stato solo un sogno.
Un sogno stupido e credibile come sanno essere certe volte i sogni.
Quella sera avevo la febbre alta ed ero intontito di calmanti, c'era quella stronzata di canzone: “Azzurro” di Celentano - che manco mi piaceva - come un disco incantato, che continuava a girarmi in testa mentre ci dicevamo le ultime cose prima di separarci.
La canzone mi ossessionava, la febbre saliva nonostante l'antibiotico, poi forse mi ero assopito, nel delirio avevo fatto questo sogno del cazzo, un sogno che era durato mesi, dove tutto finiva in merda.
- Vado a cercare del fumo, ho voglia di una canna sta sera. - Disse, e aveva un'aria stanca, forse un po' malinconica. - Se lo trovo, forse dopo torno e ci facciamo una canna. Tu cerca di sopravvivere.
Aveva sorriso ed era uscito: fuori era già notte e c'era la neve, io pensavo a lui, al gelo della strada e tremavo nel delirio della febbre.
Poi tutti lo cercavano senza trovarlo. Le telefonate che si inseguivano fino alla notte del giorno seguente.
L'ultima il mattino di due giorni appresso, quella di sua madre, che metteva fine alla ricerca.
Tutto finiva con un pomeriggio scuro di gelo e nebbia in quel cimitero all’inglese di Torino sud.
Era stato di certo così, avevo sognato, solo un brutto sogno dovuto alla febbre, un incubo del cazzo.
Ora era finita, ero sveglio finalmente, tutto si era chiarito, e le cose tornavano al loro posto.
Gli dicevo: - Ma, se sei qui... Allora non sei...
Lui mi guardava con l'espressione interrogativa con cui si guarda un ubriaco.
- Cazzo dici? Ti sei fumato il cervello? Certo che sono qui. Dove cazzo dovrei essere? Tu invece, sei sicuro esserci del tutto?
E poi rideva canzonandomi. Quanto mi piaceva vederlo ridere nuovamente in quella maniera.
La sua risata riempiva lo spazio di calore, di ritorno alla vita.
Non me ne importava più un cazzo di sapere dove era stato, cosa fosse successo, se avevo sognato o no, sapevo solo che ora era qui, era con me, come una volta.
Poi normalmente, si parlava delle cose nostre, come se di tempo nel mezzo non ne fosse trascorso.
Facevamo come al solito una passeggiata per il centro città: in via Po all’angolo con piazza Castello, d’autunno c’era sempre un banchetto con le caldarroste.
Avevano un profumo che ricordava l’infanzia, ne acquistavamo un cartoccio ciascuno, poi le sgranocchiavamo ancora bollenti, lasciando una scia di bucce scure lungo i sottoportici. Eravamo dei veri sudicioni, senza creanza e indifferenti del decoro urbano. Ma non ce ne fregava un emerito tubo.
Si tornava ai momenti fulgidi, fatti di incosciente adolescenza e fraterna amicizia, di sfrenata voglia di fare e vivere.
A fine giornata ci si lasciava normalmente, dandoci appuntamento per il giorno dopo, salutandoci battendo un cinque o con un abbraccio affettuoso e ruvido.
Mi sentivo felice, raggiante, ripagato, come chi sia scampato a una grave malattia, o abbia terminato una lunga degenza, con l’anima colma di una rinnovata felicità.
Poi mi risvegliavo: era mattino. Ci voleva e un po’ a svuotarmi dagli strascichi del sogno.
Tornava la lucida realtà, la rabbia per averci creduto ancora una volta, il sapore di una nuova delusione.
Restava la fatica di una’altra giornata di vita da affrontare, con la pena di una salita troppo ardua.
Ricominciava quel tempo grigio, senza sogni, illusioni e miracoli.
Quella che dicevano: fosse la vita che continuava.