[MI158] Viadotto San Giorgio
Posted: Sun Nov 14, 2021 9:13 pm
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Traccia di mezzanotte
Viadotto San Giorgio
Sento la mano di Gianni che stringe la mia. La sua presa salda si fa pressante e capisco che siamo arrivati. È come se avessi camminato fino a qui con gli occhi chiusi e lui mi avesse guidata, perché il mio sguardo non si è ancora focalizzato sul paesaggio attorno a me. Allora rivolgo gli occhi in alto, verso le campate. Il pilone accanto a noi è slanciato e snello e una lieve vertigine mi prende al pensiero del peso che deve reggere. Poi guardo verso il Polcevera e vedo le altre pile. Una fila ordinata, quasi un esercito muto in acciaio e calcestruzzo che sembra non debba crollare mai. Resistere al tempo, alle intemperie, al peso incessante dei veicoli non sembra un problema per loro.
Subito mi viene in mente che anche allora, quarantatré anni fa, con il ponte nuovo fiammante, avveniristico, chi vi fosse andato sotto, nello stesso punto in cui stringo adesso la mano di Gianni, avrà pensato la stessa cosa. Come possono il calcestruzzo o il cemento armato diventare materiali fragili? Più fragili della salda presa di mio marito.
- È crollato un ponte a Genova ovest – è stato l’annuncio della mia vicina sul pianerottolo. È strano come ricevere una notizia del genere non dia immediatamente misura di cosa significhi. La mente divaga per lunghi istanti: un ponte? Quale ponte? Crollato, poi, cosa significa? Caduto giù tutto intero o solo in parte? Chissà perché poi in quel momento ho pensato al cavalcavia di Genova Est, scalcinato pure lui, ma dal lato opposto della città. Ma ero tranquilla perché mio figlio Carlo quella mattina andava a Sestri Ponente ma non avrebbe mai preso l’autostrada. Quel tragitto è un inutile ingorgo di traffico che si percorre a passo d’uomo, molto meglio attraversare il centro. Si è egoisti quando accade una tragedia, si localizzano in un luogo sicuro i propri cari e si può continuare a vivere. Già, perché dopo aver appreso la notizia sono scesa comunque in strada per fare la spesa. Avrei ascoltato un telegiornale subito dopo. Eppure da qualche parte del mio cervello si faceva strada l’entità di ciò che era successo. La sua portata si è materializzata per osmosi, come si propagano le onde magnetiche, invisibili ma presenti. E lo ha fatto attraverso gli sguardi interrogativi della gente in fila dal panettiere, dalle frasi smozzicate che percepivo e che si replicavano sulle bocche, propagandosi in tante varianti.
Lì ho ricevuto la chiamata di Gianni.
- Carlo non risponde al telefono.
Anche la sua notizia è stata laconica, essenziale e non lasciava spazio ai dubbi. Eppure il cervello si difende come può, crea domande dal nulla.
- Che vuol dire? Ha preso l’autostrada? Ma quale ponte è? Il telefono di Carlo non è raggiungibile?
Aria, era solo aria che usciva dalla mia bocca. Ho lasciato la fila per la spesa e mi sono precipitata fuori a cercare risposte, a chiamare Carlo, a richiamare Gianni. Poi sono andata a casa e ho acceso il televisore e l’ho visto. Ho visto il furgone di Carlo, quello con cui faceva le consegne per la Basko, fermo lì, intonso, a un passo dal baratro. Una frazione di secondo in più, un metro in più, facevano la differenza.
Guardo Gianni, adesso, che mi sorride. Sotto le campate in cui fino a un anno fa giacevano quintali di polvere e detriti hanno costruito un parco. Una ragazza che fa jogging mi passa accanto, sento l’aria che si muove. Due ragazzini giocano a calcio. Due signori anziani si riposano in una panchina. Lì dove è collassato il pilone di sostegno numero 9, dove svettava il moncone che si vedeva quando prendevo il treno per Milano. L’assenza che ha riempito per un lungo l’anno il vuoto.
- Andiamo? – mi chiede Gianni.
- Sì – rispondo.
Torniamo in macchina e imbocchiamo l’entrata di Genova Ovest. È domenica mattina e sul viadotto il traffico scorre. La paura mi fa tremare le gambe. Guardo Gianni che guida tranquillo sul ponte nuovo. Forse anche questo un giorno non ci sarà più, sgretolato dall’usura del tempo, dalla pioggia, dalla salsedine portata dal vento. Poi guardo la città, le curve sinuose che accarezzano il mare, la linea retta della diga foranea che taglia in due la prospettiva, le colline tempestate da palazzi sgraziati, adagiati al suolo come tante navicelle aliene atterrate in tempi remoti, la vegetazione che resiste e si insinua in tutti gli interstizi del cemento. Tutto serve a comporre un’immagine che avevo rimosso e ora ritrovo. La traversata mi sembra infinita, tanti piccoli istanti, uno dietro all’altro. Non riesco a fare a meno di pensare che anche quell’istante che ha separato Carlo dall’abisso sia fatto della loro stessa sostanza. Ma sento anche la terra sospesa sotto di noi, la gettata di cemento che ci sorregge sul vuoto, solida sopra l’aria, su cui l’automobile scivola via leggera.
Traccia di mezzanotte
Viadotto San Giorgio
Sento la mano di Gianni che stringe la mia. La sua presa salda si fa pressante e capisco che siamo arrivati. È come se avessi camminato fino a qui con gli occhi chiusi e lui mi avesse guidata, perché il mio sguardo non si è ancora focalizzato sul paesaggio attorno a me. Allora rivolgo gli occhi in alto, verso le campate. Il pilone accanto a noi è slanciato e snello e una lieve vertigine mi prende al pensiero del peso che deve reggere. Poi guardo verso il Polcevera e vedo le altre pile. Una fila ordinata, quasi un esercito muto in acciaio e calcestruzzo che sembra non debba crollare mai. Resistere al tempo, alle intemperie, al peso incessante dei veicoli non sembra un problema per loro.
Subito mi viene in mente che anche allora, quarantatré anni fa, con il ponte nuovo fiammante, avveniristico, chi vi fosse andato sotto, nello stesso punto in cui stringo adesso la mano di Gianni, avrà pensato la stessa cosa. Come possono il calcestruzzo o il cemento armato diventare materiali fragili? Più fragili della salda presa di mio marito.
- È crollato un ponte a Genova ovest – è stato l’annuncio della mia vicina sul pianerottolo. È strano come ricevere una notizia del genere non dia immediatamente misura di cosa significhi. La mente divaga per lunghi istanti: un ponte? Quale ponte? Crollato, poi, cosa significa? Caduto giù tutto intero o solo in parte? Chissà perché poi in quel momento ho pensato al cavalcavia di Genova Est, scalcinato pure lui, ma dal lato opposto della città. Ma ero tranquilla perché mio figlio Carlo quella mattina andava a Sestri Ponente ma non avrebbe mai preso l’autostrada. Quel tragitto è un inutile ingorgo di traffico che si percorre a passo d’uomo, molto meglio attraversare il centro. Si è egoisti quando accade una tragedia, si localizzano in un luogo sicuro i propri cari e si può continuare a vivere. Già, perché dopo aver appreso la notizia sono scesa comunque in strada per fare la spesa. Avrei ascoltato un telegiornale subito dopo. Eppure da qualche parte del mio cervello si faceva strada l’entità di ciò che era successo. La sua portata si è materializzata per osmosi, come si propagano le onde magnetiche, invisibili ma presenti. E lo ha fatto attraverso gli sguardi interrogativi della gente in fila dal panettiere, dalle frasi smozzicate che percepivo e che si replicavano sulle bocche, propagandosi in tante varianti.
Lì ho ricevuto la chiamata di Gianni.
- Carlo non risponde al telefono.
Anche la sua notizia è stata laconica, essenziale e non lasciava spazio ai dubbi. Eppure il cervello si difende come può, crea domande dal nulla.
- Che vuol dire? Ha preso l’autostrada? Ma quale ponte è? Il telefono di Carlo non è raggiungibile?
Aria, era solo aria che usciva dalla mia bocca. Ho lasciato la fila per la spesa e mi sono precipitata fuori a cercare risposte, a chiamare Carlo, a richiamare Gianni. Poi sono andata a casa e ho acceso il televisore e l’ho visto. Ho visto il furgone di Carlo, quello con cui faceva le consegne per la Basko, fermo lì, intonso, a un passo dal baratro. Una frazione di secondo in più, un metro in più, facevano la differenza.
Guardo Gianni, adesso, che mi sorride. Sotto le campate in cui fino a un anno fa giacevano quintali di polvere e detriti hanno costruito un parco. Una ragazza che fa jogging mi passa accanto, sento l’aria che si muove. Due ragazzini giocano a calcio. Due signori anziani si riposano in una panchina. Lì dove è collassato il pilone di sostegno numero 9, dove svettava il moncone che si vedeva quando prendevo il treno per Milano. L’assenza che ha riempito per un lungo l’anno il vuoto.
- Andiamo? – mi chiede Gianni.
- Sì – rispondo.
Torniamo in macchina e imbocchiamo l’entrata di Genova Ovest. È domenica mattina e sul viadotto il traffico scorre. La paura mi fa tremare le gambe. Guardo Gianni che guida tranquillo sul ponte nuovo. Forse anche questo un giorno non ci sarà più, sgretolato dall’usura del tempo, dalla pioggia, dalla salsedine portata dal vento. Poi guardo la città, le curve sinuose che accarezzano il mare, la linea retta della diga foranea che taglia in due la prospettiva, le colline tempestate da palazzi sgraziati, adagiati al suolo come tante navicelle aliene atterrate in tempi remoti, la vegetazione che resiste e si insinua in tutti gli interstizi del cemento. Tutto serve a comporre un’immagine che avevo rimosso e ora ritrovo. La traversata mi sembra infinita, tanti piccoli istanti, uno dietro all’altro. Non riesco a fare a meno di pensare che anche quell’istante che ha separato Carlo dall’abisso sia fatto della loro stessa sostanza. Ma sento anche la terra sospesa sotto di noi, la gettata di cemento che ci sorregge sul vuoto, solida sopra l’aria, su cui l’automobile scivola via leggera.