[MI157] La morte nel villaggio
Posted: Sun Oct 31, 2021 10:45 pm
il mio commento
Traccia di mezzogiorno
Come un bambino che non sta più nella pelle per l’emozione.
Da che è iniziata questa impossibile, fantastica, giornata, sulle mie labbra persiste il sorriso. Canterei di gioia, se potessi.
Invece il momento è epocale: lei sta per svelare il primo colpevole della sua fulgida carriera letteraria e io posso esserne testimone. Ospite nel salone, sprofondato in una comodissima poltrona dall’alto schienale, posso sentir recitare quel dialogo che ho quasi imparato a memoria.
Ecco, è il momento:
-…Oh! È intelligente, molto intelligente! Conservare quella lettera e adoperarla in questo modo è stato un lampo di genio- dice lei.
-Ma di chi vuol parlare?- esclama il vicario di St. Mary Mead.
-Dell’assassino, naturalmente– e con voce quieta soggiunge -Di Lawrence Redding, ecco di chi.
Nel silenzio meravigliato che segue, l’anziana donnina appare come un gigante tra omuncoli insignificanti. Tutti gravitano intorno a lei e alla spiegazione che sta dando di come siano andati gli eventi. Rammento la meraviglia della prima volta in cui lessi quelle pagine: ogni dettaglio era stato raccontato, nulla nascosto o taciuto, sarebbe bastato concatenare gli indizi per arrivare al colpevole! Invece, quando venne fatto il nome, rimasi esterrefatto.
E adesso me lo sto godendo dal vivo.
Un’ora più tardi camminiamo nel rosso tramonto della campagna inglese. Lungo una stradina di St. Mary Mead, l’accompagno a casa.
Sono in questo luogo dalla mattina, eppure ancora mi guardo intorno meravigliato. Le casette linde, i giardini curati, perfino le signore che passeggiano in completi di tweed e sotto cappellini dai nastri colorati. Ogni cosa è come dovrebbe essere, come la si immagina leggendo i romanzi. Tutto tranne lei. Sì, è vero, è così che la descrive l’autrice, con il vestito di broccato nero, i guanti e la cuffia di pizzo nero sopra capelli di color neve. Gli occhi azzurri benigni e gentili. Eppure, me l’aspettavo diversa: più massiccia, più volitiva. Mi rendo conto che è l’influenza dei vecchi film in bianco e nero, dove a interpretarla era quel donnone di Margaret Rutherford, ma trovarla così mingherlina e fragile mi ha spiazzato. Come può un simile esserino aver superato le avversità dei suoi romanzi?
-Ordunque, giovanotto- mi ridesta dai miei pensieri, -Come ha detto di chiamarsi?
Le ripeto il mio nome e lei scuote il capo non convinta. Sbuffa, e poi:
-Qual è l’assurda storia che l’avrebbe condotta qui, a St. Mary? La ripeta giovanotto.
Mi gratto la testa. È la quarta volta che me lo chiede. Capisco quanto possa essere difficile da accettare, ma una donna così intelligente non può non aver già compreso:
-Beh, miss Mar…- mi blocca, alzando la mano fin davanti ai miei occhi:
-Altolà, giovanotto. Niente Miss, le ho dato il permesso di chiamarmi Jane.
Ancora una volta mi gratto la nuca imbarazzato:
-Ehm, Jane… Io sono uno scrittore del mondo reale e ho vinto un concorso letterario che mi ha condotto qui.
-A St. Mary.
-Ecco, sì e no. Qui in un luogo che non esiste, creato da una scrittrice nel 1930. Questo romanzo, ad esempio, s’intitola La morte nel villaggio.
-Scempiaggini! Io esisto, sono concreta. Ecco, mi tocchi la spalla. Vede? Sono solida io, mica uno spettro. Com’è possibile quel che afferma?
Il mio imbarazzo cresce, perché in realtà non so darle alcuna spiegazione. Non ho idea di come funzioni questa cosa. Alzo le spalle.
Lei annuisce e riprendiamo il cammino, in silenzio. Sembra meditare sulle mie affermazioni, mentre io continuo a guardarmi attorno incantato.
Sono talmente perso nei miei pensieri che quasi la urto, quando si arresta d’improvviso:
-Ecco, siamo arrivati- dice mentre alza il saliscendi di un cancelletto di legno. Io reagisco con uno stupore ancora maggiore:
-Ma questo è il suo giardino… È incredibile, fantastico! È qui che trascorre il suo tempo a spiare le persone.
Dapprima diviene paonazza per l’esplicita accusa di essere una ficcanaso, poi la sua mente arguta riprende il controllo:
-Come lo sa, giovanotto?
-Ma gliel’ho detto- sorrido -io so tutto. Ho letto ogni suo libro più volte: “Il mio passatempo è sempre stato La Natura Umana. Così varia e così affascinante! … Si finisce per classificare le persone proprio come se fossero uccelli, fiori, gruppo...” è la sua spiegazione del genere umano, no?
Adesso tocca a lei rimanere stupefatta:
-Questa poi! E se stesse dicendo la verità, giovanotto? Se davvero…-
-Le assicuro che è vero.
-Ma le implicazioni…
-Implicazioni in che senso?
Sventaglia la mano per dire che non è nulla di importante:
-E a mezzanotte svanirà per tornare nella sua realtà? Senza lasciare traccia? Senza che qualcuno qui sappia mai della sua esistenza. O della sua scomparsa?-
-Così hanno detto gli organizzatori del premio- confermo, felice che finalmente accetti la realtà.
-Sconvolgente- biascica e, inaspettatamente, barcolla.
È un attimo, ma se non l’afferrassi al volo, stramazzerebbe. È troppo minuta, mi ripeto a conferma della mia prima impressione.
-Un cordiale. Ho bisogno di un cordiale. Mi aiuti a entrare in casa, giovanotto.
Non chiedo di meglio, ovviamente, e ben presto sono seduto su una poltroncina accanto a un’ampia vetrata. Gli ultimi raggi di sole allungano le ombre di un boschetto fin contro la staccionata, come lunghe dita che cerchino di afferrare qualcosa. O qualcuno. Rabbrividisco.
-Eccomi qui-, dice. Porta un vassoio con due tazze fumanti di tè -Che faccia rabbuiata, cosa le succede?
-Niente, uno strano pensiero.
-Oh, niente pensieri, adesso. Ho messo un cicchetto di cordiale anche per lei. Merita, sa? Assaggi.
Le sorrido, afferrando la tazza dal vassoio. Lo ha appoggiato sul piccolo tavolo tondo tra la mia e la sua poltrona. Sopra a un centrino dagli intrecci elaborati:
-Buonissimo, davvero, e che bello il centrino. Scommetto che lo ha fatto lei.
-O perbacco. Lei sa davvero tutto di me, non posso tenere alcun segreto- sorride divertita -e quindi sì, l’ho fatto io. Un lavoraccio sa? E io non sono in gamba come una volta. Anzi- si ferma, esita un istante, poi: -posso chiederle un favore?
-Certo, domandi pure.
-Ecco, in cantina ci sarebbe un baule da spostare. Se fosse così gentile…
Non la lascio terminare che già balzo in piedi. Le chiedo di farmi strada.
La scalinata è breve e ben illuminata, eppure quasi perdo l’equilibrio prima di averla terminata. Ansimante, poggio il piede malfermo sul pavimento. Mi sento sudare, la testa gira. Trovo l’appoggio del muro e mi ci aggrappo, ma le gambe cedono. Non reggono e mi trovo steso a terra.
-Appena in tempo- mi sorride lei davanti agli occhi. Sono l’unica parte di me che riesco a controllare, il resto delle membra è inerte. E io inerme di fronte al suo sorrisetto inquietante.
-Non sarei mai riuscita a trascinarla quaggiù, giovanotto, e avrei aborrito insanguinare la poltrona degli ospiti. Quindi la ringrazio, spero almeno che il tè le sia piaciuto. E mi perdoni per quel che sto per fare.
Inorridito, vedo la sua mano entrare nel mio campo visivo. Stringe un coltellaccio da cucina.
No, mi dico, non lei.
Ma ogni pensiero è cancellato dell’immenso dolore della lama. Lentamente la spinge nel mio fianco, lacerando poco alla volta pelle e carne. La fa penetrare per pochi centimetri, poi la estrae e si appresta a ripetere l’azione più in là. Mi vuole uccidere lentamente, vuole godersi ogni istante.
Non dice nulla, ma i suoi occhi azzurri sfavillano d’intensità. Lavora tranquilla, rilassata, perché io sono la vittima perfetta, il delitto perfetto: un uomo d’un altro modo che nessuno conosce e cercherà. Destinato a svanire a mezzanotte, anche se cadavere.
Tutto questo non ha senso.
Sento lacrime lungo le gote, non voglio morire.
Non ha senso.
Poi rammento il finale di questo suo primo romanzo:
“Sarei curioso di sapere” disse il vicario “se ci sarebbe qualcuno capace di scoprirla, se mai le venisse l’idea di commettere un omicidio, Miss Marple”
“Per l’amor del cielo!” esclamò lei, “Spero proprio che non sarò mai capace di commettere un’azione così malvagia”
“Ma poiché la natura umana è quella che è…”
Mi chiedo in quale momento abbia deciso d’uccidermi.
Traccia di mezzogiorno
Come un bambino che non sta più nella pelle per l’emozione.
Da che è iniziata questa impossibile, fantastica, giornata, sulle mie labbra persiste il sorriso. Canterei di gioia, se potessi.
Invece il momento è epocale: lei sta per svelare il primo colpevole della sua fulgida carriera letteraria e io posso esserne testimone. Ospite nel salone, sprofondato in una comodissima poltrona dall’alto schienale, posso sentir recitare quel dialogo che ho quasi imparato a memoria.
Ecco, è il momento:
-…Oh! È intelligente, molto intelligente! Conservare quella lettera e adoperarla in questo modo è stato un lampo di genio- dice lei.
-Ma di chi vuol parlare?- esclama il vicario di St. Mary Mead.
-Dell’assassino, naturalmente– e con voce quieta soggiunge -Di Lawrence Redding, ecco di chi.
Nel silenzio meravigliato che segue, l’anziana donnina appare come un gigante tra omuncoli insignificanti. Tutti gravitano intorno a lei e alla spiegazione che sta dando di come siano andati gli eventi. Rammento la meraviglia della prima volta in cui lessi quelle pagine: ogni dettaglio era stato raccontato, nulla nascosto o taciuto, sarebbe bastato concatenare gli indizi per arrivare al colpevole! Invece, quando venne fatto il nome, rimasi esterrefatto.
E adesso me lo sto godendo dal vivo.
Un’ora più tardi camminiamo nel rosso tramonto della campagna inglese. Lungo una stradina di St. Mary Mead, l’accompagno a casa.
Sono in questo luogo dalla mattina, eppure ancora mi guardo intorno meravigliato. Le casette linde, i giardini curati, perfino le signore che passeggiano in completi di tweed e sotto cappellini dai nastri colorati. Ogni cosa è come dovrebbe essere, come la si immagina leggendo i romanzi. Tutto tranne lei. Sì, è vero, è così che la descrive l’autrice, con il vestito di broccato nero, i guanti e la cuffia di pizzo nero sopra capelli di color neve. Gli occhi azzurri benigni e gentili. Eppure, me l’aspettavo diversa: più massiccia, più volitiva. Mi rendo conto che è l’influenza dei vecchi film in bianco e nero, dove a interpretarla era quel donnone di Margaret Rutherford, ma trovarla così mingherlina e fragile mi ha spiazzato. Come può un simile esserino aver superato le avversità dei suoi romanzi?
-Ordunque, giovanotto- mi ridesta dai miei pensieri, -Come ha detto di chiamarsi?
Le ripeto il mio nome e lei scuote il capo non convinta. Sbuffa, e poi:
-Qual è l’assurda storia che l’avrebbe condotta qui, a St. Mary? La ripeta giovanotto.
Mi gratto la testa. È la quarta volta che me lo chiede. Capisco quanto possa essere difficile da accettare, ma una donna così intelligente non può non aver già compreso:
-Beh, miss Mar…- mi blocca, alzando la mano fin davanti ai miei occhi:
-Altolà, giovanotto. Niente Miss, le ho dato il permesso di chiamarmi Jane.
Ancora una volta mi gratto la nuca imbarazzato:
-Ehm, Jane… Io sono uno scrittore del mondo reale e ho vinto un concorso letterario che mi ha condotto qui.
-A St. Mary.
-Ecco, sì e no. Qui in un luogo che non esiste, creato da una scrittrice nel 1930. Questo romanzo, ad esempio, s’intitola La morte nel villaggio.
-Scempiaggini! Io esisto, sono concreta. Ecco, mi tocchi la spalla. Vede? Sono solida io, mica uno spettro. Com’è possibile quel che afferma?
Il mio imbarazzo cresce, perché in realtà non so darle alcuna spiegazione. Non ho idea di come funzioni questa cosa. Alzo le spalle.
Lei annuisce e riprendiamo il cammino, in silenzio. Sembra meditare sulle mie affermazioni, mentre io continuo a guardarmi attorno incantato.
Sono talmente perso nei miei pensieri che quasi la urto, quando si arresta d’improvviso:
-Ecco, siamo arrivati- dice mentre alza il saliscendi di un cancelletto di legno. Io reagisco con uno stupore ancora maggiore:
-Ma questo è il suo giardino… È incredibile, fantastico! È qui che trascorre il suo tempo a spiare le persone.
Dapprima diviene paonazza per l’esplicita accusa di essere una ficcanaso, poi la sua mente arguta riprende il controllo:
-Come lo sa, giovanotto?
-Ma gliel’ho detto- sorrido -io so tutto. Ho letto ogni suo libro più volte: “Il mio passatempo è sempre stato La Natura Umana. Così varia e così affascinante! … Si finisce per classificare le persone proprio come se fossero uccelli, fiori, gruppo...” è la sua spiegazione del genere umano, no?
Adesso tocca a lei rimanere stupefatta:
-Questa poi! E se stesse dicendo la verità, giovanotto? Se davvero…-
-Le assicuro che è vero.
-Ma le implicazioni…
-Implicazioni in che senso?
Sventaglia la mano per dire che non è nulla di importante:
-E a mezzanotte svanirà per tornare nella sua realtà? Senza lasciare traccia? Senza che qualcuno qui sappia mai della sua esistenza. O della sua scomparsa?-
-Così hanno detto gli organizzatori del premio- confermo, felice che finalmente accetti la realtà.
-Sconvolgente- biascica e, inaspettatamente, barcolla.
È un attimo, ma se non l’afferrassi al volo, stramazzerebbe. È troppo minuta, mi ripeto a conferma della mia prima impressione.
-Un cordiale. Ho bisogno di un cordiale. Mi aiuti a entrare in casa, giovanotto.
Non chiedo di meglio, ovviamente, e ben presto sono seduto su una poltroncina accanto a un’ampia vetrata. Gli ultimi raggi di sole allungano le ombre di un boschetto fin contro la staccionata, come lunghe dita che cerchino di afferrare qualcosa. O qualcuno. Rabbrividisco.
-Eccomi qui-, dice. Porta un vassoio con due tazze fumanti di tè -Che faccia rabbuiata, cosa le succede?
-Niente, uno strano pensiero.
-Oh, niente pensieri, adesso. Ho messo un cicchetto di cordiale anche per lei. Merita, sa? Assaggi.
Le sorrido, afferrando la tazza dal vassoio. Lo ha appoggiato sul piccolo tavolo tondo tra la mia e la sua poltrona. Sopra a un centrino dagli intrecci elaborati:
-Buonissimo, davvero, e che bello il centrino. Scommetto che lo ha fatto lei.
-O perbacco. Lei sa davvero tutto di me, non posso tenere alcun segreto- sorride divertita -e quindi sì, l’ho fatto io. Un lavoraccio sa? E io non sono in gamba come una volta. Anzi- si ferma, esita un istante, poi: -posso chiederle un favore?
-Certo, domandi pure.
-Ecco, in cantina ci sarebbe un baule da spostare. Se fosse così gentile…
Non la lascio terminare che già balzo in piedi. Le chiedo di farmi strada.
La scalinata è breve e ben illuminata, eppure quasi perdo l’equilibrio prima di averla terminata. Ansimante, poggio il piede malfermo sul pavimento. Mi sento sudare, la testa gira. Trovo l’appoggio del muro e mi ci aggrappo, ma le gambe cedono. Non reggono e mi trovo steso a terra.
-Appena in tempo- mi sorride lei davanti agli occhi. Sono l’unica parte di me che riesco a controllare, il resto delle membra è inerte. E io inerme di fronte al suo sorrisetto inquietante.
-Non sarei mai riuscita a trascinarla quaggiù, giovanotto, e avrei aborrito insanguinare la poltrona degli ospiti. Quindi la ringrazio, spero almeno che il tè le sia piaciuto. E mi perdoni per quel che sto per fare.
Inorridito, vedo la sua mano entrare nel mio campo visivo. Stringe un coltellaccio da cucina.
No, mi dico, non lei.
Ma ogni pensiero è cancellato dell’immenso dolore della lama. Lentamente la spinge nel mio fianco, lacerando poco alla volta pelle e carne. La fa penetrare per pochi centimetri, poi la estrae e si appresta a ripetere l’azione più in là. Mi vuole uccidere lentamente, vuole godersi ogni istante.
Non dice nulla, ma i suoi occhi azzurri sfavillano d’intensità. Lavora tranquilla, rilassata, perché io sono la vittima perfetta, il delitto perfetto: un uomo d’un altro modo che nessuno conosce e cercherà. Destinato a svanire a mezzanotte, anche se cadavere.
Tutto questo non ha senso.
Sento lacrime lungo le gote, non voglio morire.
Non ha senso.
Poi rammento il finale di questo suo primo romanzo:
“Sarei curioso di sapere” disse il vicario “se ci sarebbe qualcuno capace di scoprirla, se mai le venisse l’idea di commettere un omicidio, Miss Marple”
“Per l’amor del cielo!” esclamò lei, “Spero proprio che non sarò mai capace di commettere un’azione così malvagia”
“Ma poiché la natura umana è quella che è…”
Mi chiedo in quale momento abbia deciso d’uccidermi.