[MI157] Lighea
Posted: Sun Oct 31, 2021 10:15 pm
Traccia di mezzogiorno
Insegno greco in un liceo di Augusta. Alcuni giorni fa ricevetti una visita in classe dalla preside; entrò senza bussare e si piazzò nel mezzo dell'aula, una mano poggiata sulla coscia e l'altra sul petto, come se volesse intonare l'inno nazionale.
Siccome stava con gli occhi chiusi e non parlava, feci cenno ai ragazzi di alzarsi in piedi: forse era successo qualcosa di grave ed era venuta ad avvertirci. Mi alzai anch'io e mi appoggiai alla cattedra, portando, per imitazione, una mano al petto.
Intanto la fissavo e attendevo. Mi sembrava difatti irrispettoso chiederle per quale maledetto motivo era venuta a interrompere la lezione, proprio adesso che perfino Bunfanti mi stava ascoltando in silenzio.
Non feci in tempo a maturare il mio fastidio che la preside spalancò gli occhi.
«Pieralli, sono qui per darle una notizia stre-pi-to-sa, una di quelle notizie che danno lustro a una scuola e riempiono di letizia chi, come me, ha l'onore e l'onere di esserne alla guida» disse, facendo scivolare con lentezza la mano dal petto alla pancia.
La classe cominciò a gorgogliare.
«Ricorda, Pieralli, quel questionario del Ministero che impegnò svariate ore di lavoro a lei e i suoi colleghi? Lo sapeva che era collegato a una ricerca indetta dalla Comunità Europea, a sua volta connessa con uno studio d'importanza mondiale condotto dagli Stati Uniti? Gli Stati Uniti, non so se rendo l'idea!»
Eccome se ricordavo. A causa di quel questionario idiota avevo finito di correggere i compiti in classe alle quattro di mattina. Feci comunque un sorriso di approvazione.
«Ebbene, non avevano specificato, di proposito, per non creare aspettative, che ci sarebbe stato un vincitore per ogni nazione coinvolta. Indovini chi è il vincitore per l'Italia, e sottolineo "l'Italia"?»
Non avrei saputo rispondere, neppure sotto tortura. Quindi la guardai, implorandola in silenzio di dirmelo e lasciarmi spiegare l'aoristo, anche se ormai l'attenzione di Bunfanti era morta e sepolta.
«È lei! Lei, Luigia Pieralli, la nostra grecista! La mite professoressa tutta casa e chiesa! Che trionfo per la nostra scuola, per Augusta, per la Sicilia e l'Italia tutta!»
La classe cominciò a battere le mani e si alzò in piedi al grido "viva la Pieralli!"; anche la preside, estasiata, batteva le mani e intanto saltellava.
Poi fece un cenno per placare gli animi e proseguì: «E non è finita. Non solo, cara Luigia, volerà negli USA insieme agli altri vincitori per stringere la mano al Presidente, ma ha diritto a un premio fa-vo-lo-so. Non ho altre parole per descriverlo. Gli Stati Uniti hanno messo a punto una macchina futuristica. Lei e gli altri avrete il privilegio di essere i primi a testarla, e riempirete, a cose fatte, un altro questionario. Venga, venga con me, l'inviato ci aspetta in Presidenza, il macchinario è già pronto. Se è in pensiero per la classe, stia tranquilla, non rimarrà scoperta: arriverà a breve la collega d'inglese. Ragazzi, un "urrà!" per la Pieralli! Mi segua, veloce.»
Mi ritrovai nell'aula presidenziale, seduta di fronte a un elegantissimo signore che manovrava un aggeggio simile a una slot machine. A parte l'uomo e io, nella stanza non vi era nessuno.
«Professoressa» disse lo sconosciuto senza salutare e neppure presentarsi «questa macchina è in grado di farle incontrare qualsiasi personaggio lei desideri delle favole, dei racconti, o della mitologia. Uno solo, però. Decida chi vuole e mi dica il nome. Si ricordi che potrà interagire e, volendo, anche toccare il prescelto.»
Pensai che mi stesse prendendo in giro, ma decisi di stare al gioco: la preside aveva detto alla classe, parlando di me, che ero "tutta casa e chiesa". Davo veramente l'impressione di essere, come dire, così monocroma? Un po' mi dispiaceva. Ecco l'occasione per dimostrare che potevo essere anche un tipo avventuroso.
Osservai l'uomo davanti a me, rigido come un manichino, intento a riempire non so quali moduli, e pensai al mare, alla mia Sicilia, all'amato greco, e a Lighea.
Lighea! Ecco chi avrei voluto incontrare.
«Ho deciso. Il nome è Lighea, la sirena del racconto di Tomasi di Lampedusa. Ma davvero riuscirò a vederla?»
«Ah ah ah! Non solo a vederla, ma anche a toccarla, se vuole. Non ha sentito quello che ho detto poco fa? Allora, procediamo. Chiuda gli occhi e indossi questo casco. È leggero, non le darà fastidio. L'esperienza durerà dieci minuti del nostro tempo, ma a lei potrà sembrare che ne sia passato di più. Dipende da quanto, e da come, riuscirà a interagire con il soggetto. Pronti? Via.»
Non credevo che avrei davvero incontrato Lighea, eppure così fu. Non appena percepii un chiarore esterno aprii gli occhi, e quasi piansi.
Ero in mezzo al mare, in una minuscola barca di legno, e intorno a me la luce limpida del mattino si specchiava nell'acqua trasparente. Non un rumore, ma solo il rollio della barchetta. Provai a toccarla, certa che fosse impossibile, come nei sogni: invece le dita incontrarono piccoli frammenti di vernice che si staccavano dalle fibre umide del legno.
Tremai un poco. Ricordavo alla perfezione, nel racconto, le piccole dita della sirena aggrapparsi alla barca, e il corpo flessuoso di quell'esserino famelico e amorale risalire dall'acqua salata. Ebbi paura, e mi toccai la testa: se avessi avuto ancora il casco, avrei di certo spinto qualche pulsante per tornare indietro. Ma sul capo avevo solo un cappello di cotone bianco e celeste, come l'aria intorno. Fu allora che vidi quelle dita sottili appoggiate al bordo, e a seguire gli occhi di madreperla e poi tutto il corpo, che in un guizzo leggero era entrato nell'imbarcazione. Mi fissava, con la schiena poggiata sul fondo e la lunga coda che baluginava al sole. Giovane, come nel racconto; deliziosa; con i seni piccoli e rosa, l'ombelico come un occhio profondo, il sorriso primordiale. Parlava greco, e intanto con le mani mi invitava a sedere accanto a lei. Ne fui intimorita e cominciai a remare verso riva, sempre più veloce, mentre lei, Lighea, cantava. Toccai terra e scesi di corsa, per raggiungere il paese, chiedere aiuto. Ma Lighea mi sorpassò muovendosi tra i sassi come un serpentello divertito; mi tagliò la strada e mi fece cadere. Provai a ragionare: parlava solo greco antico, quindi era quella la lingua in cui avrei potuto farmi capire. Ero supina sui sassi, e lei accanto a me, che cantava.
«Non conosci il mare, non sai cos'è la terra, né il cielo, né i baci... non t'invita alle sue danze Posidone, Calliope non ti carezza le guance...» Così cantava quella piccola belva, e intanto faceva rotolare da una mano all'altra i ciottoli bianchi e levigati.
E continuava: «Rosario mi amava, io lo amavo, così come ora amo te. Vuoi salvarti? Io sono qui per te...» Il suo sorriso era indifferente e infuocato come la lava che schizza fuori dal vulcano e sommerge gli uomini e le case. Mi voltai di scatto verso di lei e le afferrai il collo delicato: cominciai a stringere forte infilandole i pollici nella gola. Lei mi guardava divertita mentre con la bocca sillabava: «Non lo sai che sono immortale?». Lasciai la presa e rimasi supina, a guardare il cielo lucente.
Lighea cantava degli amori tra gli uomini e le sue sorelle sirene, mentre con le piccole dita cercava la mia mano. Quando mi trovò e mi strinse, tra le lacrime mi venne in mente Bunfanti e la sua faccia tonda e brufolosa. Era stato attento a lezione, quel ragazzino svogliato.
Mi voltai verso Lighea, la baciai sul naso fresco di mare, nascosi il viso tra i suoi capelli e attesi, sorridendo, il suono della campanella.
Insegno greco in un liceo di Augusta. Alcuni giorni fa ricevetti una visita in classe dalla preside; entrò senza bussare e si piazzò nel mezzo dell'aula, una mano poggiata sulla coscia e l'altra sul petto, come se volesse intonare l'inno nazionale.
Siccome stava con gli occhi chiusi e non parlava, feci cenno ai ragazzi di alzarsi in piedi: forse era successo qualcosa di grave ed era venuta ad avvertirci. Mi alzai anch'io e mi appoggiai alla cattedra, portando, per imitazione, una mano al petto.
Intanto la fissavo e attendevo. Mi sembrava difatti irrispettoso chiederle per quale maledetto motivo era venuta a interrompere la lezione, proprio adesso che perfino Bunfanti mi stava ascoltando in silenzio.
Non feci in tempo a maturare il mio fastidio che la preside spalancò gli occhi.
«Pieralli, sono qui per darle una notizia stre-pi-to-sa, una di quelle notizie che danno lustro a una scuola e riempiono di letizia chi, come me, ha l'onore e l'onere di esserne alla guida» disse, facendo scivolare con lentezza la mano dal petto alla pancia.
La classe cominciò a gorgogliare.
«Ricorda, Pieralli, quel questionario del Ministero che impegnò svariate ore di lavoro a lei e i suoi colleghi? Lo sapeva che era collegato a una ricerca indetta dalla Comunità Europea, a sua volta connessa con uno studio d'importanza mondiale condotto dagli Stati Uniti? Gli Stati Uniti, non so se rendo l'idea!»
Eccome se ricordavo. A causa di quel questionario idiota avevo finito di correggere i compiti in classe alle quattro di mattina. Feci comunque un sorriso di approvazione.
«Ebbene, non avevano specificato, di proposito, per non creare aspettative, che ci sarebbe stato un vincitore per ogni nazione coinvolta. Indovini chi è il vincitore per l'Italia, e sottolineo "l'Italia"?»
Non avrei saputo rispondere, neppure sotto tortura. Quindi la guardai, implorandola in silenzio di dirmelo e lasciarmi spiegare l'aoristo, anche se ormai l'attenzione di Bunfanti era morta e sepolta.
«È lei! Lei, Luigia Pieralli, la nostra grecista! La mite professoressa tutta casa e chiesa! Che trionfo per la nostra scuola, per Augusta, per la Sicilia e l'Italia tutta!»
La classe cominciò a battere le mani e si alzò in piedi al grido "viva la Pieralli!"; anche la preside, estasiata, batteva le mani e intanto saltellava.
Poi fece un cenno per placare gli animi e proseguì: «E non è finita. Non solo, cara Luigia, volerà negli USA insieme agli altri vincitori per stringere la mano al Presidente, ma ha diritto a un premio fa-vo-lo-so. Non ho altre parole per descriverlo. Gli Stati Uniti hanno messo a punto una macchina futuristica. Lei e gli altri avrete il privilegio di essere i primi a testarla, e riempirete, a cose fatte, un altro questionario. Venga, venga con me, l'inviato ci aspetta in Presidenza, il macchinario è già pronto. Se è in pensiero per la classe, stia tranquilla, non rimarrà scoperta: arriverà a breve la collega d'inglese. Ragazzi, un "urrà!" per la Pieralli! Mi segua, veloce.»
Mi ritrovai nell'aula presidenziale, seduta di fronte a un elegantissimo signore che manovrava un aggeggio simile a una slot machine. A parte l'uomo e io, nella stanza non vi era nessuno.
«Professoressa» disse lo sconosciuto senza salutare e neppure presentarsi «questa macchina è in grado di farle incontrare qualsiasi personaggio lei desideri delle favole, dei racconti, o della mitologia. Uno solo, però. Decida chi vuole e mi dica il nome. Si ricordi che potrà interagire e, volendo, anche toccare il prescelto.»
Pensai che mi stesse prendendo in giro, ma decisi di stare al gioco: la preside aveva detto alla classe, parlando di me, che ero "tutta casa e chiesa". Davo veramente l'impressione di essere, come dire, così monocroma? Un po' mi dispiaceva. Ecco l'occasione per dimostrare che potevo essere anche un tipo avventuroso.
Osservai l'uomo davanti a me, rigido come un manichino, intento a riempire non so quali moduli, e pensai al mare, alla mia Sicilia, all'amato greco, e a Lighea.
Lighea! Ecco chi avrei voluto incontrare.
«Ho deciso. Il nome è Lighea, la sirena del racconto di Tomasi di Lampedusa. Ma davvero riuscirò a vederla?»
«Ah ah ah! Non solo a vederla, ma anche a toccarla, se vuole. Non ha sentito quello che ho detto poco fa? Allora, procediamo. Chiuda gli occhi e indossi questo casco. È leggero, non le darà fastidio. L'esperienza durerà dieci minuti del nostro tempo, ma a lei potrà sembrare che ne sia passato di più. Dipende da quanto, e da come, riuscirà a interagire con il soggetto. Pronti? Via.»
Non credevo che avrei davvero incontrato Lighea, eppure così fu. Non appena percepii un chiarore esterno aprii gli occhi, e quasi piansi.
Ero in mezzo al mare, in una minuscola barca di legno, e intorno a me la luce limpida del mattino si specchiava nell'acqua trasparente. Non un rumore, ma solo il rollio della barchetta. Provai a toccarla, certa che fosse impossibile, come nei sogni: invece le dita incontrarono piccoli frammenti di vernice che si staccavano dalle fibre umide del legno.
Tremai un poco. Ricordavo alla perfezione, nel racconto, le piccole dita della sirena aggrapparsi alla barca, e il corpo flessuoso di quell'esserino famelico e amorale risalire dall'acqua salata. Ebbi paura, e mi toccai la testa: se avessi avuto ancora il casco, avrei di certo spinto qualche pulsante per tornare indietro. Ma sul capo avevo solo un cappello di cotone bianco e celeste, come l'aria intorno. Fu allora che vidi quelle dita sottili appoggiate al bordo, e a seguire gli occhi di madreperla e poi tutto il corpo, che in un guizzo leggero era entrato nell'imbarcazione. Mi fissava, con la schiena poggiata sul fondo e la lunga coda che baluginava al sole. Giovane, come nel racconto; deliziosa; con i seni piccoli e rosa, l'ombelico come un occhio profondo, il sorriso primordiale. Parlava greco, e intanto con le mani mi invitava a sedere accanto a lei. Ne fui intimorita e cominciai a remare verso riva, sempre più veloce, mentre lei, Lighea, cantava. Toccai terra e scesi di corsa, per raggiungere il paese, chiedere aiuto. Ma Lighea mi sorpassò muovendosi tra i sassi come un serpentello divertito; mi tagliò la strada e mi fece cadere. Provai a ragionare: parlava solo greco antico, quindi era quella la lingua in cui avrei potuto farmi capire. Ero supina sui sassi, e lei accanto a me, che cantava.
«Non conosci il mare, non sai cos'è la terra, né il cielo, né i baci... non t'invita alle sue danze Posidone, Calliope non ti carezza le guance...» Così cantava quella piccola belva, e intanto faceva rotolare da una mano all'altra i ciottoli bianchi e levigati.
E continuava: «Rosario mi amava, io lo amavo, così come ora amo te. Vuoi salvarti? Io sono qui per te...» Il suo sorriso era indifferente e infuocato come la lava che schizza fuori dal vulcano e sommerge gli uomini e le case. Mi voltai di scatto verso di lei e le afferrai il collo delicato: cominciai a stringere forte infilandole i pollici nella gola. Lei mi guardava divertita mentre con la bocca sillabava: «Non lo sai che sono immortale?». Lasciai la presa e rimasi supina, a guardare il cielo lucente.
Lighea cantava degli amori tra gli uomini e le sue sorelle sirene, mentre con le piccole dita cercava la mia mano. Quando mi trovò e mi strinse, tra le lacrime mi venne in mente Bunfanti e la sua faccia tonda e brufolosa. Era stato attento a lezione, quel ragazzino svogliato.
Mi voltai verso Lighea, la baciai sul naso fresco di mare, nascosi il viso tra i suoi capelli e attesi, sorridendo, il suono della campanella.
Lighea è la protagonista dell'omonimo racconto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, la sirena che riempì per sempre la vita del classicista Rosario La Ciura.