[MI157] Pastorale americana
Posted: Sun Oct 31, 2021 8:05 pm
Traccia di mezzogiorno
commento
Newark New Jersey 1973
Spalancai gli occhi su un vecchio muro di mattoni rossi, il fiato corto e la fronte fradicia di sudore. Ansimavo e tremavo. Nessun ricordo di come fossi arrivata lì, nessuna ragione che mi potesse spiegare quella gente, quegli abiti antiquati, le macchine dalle carrozzerie che non avevo mai visto. Cercai nella borsa...Borsa? Non avevo nessuna borsa, allora mi cacciai la mano in tasca, il cellulare doveva essere per forza li, e invece nulla. Voltandomi con quel po’ di energia che mi era rimasta, vidi una scalinata di pietra in cima alla quale c’era una porta in vetro e ferro.
La porta si aprì come se fosse stato il mio sguardo ad avere avuto il potere di farla aprire. Sella soglia apparve una donna robusta, di colore, che mi fissava seria sotto una gigantesca cupola di capelli corvini cotonati.
“Tu saresti…” si chinò a guardare un foglio che teneva in mano.
Ero così frastornata che non riuscivo nemmeno ad articolare il mio nome.
“Ines” disse lei. Ines Di Marco”. Ah già. Ero proprio io.
“Bene, sali” mi disse con una voce severa “hai vinto il concorso, siamo tutti in trepida attesa di conoscerti”. Si ravviò il nido corvino sul cranio. “Soprattutto lui”
La guardai muta, gli occhi sbarrati.
“Si cara, immagino che tu sia un po’ spaesata, succede così a tutti, ovunque andiate. C’è una specie di confusione fra il vostro mondo e questi arrivi,...ma sali, cara, sali”
Lentamente cominciai a salire i gradini.
“Si” riprese lei “abbiamo notato che voi vincitori di tutti questi concorsi, e siete tanti, arrivate alla vostra destinazione un po’ disorientati. Come se aveste dimenticato cosa vi ha portati qui. Qui, o dove avete scelto di andare, naturalmente, ma tu, cara, hai scelto di arrivare proprio qui.”
Intanto ero arrivata in cima alla scala e la donna mi tese la mano con un vigore tale da afferrarmi e trascinarmi dentro.
“Mi chiamo Viky, lavoro qui da...boh, da sempre. Ma vieni, lui ti aspetta”.
L’interno dell’edificio era un infernale misto di rumore, odore di acido e di marcescente, urla, richiami, risate e una specie di martellamento continuo che faceva vibrare ogni cosa.
Viky mi indicò un ufficio che era diviso dal resto del locale solo da vetri opachi,
Bussò e senza attendere risposta abbasso la maniglia.
“Signor Lebov? Ecco la nostra vincitrice"
E così dicendo mi sospinse all'interno dell’ufficio e uscì richiudendosi la porta alle spalle.
Io rimasi impalata sulla soglia, a fissare l’uomo seduto dietro una semplice scrivania in legno.
Lo Svedese. Era proprio lui.
Improvvisamente ricordai. Lo stupido concorso dal titolo altisonante.
Vinci un giorno con il tuo eroe letterario. Il racconto considerato migliore a insindacabile giudizio della giuria, si aggiudicherà un giorno con il protagonista di un libro a sua scelta.
Cazzo cazzo cazzo, certo che ricordavo, ma potevo? Potevo davvero credere che fosse una cosa vera? Ma proprio vera? Avevo pensato a una burla, un trucchetto, una cavolata qualsiasi, ma...cazzo. Quello lì era davvero lo Svedese! E quella era la fabbrica di guanti! E la donna era davvero….
Oddio, sono matta, ma matta sul serio. Sono pazza e sono in un manicomio e…
“No, tranquilla” disse l’uomo seduto, ridendo “è tutto a posto”.
Lo Svedese. Certo, avevo visto pure il film con Ewan Mc Gregor che se l’era cavata bene, io l'avevo trovato assai verosimile, ma questo qui. Questo qui era quello vero.
Questo era Lo Svedese.
Era esattamente come lo avevo immaginato, biondo spalle larghe, occhio ceruleo, sorriso bonario. Bonario? No, adesso a ripensarci, quel sorriso era tutto fuorché bonario. Mi ci soffermai solo un attimo, fu un’impressione che si dissolse non appena lui si alzò e mi prese delicatamente per un braccio.
“Vieni usciamo”.
Appena fuori dall’ufficio venimmo investiti dal rumore assordante, mentre il mio naso avvertì tutto il fastidio di quell'odore acre e pungente.
“È la concia” disse lui. Sembrava leggermi nel pensiero.
“Senta signor Lebov”
“Chiamami Svedese”
“Ok. Svedese, senta: ma una cosa come questa vi è mai capitata?”
“Beh. Si qualche volta, capita a noi tutti prima o poi. Perfino a Topolino, o Alan Ford” e scoppiò a ridere. “Si, è capitato, ma stavolta è diverso.”
“Diverso? Perché?”
“Quanti anni hai, Ines?”
“Ventiquattro, perché me lo chiede?”
“Niente, semplice curiosità”
Ci avviammo verso l’uscita, lui salutò gentilmente tutti gli operai e loro, tutti loro, gli risposero; smisero per un istante di lavorare e lo salutarono. Come nel libro, tutti lo amavano. Viky gli lanciò un bacio, un uomo anziano gli sfioro la mano senza distogliere lo sguardo dal macchinario che lo occupava, una donna gli regalò un sorriso un po’ sdentato. Era lo Svedese e tutti lo amavano. Tutti.
O quasi.
“Vieni” mi disse, “andiamo da lei. In fondo se ti interesso io, vuol dire che ti interessa lei. Io non sarei io senza di lei come lei non sarebbe lei senza di me.”
Vieni.” E mi strinse un po’ di più il braccio con cui mi guidava.
La strada era davvero terribile, un sobborgo putrido, puzzolente, gente accasciata per terra, topi più grandi del mio gatto che… Il mio gatto. Improvvisamente mi colse una nostalgia per la mia vita, per il mio mondo.
Il mio gatto, i miei genitori, l’università mai finita, Davide che mi aspettava con la bicicletta davanti al portone.
“Signor Lebov...Svedese, mi scusi. Preferirei rinunciare al premio, non so ma…”
“Oh no, signorina Ines. Questo non è possibile. È una clausola precisa del concorso, indietro non si torna.”
“Beh prima o poi si dovrà tornare. Io volevo solo anticipare.”
Non mi rispose e riprese a camminare in quel buco nero di squallore, stringendomi il braccio sempre più forte.
Poi arrivammo alla catapecchia.
Lui bussò forte.
Merry.
L'avevo immaginata così tante volte e ora eccola lì, conciata anche peggio di come la mia fantasia l'aveva creata. La fantasia dell’autore, colui che l’aveva creata davvero, aveva messo in lei tutta la sofferenza, il dolore, la degradazione, l’abbrutimento che un essere umano può manifestare.
Uno sguardo mite, da cane bastonato. Sfuggente. Il viso seminascosto da quella calza sudicia, sporca, puzzolente, l'emblema vivente della distruzione fisica e morale.
“Io non sarei io senza di lei, e lei non sarebbe lei senza di me”
Ripeté lo Svedese.
Poi si girò a fissarmi.
“Non le assomigli per niente.”
“No, in effetti” dissi io arretrando un po’.
“Non le assomigli. Non sei nemmeno bionda”
“No” ripetei.
“Ma che importa?”
Quando lui si avventò sulla ragazza fu così rapido che non feci in tempo a muovere un dito, ma era la mia mente che non capiva, che non si spiegava cosa stesse capitando.
Quella figlia così amata, così sofferta, mai abbandonata, mai dimenticata, difesa contro tutto e tutti. Salvata a qualsiasi costo, contro ogni logica, contro il mondo intero. Quella figlia che a sedici anni si svegliò una mattina e boom, mise una bomba in un ufficio postale uccidendo un uomo. Quella figlia che voleva combattere e distruggere l'imperialismo americano e invece aveva distrutto la vita di altre tre persone. Quella figlia nonostante tutto, nonostante la sofferenza, la delusione, l’incredulità, lo sgomento, quella figlia comunque amata.
Su quella figlia, senza apparente sforzo, si sollevarono le grandi mani dello Svedese. E su quel collo esile, minuto e sporco si strinsero, e si strinsero e si strinsero, fino a che lei cadde al suolo, e semplicemente sparì.
Ora io vivo in una deliziosa candida villetta qui, nel New Jersey.
Ho una madre ex reginetta di bellezza, ma io sono così carina che di sicuro sarò scritturata per qualche provino. Mio padre mi adora, e ogni sera, tornando a casa, accarezza i miei riccioli biondi, e sulle sue labbra riappare il solito sorriso bonario.
Ricordo che avevo un gatto, ma è un ricordo vago, così come, a tratti, mi viene in mente una casa diversa, e, questo davvero è curioso, ogni tanto quando mi guardo alla specchio, osservo i miei capelli e me li aspetto neri e lisci invece che biondi e ricci.
E mio padre, bonario, mi guarda e ripete:
“Io non sarei io senza di te, e tu non saresti tu senza di me”.
commento
Newark New Jersey 1973
Spalancai gli occhi su un vecchio muro di mattoni rossi, il fiato corto e la fronte fradicia di sudore. Ansimavo e tremavo. Nessun ricordo di come fossi arrivata lì, nessuna ragione che mi potesse spiegare quella gente, quegli abiti antiquati, le macchine dalle carrozzerie che non avevo mai visto. Cercai nella borsa...Borsa? Non avevo nessuna borsa, allora mi cacciai la mano in tasca, il cellulare doveva essere per forza li, e invece nulla. Voltandomi con quel po’ di energia che mi era rimasta, vidi una scalinata di pietra in cima alla quale c’era una porta in vetro e ferro.
La porta si aprì come se fosse stato il mio sguardo ad avere avuto il potere di farla aprire. Sella soglia apparve una donna robusta, di colore, che mi fissava seria sotto una gigantesca cupola di capelli corvini cotonati.
“Tu saresti…” si chinò a guardare un foglio che teneva in mano.
Ero così frastornata che non riuscivo nemmeno ad articolare il mio nome.
“Ines” disse lei. Ines Di Marco”. Ah già. Ero proprio io.
“Bene, sali” mi disse con una voce severa “hai vinto il concorso, siamo tutti in trepida attesa di conoscerti”. Si ravviò il nido corvino sul cranio. “Soprattutto lui”
La guardai muta, gli occhi sbarrati.
“Si cara, immagino che tu sia un po’ spaesata, succede così a tutti, ovunque andiate. C’è una specie di confusione fra il vostro mondo e questi arrivi,...ma sali, cara, sali”
Lentamente cominciai a salire i gradini.
“Si” riprese lei “abbiamo notato che voi vincitori di tutti questi concorsi, e siete tanti, arrivate alla vostra destinazione un po’ disorientati. Come se aveste dimenticato cosa vi ha portati qui. Qui, o dove avete scelto di andare, naturalmente, ma tu, cara, hai scelto di arrivare proprio qui.”
Intanto ero arrivata in cima alla scala e la donna mi tese la mano con un vigore tale da afferrarmi e trascinarmi dentro.
“Mi chiamo Viky, lavoro qui da...boh, da sempre. Ma vieni, lui ti aspetta”.
L’interno dell’edificio era un infernale misto di rumore, odore di acido e di marcescente, urla, richiami, risate e una specie di martellamento continuo che faceva vibrare ogni cosa.
Viky mi indicò un ufficio che era diviso dal resto del locale solo da vetri opachi,
Bussò e senza attendere risposta abbasso la maniglia.
“Signor Lebov? Ecco la nostra vincitrice"
E così dicendo mi sospinse all'interno dell’ufficio e uscì richiudendosi la porta alle spalle.
Io rimasi impalata sulla soglia, a fissare l’uomo seduto dietro una semplice scrivania in legno.
Lo Svedese. Era proprio lui.
Improvvisamente ricordai. Lo stupido concorso dal titolo altisonante.
Vinci un giorno con il tuo eroe letterario. Il racconto considerato migliore a insindacabile giudizio della giuria, si aggiudicherà un giorno con il protagonista di un libro a sua scelta.
Cazzo cazzo cazzo, certo che ricordavo, ma potevo? Potevo davvero credere che fosse una cosa vera? Ma proprio vera? Avevo pensato a una burla, un trucchetto, una cavolata qualsiasi, ma...cazzo. Quello lì era davvero lo Svedese! E quella era la fabbrica di guanti! E la donna era davvero….
Oddio, sono matta, ma matta sul serio. Sono pazza e sono in un manicomio e…
“No, tranquilla” disse l’uomo seduto, ridendo “è tutto a posto”.
Lo Svedese. Certo, avevo visto pure il film con Ewan Mc Gregor che se l’era cavata bene, io l'avevo trovato assai verosimile, ma questo qui. Questo qui era quello vero.
Questo era Lo Svedese.
Era esattamente come lo avevo immaginato, biondo spalle larghe, occhio ceruleo, sorriso bonario. Bonario? No, adesso a ripensarci, quel sorriso era tutto fuorché bonario. Mi ci soffermai solo un attimo, fu un’impressione che si dissolse non appena lui si alzò e mi prese delicatamente per un braccio.
“Vieni usciamo”.
Appena fuori dall’ufficio venimmo investiti dal rumore assordante, mentre il mio naso avvertì tutto il fastidio di quell'odore acre e pungente.
“È la concia” disse lui. Sembrava leggermi nel pensiero.
“Senta signor Lebov”
“Chiamami Svedese”
“Ok. Svedese, senta: ma una cosa come questa vi è mai capitata?”
“Beh. Si qualche volta, capita a noi tutti prima o poi. Perfino a Topolino, o Alan Ford” e scoppiò a ridere. “Si, è capitato, ma stavolta è diverso.”
“Diverso? Perché?”
“Quanti anni hai, Ines?”
“Ventiquattro, perché me lo chiede?”
“Niente, semplice curiosità”
Ci avviammo verso l’uscita, lui salutò gentilmente tutti gli operai e loro, tutti loro, gli risposero; smisero per un istante di lavorare e lo salutarono. Come nel libro, tutti lo amavano. Viky gli lanciò un bacio, un uomo anziano gli sfioro la mano senza distogliere lo sguardo dal macchinario che lo occupava, una donna gli regalò un sorriso un po’ sdentato. Era lo Svedese e tutti lo amavano. Tutti.
O quasi.
“Vieni” mi disse, “andiamo da lei. In fondo se ti interesso io, vuol dire che ti interessa lei. Io non sarei io senza di lei come lei non sarebbe lei senza di me.”
Vieni.” E mi strinse un po’ di più il braccio con cui mi guidava.
La strada era davvero terribile, un sobborgo putrido, puzzolente, gente accasciata per terra, topi più grandi del mio gatto che… Il mio gatto. Improvvisamente mi colse una nostalgia per la mia vita, per il mio mondo.
Il mio gatto, i miei genitori, l’università mai finita, Davide che mi aspettava con la bicicletta davanti al portone.
“Signor Lebov...Svedese, mi scusi. Preferirei rinunciare al premio, non so ma…”
“Oh no, signorina Ines. Questo non è possibile. È una clausola precisa del concorso, indietro non si torna.”
“Beh prima o poi si dovrà tornare. Io volevo solo anticipare.”
Non mi rispose e riprese a camminare in quel buco nero di squallore, stringendomi il braccio sempre più forte.
Poi arrivammo alla catapecchia.
Lui bussò forte.
Merry.
L'avevo immaginata così tante volte e ora eccola lì, conciata anche peggio di come la mia fantasia l'aveva creata. La fantasia dell’autore, colui che l’aveva creata davvero, aveva messo in lei tutta la sofferenza, il dolore, la degradazione, l’abbrutimento che un essere umano può manifestare.
Uno sguardo mite, da cane bastonato. Sfuggente. Il viso seminascosto da quella calza sudicia, sporca, puzzolente, l'emblema vivente della distruzione fisica e morale.
“Io non sarei io senza di lei, e lei non sarebbe lei senza di me”
Ripeté lo Svedese.
Poi si girò a fissarmi.
“Non le assomigli per niente.”
“No, in effetti” dissi io arretrando un po’.
“Non le assomigli. Non sei nemmeno bionda”
“No” ripetei.
“Ma che importa?”
Quando lui si avventò sulla ragazza fu così rapido che non feci in tempo a muovere un dito, ma era la mia mente che non capiva, che non si spiegava cosa stesse capitando.
Quella figlia così amata, così sofferta, mai abbandonata, mai dimenticata, difesa contro tutto e tutti. Salvata a qualsiasi costo, contro ogni logica, contro il mondo intero. Quella figlia che a sedici anni si svegliò una mattina e boom, mise una bomba in un ufficio postale uccidendo un uomo. Quella figlia che voleva combattere e distruggere l'imperialismo americano e invece aveva distrutto la vita di altre tre persone. Quella figlia nonostante tutto, nonostante la sofferenza, la delusione, l’incredulità, lo sgomento, quella figlia comunque amata.
Su quella figlia, senza apparente sforzo, si sollevarono le grandi mani dello Svedese. E su quel collo esile, minuto e sporco si strinsero, e si strinsero e si strinsero, fino a che lei cadde al suolo, e semplicemente sparì.
Ora io vivo in una deliziosa candida villetta qui, nel New Jersey.
Ho una madre ex reginetta di bellezza, ma io sono così carina che di sicuro sarò scritturata per qualche provino. Mio padre mi adora, e ogni sera, tornando a casa, accarezza i miei riccioli biondi, e sulle sue labbra riappare il solito sorriso bonario.
Ricordo che avevo un gatto, ma è un ricordo vago, così come, a tratti, mi viene in mente una casa diversa, e, questo davvero è curioso, ogni tanto quando mi guardo alla specchio, osservo i miei capelli e me li aspetto neri e lisci invece che biondi e ricci.
E mio padre, bonario, mi guarda e ripete:
“Io non sarei io senza di te, e tu non saresti tu senza di me”.