Secco
Posted: Sun Oct 10, 2021 4:56 pm
La fame è una brutta cosa. Anche quando sei te ad inseguirla.
Imparare a sopportarla ti forma, ti plasma come essere vivente. La senti ovunque, in pancia o sulla pelle, quando dormi o sei in giro per le strade del quartiere mentre immagini ogni molecola del tuo corpo con la bocca aperta, canini sporgenti e la schiuma bianca agli angoli delle fauci spalancate. La fame è sottovalutata. I lupi lo sanno. La fame è ineluttabile.
Tiri fuori dal frigo il pacchetto di carta: umori sanguinolenti colano sulle mattonelle.
La carne macellata di un leporide felice dal macellaio costa un po', non ha un cazzo a che vedere con quella del supermercato, ma quando cerchi di risparmiare sulla materia che dovresti assimilare sei tecnicamente un coglione.
Ha un odore particolare, la carne cruda. Sa di dolce. Erba e coccole. Bello pensare al coniglietto sul grembo di una bambina bionda con le gote imporporate, mentre rosicchia ciuffi d’insalata e semi di girasole. È quello che vorresti sentire o quello che senti davvero?
Estrai dalla carta i tocchi di carne che sciacqui sotto il getto caldo del rubinetto. Li asciughi con fogli di scottex, li massaggi un poco sul piatto dove li hai adagiati, sui polpastrelli senti i chicchi di sale grosso e particelle di pepe nero diventare parte dell’ammasso di carne morta. Entro poco metterai tutto il tuo impegno per dargli una dignità che migliore nessuno riuscirà mai ad immaginare.
Le carote vanno tagliate in un certo modo, rondelle perfette che non rendono conto solo al palato, mentre lo fai non devi sottovalutare la vista che soddisfa la mente. Poi c’è il sedano che quando lo triti fa un piacevole rumore di piccole ossa che si rompono. Anche sforzandoti non riesci ad immaginare onomatopee che ti solletichino l’anima allo stesso modo. Versi un bicchiere di aceto bianco come se fosse del vino costoso, ti ricordi dei capperi che andranno messi a metà cottura da cui devi scorporare il sale. La cosa fondamentale nella cucina è l’equilibrio. Immagini sia uno dei consigli che ti darebbe una nonna anche se la tua non l’hai mai conosciuta. Grazie al cazzo, nonna che non hai mai conosciuta, consigliare l’equilibrio è facile come consigliare di non accendere il phon mentre fai il bagno. Che si prenda delle responsabilità e ti dica qualcosa di sensato. Come faceva la mamma.
Ciò che pretendi sono certezze che non ti son state concesse.
La cipolla sfrigola quando metti le carote e il sedano. La pistola attaccata all’epidermide del basso ventre, la tieni lì sempre ogni volta che sai che la devi usare. È scomoda, lo fai per questo. Perché l’abitudine è una natura che puoi condizionare. Le comodità rendono pigri, gambizzano i sensi. Te lo diceva tua madre quando la guardavi cucinare. Delle comodità, non del gambizzare. Diceva anche peste e corna di suo marito, tuo padre, andato via troppo presto perché tu lo potessi davvero conoscere. Non hai rancore verso di lui che ti ha abbandonato perché col tempo hai capito che non te ne frega un cazzo. L’odio che nutri nei suoi confronti è stato lei ad instillarlo. L’unica cosa che ti ha lasciato quando ha deciso di non voler più vivere, oltre all’amore per la cucina.
Nel frattempo lavi il rosmarino e la salvia che asciughi con della carta. Prima li hai annusati per un po’ perché ti piacciono quegli odori, ti entrano dentro così prepotentemente che sospetti non si tratti solo di chimica. Forse c’è dell’altro ma ignori cosa sia.
Metti la carne in padella, le spezie, poi un po’ d’acqua. Prendi lo zucchero e ne ponderi una quantità precisa, chicco più chicco meno, infine l’aceto, altro intruglio magico dal sapore orribile ma capace d’innalzare i sapori di certi piatti come un’epifania.
Il forno è caldo, è lì che finirà tutto. Pensi per l’ennesima volta che entrarci dentro sarebbe la morte più insopportabile che riesci a immaginare, ma il fatto che le cose più buone che una volta ingurgitavi provenivano da lì disordinano le tue sicurezze.
Attrezzi affilati come rasoi e luoghi caldi come l’inferno: le cucine sono i posti più pericolosi del mondo e ci passiamo un sacco di tempo. Ma c’è ancora qualche coglione che applaude il pilota quando fa atterrare l’aereo su cui vola.
Tiri via la padella dal fuoco e adagi il contenuto nella leccarda che hai poggiato sul tavolo, il fondo spennellato d’olio e i ramoscelli d’origano; guardi il pennellino di plastica dentro un bicchiere, pensi a tua madre quando per fare la stessa operazione usava un tovagliolo di carta. Sorridi. In fondo al tuo cuore sei orgoglioso perché in cucina sei diventato più bravo di lei. Anche lei lo sarebbe. Sorridi di nuovo.
Tra non molto sarà tutto pronto per non mangiare.
Dopo anni l’hai trovato. Proprio quando avevi smesso di cercarlo. Incontrato per caso mentre facevi la spesa al grosso supermercato del quartiere.
Pensavi fosse andato altrove, lontano, perché è lì che lo hai cercato. Altrove. Forse è tornato perché la moglie morta suicida gli ha ricordato la tenerezza dei vecchi tempi, quando l’idea di un figlio e una moglie ad aspettarlo a casa non gli facevano ancora paura. Forse il rimorso ha punto il suo cuore come uno scorpione.
Pensieri vani, tua madre ti ha detto tutto di lui con una frase. “Uno a cui non frega niente di nessuno”.
Tua madre non ha trovato vendetta nemmeno col rimorso. «Ci penso io, mamma» dici a voce alta ma neppure il coniglio dentro al forno può sentirti.
Sono stato io a trovarti, papà. Per me è facile, ci sono le tue foto. Le facce dopo un po’ sono sempre le stesse, non cambiano più, a parte le rughe o i capelli che prendono il colore della cenere. Per te invece non è facile, papà. La mia faccia non è più la stessa e tu puoi ricordare solo le mie fattezze da bimbo perché non ne hai avuto il tempo. Non te lo sei dato.
Apri il forno: odore caldo e umido fugge verso di te. Tiri fuori la leccarda e la poggi sul tavolo con tutti gli onori, lo stesso rispetto di quei paesani devoti quando portano sulle spalle il fercolo del Santo e lo poggiano a terra, stremati, per riposare.
Se potessi assaggiare sapresti che è squisito.
So dove abiti. Senza rancore, papà.
Aspetti che il coniglio si raffreddi. Aspetti, attendi.
Le ombre in cucina cambiano, si allungano, si muovono. Sembrano pretendere la vita che le cose che le producono non hanno.
Il profumo della tua opera ti avvolge, lo respiri per trasformarlo in anidride carbonica. Scarto.
Prendi la forchetta, la infilzi in una coscia e un lembo di carne si stacca senza capricci. Avvicini il boccone al naso per nutrirti nell’unico modo in cui ti sei concesso. Inspiri. Buono.
Perfetto.
Riponi il boccone assieme al resto, ti avvicini al cestino dei rifiuti e butti tutto dentro. Hai deciso da tempo che ciò che crei non sarà per nessuno, nemmeno per te. Hai deciso che la distruzione è la tua via. Tutto ha una data di scadenza, tu sei quello che buca la confezione per accelerare il processo.
Prendi la pistola da sotto la maglietta, la guardi, la rigiri, scarrelli e la rimetti sotto la maglietta.
Nessun disegno, è solo natura.
Vai verso la porta e indossi il giubbotto, ti aiuterà a tener nascosta la forma dell’arma, e poi ultimamente soffri il freddo. Poggi la mano sulla maniglia ma prima di aprire ti guardi allo specchio: sei molto più magro dall’ultima volta che lo hai fatto. Gli occhi sono cerchiati di nero, vivi come mai ti son sembrati prima. Fremono, come quelli dei lupi quando si mettono in moto per la caccia. Le guance sembrano pozzanghere asciugate dal sole, il mento è più affilato, punta indomito davanti a te, come volesse indicarti il cammino che tra poco percorrerai.
Apri la porta, esci, ti giri e la richiudi. L’odore di ciò che hai preparato non lo senti più, ma la fame è sempre presente.
Ti chiedi ancora una volta quanto sarai capace di resistere. «Così leggero da poter volare» dici a voce alta mentre fai le scale per uscire fuori in strada.
viewtopic.php?p=22683#p22683
Imparare a sopportarla ti forma, ti plasma come essere vivente. La senti ovunque, in pancia o sulla pelle, quando dormi o sei in giro per le strade del quartiere mentre immagini ogni molecola del tuo corpo con la bocca aperta, canini sporgenti e la schiuma bianca agli angoli delle fauci spalancate. La fame è sottovalutata. I lupi lo sanno. La fame è ineluttabile.
Tiri fuori dal frigo il pacchetto di carta: umori sanguinolenti colano sulle mattonelle.
La carne macellata di un leporide felice dal macellaio costa un po', non ha un cazzo a che vedere con quella del supermercato, ma quando cerchi di risparmiare sulla materia che dovresti assimilare sei tecnicamente un coglione.
Ha un odore particolare, la carne cruda. Sa di dolce. Erba e coccole. Bello pensare al coniglietto sul grembo di una bambina bionda con le gote imporporate, mentre rosicchia ciuffi d’insalata e semi di girasole. È quello che vorresti sentire o quello che senti davvero?
Estrai dalla carta i tocchi di carne che sciacqui sotto il getto caldo del rubinetto. Li asciughi con fogli di scottex, li massaggi un poco sul piatto dove li hai adagiati, sui polpastrelli senti i chicchi di sale grosso e particelle di pepe nero diventare parte dell’ammasso di carne morta. Entro poco metterai tutto il tuo impegno per dargli una dignità che migliore nessuno riuscirà mai ad immaginare.
Le carote vanno tagliate in un certo modo, rondelle perfette che non rendono conto solo al palato, mentre lo fai non devi sottovalutare la vista che soddisfa la mente. Poi c’è il sedano che quando lo triti fa un piacevole rumore di piccole ossa che si rompono. Anche sforzandoti non riesci ad immaginare onomatopee che ti solletichino l’anima allo stesso modo. Versi un bicchiere di aceto bianco come se fosse del vino costoso, ti ricordi dei capperi che andranno messi a metà cottura da cui devi scorporare il sale. La cosa fondamentale nella cucina è l’equilibrio. Immagini sia uno dei consigli che ti darebbe una nonna anche se la tua non l’hai mai conosciuta. Grazie al cazzo, nonna che non hai mai conosciuta, consigliare l’equilibrio è facile come consigliare di non accendere il phon mentre fai il bagno. Che si prenda delle responsabilità e ti dica qualcosa di sensato. Come faceva la mamma.
Ciò che pretendi sono certezze che non ti son state concesse.
La cipolla sfrigola quando metti le carote e il sedano. La pistola attaccata all’epidermide del basso ventre, la tieni lì sempre ogni volta che sai che la devi usare. È scomoda, lo fai per questo. Perché l’abitudine è una natura che puoi condizionare. Le comodità rendono pigri, gambizzano i sensi. Te lo diceva tua madre quando la guardavi cucinare. Delle comodità, non del gambizzare. Diceva anche peste e corna di suo marito, tuo padre, andato via troppo presto perché tu lo potessi davvero conoscere. Non hai rancore verso di lui che ti ha abbandonato perché col tempo hai capito che non te ne frega un cazzo. L’odio che nutri nei suoi confronti è stato lei ad instillarlo. L’unica cosa che ti ha lasciato quando ha deciso di non voler più vivere, oltre all’amore per la cucina.
Nel frattempo lavi il rosmarino e la salvia che asciughi con della carta. Prima li hai annusati per un po’ perché ti piacciono quegli odori, ti entrano dentro così prepotentemente che sospetti non si tratti solo di chimica. Forse c’è dell’altro ma ignori cosa sia.
Metti la carne in padella, le spezie, poi un po’ d’acqua. Prendi lo zucchero e ne ponderi una quantità precisa, chicco più chicco meno, infine l’aceto, altro intruglio magico dal sapore orribile ma capace d’innalzare i sapori di certi piatti come un’epifania.
Il forno è caldo, è lì che finirà tutto. Pensi per l’ennesima volta che entrarci dentro sarebbe la morte più insopportabile che riesci a immaginare, ma il fatto che le cose più buone che una volta ingurgitavi provenivano da lì disordinano le tue sicurezze.
Attrezzi affilati come rasoi e luoghi caldi come l’inferno: le cucine sono i posti più pericolosi del mondo e ci passiamo un sacco di tempo. Ma c’è ancora qualche coglione che applaude il pilota quando fa atterrare l’aereo su cui vola.
Tiri via la padella dal fuoco e adagi il contenuto nella leccarda che hai poggiato sul tavolo, il fondo spennellato d’olio e i ramoscelli d’origano; guardi il pennellino di plastica dentro un bicchiere, pensi a tua madre quando per fare la stessa operazione usava un tovagliolo di carta. Sorridi. In fondo al tuo cuore sei orgoglioso perché in cucina sei diventato più bravo di lei. Anche lei lo sarebbe. Sorridi di nuovo.
Tra non molto sarà tutto pronto per non mangiare.
Dopo anni l’hai trovato. Proprio quando avevi smesso di cercarlo. Incontrato per caso mentre facevi la spesa al grosso supermercato del quartiere.
Pensavi fosse andato altrove, lontano, perché è lì che lo hai cercato. Altrove. Forse è tornato perché la moglie morta suicida gli ha ricordato la tenerezza dei vecchi tempi, quando l’idea di un figlio e una moglie ad aspettarlo a casa non gli facevano ancora paura. Forse il rimorso ha punto il suo cuore come uno scorpione.
Pensieri vani, tua madre ti ha detto tutto di lui con una frase. “Uno a cui non frega niente di nessuno”.
Tua madre non ha trovato vendetta nemmeno col rimorso. «Ci penso io, mamma» dici a voce alta ma neppure il coniglio dentro al forno può sentirti.
Sono stato io a trovarti, papà. Per me è facile, ci sono le tue foto. Le facce dopo un po’ sono sempre le stesse, non cambiano più, a parte le rughe o i capelli che prendono il colore della cenere. Per te invece non è facile, papà. La mia faccia non è più la stessa e tu puoi ricordare solo le mie fattezze da bimbo perché non ne hai avuto il tempo. Non te lo sei dato.
Apri il forno: odore caldo e umido fugge verso di te. Tiri fuori la leccarda e la poggi sul tavolo con tutti gli onori, lo stesso rispetto di quei paesani devoti quando portano sulle spalle il fercolo del Santo e lo poggiano a terra, stremati, per riposare.
Se potessi assaggiare sapresti che è squisito.
So dove abiti. Senza rancore, papà.
Aspetti che il coniglio si raffreddi. Aspetti, attendi.
Le ombre in cucina cambiano, si allungano, si muovono. Sembrano pretendere la vita che le cose che le producono non hanno.
Il profumo della tua opera ti avvolge, lo respiri per trasformarlo in anidride carbonica. Scarto.
Prendi la forchetta, la infilzi in una coscia e un lembo di carne si stacca senza capricci. Avvicini il boccone al naso per nutrirti nell’unico modo in cui ti sei concesso. Inspiri. Buono.
Perfetto.
Riponi il boccone assieme al resto, ti avvicini al cestino dei rifiuti e butti tutto dentro. Hai deciso da tempo che ciò che crei non sarà per nessuno, nemmeno per te. Hai deciso che la distruzione è la tua via. Tutto ha una data di scadenza, tu sei quello che buca la confezione per accelerare il processo.
Prendi la pistola da sotto la maglietta, la guardi, la rigiri, scarrelli e la rimetti sotto la maglietta.
Nessun disegno, è solo natura.
Vai verso la porta e indossi il giubbotto, ti aiuterà a tener nascosta la forma dell’arma, e poi ultimamente soffri il freddo. Poggi la mano sulla maniglia ma prima di aprire ti guardi allo specchio: sei molto più magro dall’ultima volta che lo hai fatto. Gli occhi sono cerchiati di nero, vivi come mai ti son sembrati prima. Fremono, come quelli dei lupi quando si mettono in moto per la caccia. Le guance sembrano pozzanghere asciugate dal sole, il mento è più affilato, punta indomito davanti a te, come volesse indicarti il cammino che tra poco percorrerai.
Apri la porta, esci, ti giri e la richiudi. L’odore di ciò che hai preparato non lo senti più, ma la fame è sempre presente.
Ti chiedi ancora una volta quanto sarai capace di resistere. «Così leggero da poter volare» dici a voce alta mentre fai le scale per uscire fuori in strada.
viewtopic.php?p=22683#p22683