[MI155] Buongiorno
Posted: Sun Oct 03, 2021 11:19 pm
Traccia di mezzogiorno: la fobia
Commento
Buongiorno
Tic. Tic. Tic.
Tre e quarantasette.
Tic. Tic.
Altri sette. O sei? Me ne sono perso uno?
Tic. Tic. Tic.
Quarantotto.
Merda, tre Tic in meno! Ma come è possibile? Dev'essere rotto.
Giovanni avvicinò il polso all'orecchio. Scosse l'orologio, poi il capo in segno di disappunto. Nessun rumore. L'errore era stato il suo. Gli capitava sempre più spesso.
Un soffio di notte lo raggiunse alla nuca e gli suggerì di rientrare.
Accese la televisione e se ne stette in piedi a fissarla. Davano un film in bianco e nero. Niente sonoro. E le immagini che scorrevano lente, senza fretta: ai suoi occhi strisciavano sinuose, accoglienti; con mano delicata gli carezzavano le palpebre e le accompagnavano l'una incontro all'altra, le aiutavano a chiudersi piano...
No!
Il telecomando volò. Giovanni scattò e spense il televisore.
Ansimando si precipitò in bagno a gettarsi acqua sul volto.
Devo stare attento!
Si accorse che le mani tremavano. Il battito del cuore gorgogliava nella gola simile allo scroscio che dal rubinetto saltava giù verso l'ignoto delle tubature. L' acqua scompariva attraverso il buco nel lavabo, nero e profondo come le borse sotto gli occhi del viso che Giovanni intravedeva allo specchio. Come l'acqua, anche lui sembrava spinto dalla corrente verso un abisso.
Stefania entrò in cucina mezza assonnata, stropicciando gli occhi. Toccando la moka si avvide che era tiepida. Si avvicinò alla finestra, un po' riluttante, e guardò.
Giovanni era fuori, intento a osservare i sassolini e le foglie che un breve temporale notturno doveva aver disseminato lungo il viale. Ciondolava avanti e indietro nella luce incerta del mattino, meno spenta di quanto non apparisse lui. I suoi passi strisciavano.
Stefania vide che non erano nemmeno le sei. Mancava ancora molto all'orario in cui, prima che quell'incubo cominciasse, la sveglia di suo marito era solita obbligarlo a svegliarsi e ad andare in ufficio.
Una lacrima le sfiorò la guancia ancora calda per il lungo contatto con il cuscino.
Le ruote del bus stridettero, e i nervi di Giovanni pure. Le porte si aprirono. Si trascinò dentro.
Rimase in piedi nonostante metà dei posti a sedere fossero vuoti. Stefania era riuscito a convincerlo a lasciare l'auto per un po':
"Uno nel tuo stato è meglio che non si metta alla guida".
L'ultima volta, quasi ci rimanevo secco...
Ma nessuno lo avrebbe costretto a mettersi comodo per un lungo tragitto. Il colpo di sonno era facile con il lento incedere del bus. Le palpebre calano presto. E dopo cosa succede?
Una brusca frenata lo fece penzolare in avanti. Un passeggero protestò:
"Ehi, autista, stai dormendo?"
A quella parola, un brivido percorse ogni centimetro della pelle di Giovanni.
L'autista rispose a tono:
"Non è colpa mia, è quello nella Volvo qua davanti che fa il bell'addormentato!"
Merda, smettetela!
Avvertì una frustata alla testa.
"Suonagli il clacson, magari si sveglia".
Stronzo.
Strisciò in coda all'autobus, ma la nausea e l'agitazione erano già in circolo nel sangue. Il respiro affannato. Si convinse a sedersi per un minuto. Dietro di lui una coppia di ragazzi chiacchierava:
"... e allora me la sono portata a letto!"
Fottuti bastardi!
La risata compiaciuta dell'altro fu interrotta da un cazzotto sul naso.
"Somnifobia". Lo disse con un filo di voce talmente sottile che l'altro dovette piegarsi sul tavolo per afferrarlo.
"Esiste davvero una cosa così?"
Giovanni non rispose. Il suo volto gonfio e tumefatto, gli occhi di pece e i vasi capillari scoppiati sotto gli zigomi erano una dimostrazione sufficiente.
"Okay, scusa, fammi capire, non riesci proprio..."
"No, non è che non riesco. Non voglio!" sottolineò Giovanni in un impeto d'orgoglio. Il collega si allentò il nodo della cravatta; lo osservava incredulo, come si trovasse di fronte a un fenomeno da baraccone.
"Io... ho paura".
L'altro aveva abbassato lo sguardo sulla tazza e stava riflettendo su cosa dire; Giovanni riusciva a percepirne l'imbarazzo.
"Okay, ma di che? Insomma, tutti quanti ci addorment..."
"ZItto!" Un pugno battè sul tavolo. "Non dire quella parola, anzi non dire proprio un cazzo!"
Era rosso come una zucca. Il respiro gli si strozzava in gola; la rabbia cavalcò sull'epidermide e lo spinse a urlare ancora di più:
"Di che cosa ho paura? Ma tu che cazzo ne sai di cosa succede quando chiudi quegli occhi, eh! Sai cosa ti succede intorno nel frattempo? Sai che otto ore a notte sono duecentoquaranta ore in un mese, duemilaottocentottanta in un anno? Se hai la fortuna di campare abbastanza passi più di duecentomila ore con quei cazzo di occhi chiusi, mentre tutto il resto del mondo non se ne sta immobile come te, e allora chissà cosa diavolo ti può succedere! In quel tempo magari qualcuno entra in casa e ti fa secco, oppure la casa stessa ti crolla addosso senza che riesci a metterti in salvo. Oppure ti stecchisci da solo perché capita che solo per qualche minuto la lingua ti scivola in gola e ti strozzi, oppure uno dei polmoni si atrofizza o il cuore si dimentica di pompare il sangue o ti gioca un tiro mancino e come la risolvi, eh, stronzo?"
Nel bar era calato il gelo. Tutti fissavano lo spaventapasseri che farfugliava. L'altro si alzò:
"Amico mio, tu sei matto. Fatti curare".
"Scusami, non volevo. Io..."
L'altro si ammorbidì. Giovanni aveva davvero una pessima cera, era evidente che la sofferenza lo divorava.
"Fa niente. Davvero, Gianni, se ci tieni al lavoro fai qualcosa, eh? Il capo è incazzato. Troppe assenze, e poi quando ci sei è pure peggio. Non ne azzecchi più una, non sei lucido. A domani, okay?"
E uscì.
"Non si siede? Le poltrone sono comode".
Proprio per quello. Quanto vorrei.
"No grazie, sto bene".
Il ragazzo lo scrutò. Giovanni immaginò che stesse cercando di indovinare di quale fobia soffrisse. L'altro anticipò la stessa curiosità:
"Aghi, siringhe. Tutto ciò che è appuntito mi fa dare di matto!"
"Mi spiace".
Un signore gli si avvicinò, visibilmente a disagio:
"Mi perdoni, potrei chiederle la cortesia di... ehm... togliere la camicia?"
"Come?"
Quello indicò i bottoni. Il dito tremava.
"Mi terrorizzano. La prego, sarebbe gentile. Oh, non importa, andrò a sedermi laggiù. Oh, se davvero il dottore riuscisse a guarirmi!" e andò a rifugiarsi nell'angolo.
Del vuoto. Del giallo. Dei numeri. Ce n'era per tutti i gusti: ognuno nella sala d'attesa sperava che la psicoanalisi lo guarisse da una fobia e lo riportasse a un'esistenza normale. Tra tutti, Giovanni notò una ragazza che se ne stava in disparte, dall'aspetto comune. Andò a sederle accanto.
"Scusami, ma tu mi sembri l'unica qui a non aver bisogno di uno strizzacervelli. Di cosa hai paura?"
L'altra alzò lo sguardo umido:
"Di perdere tutto".
Al cigolio della porta il corpo addormentato di sua moglie rispose muovendosi appena sotto le coperte. Giovanni la guardò, così piccola su un letto troppo grande.
SI avvicinò alla sua metà del letto, vi passò una mano sopra. Era liscia e fredda, come ogni notte. Stavolta però la mano proseguì fino al cuscino, e da lì passò ad accarezzare i capelli di Stefania. Giovanni prese un respiro profondo. Si sdraio sul letto, lento, attento a non far rumore. Dagli occhi le lacrime iniziarono a scendere copiose. Il respiro si fece affannato.
Posso farcela.
Il nodo alla gola strinse.
Devo farcela.
Chiuse gli occhi, e si addormentò.
Un boato squarciò la notte. La terra cominciò a tremare, e qualcosa colpì Giovanni che si svegliò di colpo. Avvertì la sensazione di un peso che lo schiacciasse, eppure non c'era nulla di visibile nel buio della stanza a parte due occhi, quegli occhi rosso fuoco che lo fissavano dalla profondità più oscura delle tenebre, prima due e poi quattro, poi otto, e raddoppiavano ancora, e una risata maligna accompagnava lo stridore di una lama gelida che premeva sul petto con forza, sempre più forte, e poi salì di colpo e gli aprì la gola...
Questo sognò Giovanni, quella notte. Si risvegliò sudato, ma le labbra di Stefania gli diedero il buongiorno, dopo tanto tempo.
Commento
Buongiorno
Tic. Tic. Tic.
Tre e quarantasette.
Tic. Tic.
Altri sette. O sei? Me ne sono perso uno?
Tic. Tic. Tic.
Quarantotto.
Merda, tre Tic in meno! Ma come è possibile? Dev'essere rotto.
Giovanni avvicinò il polso all'orecchio. Scosse l'orologio, poi il capo in segno di disappunto. Nessun rumore. L'errore era stato il suo. Gli capitava sempre più spesso.
Un soffio di notte lo raggiunse alla nuca e gli suggerì di rientrare.
Accese la televisione e se ne stette in piedi a fissarla. Davano un film in bianco e nero. Niente sonoro. E le immagini che scorrevano lente, senza fretta: ai suoi occhi strisciavano sinuose, accoglienti; con mano delicata gli carezzavano le palpebre e le accompagnavano l'una incontro all'altra, le aiutavano a chiudersi piano...
No!
Il telecomando volò. Giovanni scattò e spense il televisore.
Ansimando si precipitò in bagno a gettarsi acqua sul volto.
Devo stare attento!
Si accorse che le mani tremavano. Il battito del cuore gorgogliava nella gola simile allo scroscio che dal rubinetto saltava giù verso l'ignoto delle tubature. L' acqua scompariva attraverso il buco nel lavabo, nero e profondo come le borse sotto gli occhi del viso che Giovanni intravedeva allo specchio. Come l'acqua, anche lui sembrava spinto dalla corrente verso un abisso.
Stefania entrò in cucina mezza assonnata, stropicciando gli occhi. Toccando la moka si avvide che era tiepida. Si avvicinò alla finestra, un po' riluttante, e guardò.
Giovanni era fuori, intento a osservare i sassolini e le foglie che un breve temporale notturno doveva aver disseminato lungo il viale. Ciondolava avanti e indietro nella luce incerta del mattino, meno spenta di quanto non apparisse lui. I suoi passi strisciavano.
Stefania vide che non erano nemmeno le sei. Mancava ancora molto all'orario in cui, prima che quell'incubo cominciasse, la sveglia di suo marito era solita obbligarlo a svegliarsi e ad andare in ufficio.
Una lacrima le sfiorò la guancia ancora calda per il lungo contatto con il cuscino.
Le ruote del bus stridettero, e i nervi di Giovanni pure. Le porte si aprirono. Si trascinò dentro.
Rimase in piedi nonostante metà dei posti a sedere fossero vuoti. Stefania era riuscito a convincerlo a lasciare l'auto per un po':
"Uno nel tuo stato è meglio che non si metta alla guida".
L'ultima volta, quasi ci rimanevo secco...
Ma nessuno lo avrebbe costretto a mettersi comodo per un lungo tragitto. Il colpo di sonno era facile con il lento incedere del bus. Le palpebre calano presto. E dopo cosa succede?
Una brusca frenata lo fece penzolare in avanti. Un passeggero protestò:
"Ehi, autista, stai dormendo?"
A quella parola, un brivido percorse ogni centimetro della pelle di Giovanni.
L'autista rispose a tono:
"Non è colpa mia, è quello nella Volvo qua davanti che fa il bell'addormentato!"
Merda, smettetela!
Avvertì una frustata alla testa.
"Suonagli il clacson, magari si sveglia".
Stronzo.
Strisciò in coda all'autobus, ma la nausea e l'agitazione erano già in circolo nel sangue. Il respiro affannato. Si convinse a sedersi per un minuto. Dietro di lui una coppia di ragazzi chiacchierava:
"... e allora me la sono portata a letto!"
Fottuti bastardi!
La risata compiaciuta dell'altro fu interrotta da un cazzotto sul naso.
"Somnifobia". Lo disse con un filo di voce talmente sottile che l'altro dovette piegarsi sul tavolo per afferrarlo.
"Esiste davvero una cosa così?"
Giovanni non rispose. Il suo volto gonfio e tumefatto, gli occhi di pece e i vasi capillari scoppiati sotto gli zigomi erano una dimostrazione sufficiente.
"Okay, scusa, fammi capire, non riesci proprio..."
"No, non è che non riesco. Non voglio!" sottolineò Giovanni in un impeto d'orgoglio. Il collega si allentò il nodo della cravatta; lo osservava incredulo, come si trovasse di fronte a un fenomeno da baraccone.
"Io... ho paura".
L'altro aveva abbassato lo sguardo sulla tazza e stava riflettendo su cosa dire; Giovanni riusciva a percepirne l'imbarazzo.
"Okay, ma di che? Insomma, tutti quanti ci addorment..."
"ZItto!" Un pugno battè sul tavolo. "Non dire quella parola, anzi non dire proprio un cazzo!"
Era rosso come una zucca. Il respiro gli si strozzava in gola; la rabbia cavalcò sull'epidermide e lo spinse a urlare ancora di più:
"Di che cosa ho paura? Ma tu che cazzo ne sai di cosa succede quando chiudi quegli occhi, eh! Sai cosa ti succede intorno nel frattempo? Sai che otto ore a notte sono duecentoquaranta ore in un mese, duemilaottocentottanta in un anno? Se hai la fortuna di campare abbastanza passi più di duecentomila ore con quei cazzo di occhi chiusi, mentre tutto il resto del mondo non se ne sta immobile come te, e allora chissà cosa diavolo ti può succedere! In quel tempo magari qualcuno entra in casa e ti fa secco, oppure la casa stessa ti crolla addosso senza che riesci a metterti in salvo. Oppure ti stecchisci da solo perché capita che solo per qualche minuto la lingua ti scivola in gola e ti strozzi, oppure uno dei polmoni si atrofizza o il cuore si dimentica di pompare il sangue o ti gioca un tiro mancino e come la risolvi, eh, stronzo?"
Nel bar era calato il gelo. Tutti fissavano lo spaventapasseri che farfugliava. L'altro si alzò:
"Amico mio, tu sei matto. Fatti curare".
"Scusami, non volevo. Io..."
L'altro si ammorbidì. Giovanni aveva davvero una pessima cera, era evidente che la sofferenza lo divorava.
"Fa niente. Davvero, Gianni, se ci tieni al lavoro fai qualcosa, eh? Il capo è incazzato. Troppe assenze, e poi quando ci sei è pure peggio. Non ne azzecchi più una, non sei lucido. A domani, okay?"
E uscì.
"Non si siede? Le poltrone sono comode".
Proprio per quello. Quanto vorrei.
"No grazie, sto bene".
Il ragazzo lo scrutò. Giovanni immaginò che stesse cercando di indovinare di quale fobia soffrisse. L'altro anticipò la stessa curiosità:
"Aghi, siringhe. Tutto ciò che è appuntito mi fa dare di matto!"
"Mi spiace".
Un signore gli si avvicinò, visibilmente a disagio:
"Mi perdoni, potrei chiederle la cortesia di... ehm... togliere la camicia?"
"Come?"
Quello indicò i bottoni. Il dito tremava.
"Mi terrorizzano. La prego, sarebbe gentile. Oh, non importa, andrò a sedermi laggiù. Oh, se davvero il dottore riuscisse a guarirmi!" e andò a rifugiarsi nell'angolo.
Del vuoto. Del giallo. Dei numeri. Ce n'era per tutti i gusti: ognuno nella sala d'attesa sperava che la psicoanalisi lo guarisse da una fobia e lo riportasse a un'esistenza normale. Tra tutti, Giovanni notò una ragazza che se ne stava in disparte, dall'aspetto comune. Andò a sederle accanto.
"Scusami, ma tu mi sembri l'unica qui a non aver bisogno di uno strizzacervelli. Di cosa hai paura?"
L'altra alzò lo sguardo umido:
"Di perdere tutto".
Al cigolio della porta il corpo addormentato di sua moglie rispose muovendosi appena sotto le coperte. Giovanni la guardò, così piccola su un letto troppo grande.
SI avvicinò alla sua metà del letto, vi passò una mano sopra. Era liscia e fredda, come ogni notte. Stavolta però la mano proseguì fino al cuscino, e da lì passò ad accarezzare i capelli di Stefania. Giovanni prese un respiro profondo. Si sdraio sul letto, lento, attento a non far rumore. Dagli occhi le lacrime iniziarono a scendere copiose. Il respiro si fece affannato.
Posso farcela.
Il nodo alla gola strinse.
Devo farcela.
Chiuse gli occhi, e si addormentò.
Un boato squarciò la notte. La terra cominciò a tremare, e qualcosa colpì Giovanni che si svegliò di colpo. Avvertì la sensazione di un peso che lo schiacciasse, eppure non c'era nulla di visibile nel buio della stanza a parte due occhi, quegli occhi rosso fuoco che lo fissavano dalla profondità più oscura delle tenebre, prima due e poi quattro, poi otto, e raddoppiavano ancora, e una risata maligna accompagnava lo stridore di una lama gelida che premeva sul petto con forza, sempre più forte, e poi salì di colpo e gli aprì la gola...
Questo sognò Giovanni, quella notte. Si risvegliò sudato, ma le labbra di Stefania gli diedero il buongiorno, dopo tanto tempo.