[MI 155] Piano di fuga
Posted: Sun Oct 03, 2021 10:05 pm
Traccia di mezzogiorno: Fobia
Piano di fuga
Quando Daniele si trovò dinnanzi alla casa di Giorgio stentò a credere ai suoi occhi. Suo fratello era riuscito a creare un rifugio a sua misura. La casupola sorgeva su un pendio e il pavimento ne sfruttava la naturale inclinazione. Dall'esterno muri, porte e finestre mantenevano una parvenza di normalità grazie alle linee verticali a cui tendevano ma il resto era il frutto di un'alchimia di angoli e segmenti in opposizione. Anche il tetto spiovente contribuiva a mitigarne la stravaganza. Da fuori poteva ancora sembrare solo l'opera di un architetto in vena di sperimentazione. Una volta dentro, invece, le linee inclinate diventavano un tripudio per gli occhi. Sia la struttura della casa che ogni singolo dettaglio dell'arredamento rifuggiva il piano cartesiano delle ascisse. Daniele si figurò con una bolla da falegname in mano, perso a misurare i gradi di fuga di quel tentativo folle di Giorgio di scappare dall'ordine precostituito del mondo.
Si ricordò le lunghe discussioni a letto prima di addormentarsi nella loro cameretta dell'infanzia prima e della giovinezza poi. A letto si poteva dire per lui, per la verità, perché Giorgio aveva modificato il proprio giaciglio con strati di coperte e cuscini trafugati in giro in un solido trapezioidale.
- Tu non puoi capire, - gli diceva Giorgio - non è una fissazione, io semplicemente non lo tollero, non posso vederlo né tanto meno toccarlo.
- Ma vedere e toccare cosa esattamente? - rispondeva Daniele - Prendi il tavolo, per esempio: tu gridi, strepiti e poi basta un libro sotto a una gamba e allora lo puoi vedere e toccare tranquillamente. Non ha senso!
- Non capisci, vedi? Sei come tutti gli altri, come la mamma e papà, come le maestre.
Daniele ci rimaneva male a sentirlo dire così. Non era affatto vero, lui gli voleva bene e lo capiva. O meglio non capiva il motivo di quella ossessione, ma vi intuiva un fondo di verità e per quanto poteva cercava di rendergli la vita più semplice possibile. Andava con lui a giocare nelle salite del paese o nei pendii più impervi dei boschi, attaccava i poster tutti storti nel suo lato della cameretta e spostava con il dito i quadri in salotto, quel poco che bastava a non fare infuriare la mamma e a renderli tollerabili per lui.
Ora, davanti alla casa di Giorgio, dopo il primo momento di sgomento, provò un moto di soddisfazione. Il fratello, del tutto autodidatta, non era neanche riuscito a prendere la licenza media, aveva costruito da solo una casa degna di un architetto modernista.
Se ancora ancora nella casa dei genitori si era creato un suo microcosmo vivibile, a scuola la vita era impossibile. Non bastava modificare l'inclinazione del suo banco, c'erano anche i banchi dei compagni e soprattutto la cattedra. Le cartine geografiche appese al muro non erano un problema, quelle erano già sghembe di per sé, ma la lavagna fissata al muro era una gatta da pelare. Prendeva note di continuo: per aver spezzato il crocifisso, scardinato la porta, sabotato i piedini del proiettore nella sala diapositive. Per non parlare dei brutti voti per i compiti in classe e i quaderni. Righe e quadretti non esistevano per lui. Usava solo fogli bianchi a cui modificava i contorni con le forbici.
Anche a casa non erano sempre rose e fiori. Se con Daniele nella loro stanza avevano un loro particolare equilibrio, così non era con i genitori. Non c'era verso di guardare un film in TV e a tavola la tensione era palpabile. Si sedeva sulle gambe anteriori della sedia, suscitando le ire del padre, e pretendeva di mangiare col piatto mezzo sollevato. Il che era in parte fattibile con pasta e minestra, ma più complesso con la bistecca e il contorno di zucca e patate.
A quei tempi non usava più di tanto cercare di spiegare certe stranezze. I genitori infatti non portarono Giorgio dallo psicologo. La mamma ne aveva forse parlato una volta col pediatra, il quale aveva consigliato una cura ricostituente a base di vitamine.
L'unico che aveva intuito, seppure a suo modo, la natura delle stranezze di Giorgio fu il padre.
- Lo so io di cosa ha bisogno questo ragazzino - disse una volta battendo il pugno sul tavolo sgangherato dai continui tentativi di Giorgio di inclinarne l'orizzontalità.
- Annarosa, - disse alla moglie - prepara qualche panino che andiamo tutti a fare una gita.
Cercando di unire l'utile al dilettevole, il padre di Giorgio pensò di portare tutta la famiglia sul litorale. Due ore e mezzo di macchina erano una sfacchinata ma ne sarebbe valsa la pena. Giorgio avrebbe affrontato una volta per tutte le sue paure.
Il viaggio fu lungo e penoso. Giorgio era infatti convinto che solo ciò che era artificiale andasse a urtare la sua sensibilità: case, muri, lavagne, cattedre, fogli a righe, pavimenti. In natura non esistevano linee rette, tantomeno quelle che tanto temeva lui. Per questo si trovava a suo agio nei boschi. Ma intuiva il motivo del viaggio, aveva letto qualcosa a riguardo sui libri di scuola.
Arrivarono direttamente in spiaggia. Il padre scese dalla macchina trionfante. Giorgio venne fuori controvoglia con lo sguardo rivolto in basso.
- Guarda, Giorgio, guarda! - lo intimò il padre.
- Oh, santo cielo! - piagnucolò Annarosa, forse grazie a una forma di presentimento materno - Quella vista lo ucciderà!
Ma il padre, convinto del potere terapeutico della vista dell'orizzonte nel mare, unica manifestazione naturale della geometria euclidea in Terra, gli afferrò il viso e lo costrinse a guardare. Giorgio rimase a lungo impietrito, paralizzato dal panico. Quando si riprese scappò via, lontano da quel panorama intollerabile.
Quella fu l'ultima volta che lo videro.
Finché arrivò a Daniele una strana lettera. Lui capì subito che era del fratello dalla busta tondeggiante. Ironia della sorte nel foglio c'erano dei numeri, le coordinate della dimora di Giorgio, la casupola di fronte a cui si trovava Daniele adesso.
La porta, se così si può chiamare, era aperta. Daniele entrò e iniziò a chiamare il fratello. Siccome non rispondeva esplorò le stanze. Finché lo vide accasciato su una sghemba poltroncina. Il suo corpo era accoccolato in una posizione quasi fetale. Rifuggiva ancora quell'orizzontalità che tanto aborriva. Se ciò che era inclinato o verticale era un inno alla vita, l'orizzontale, ora Daniele lo capiva, era preludio di morte.
Piano di fuga
Quando Daniele si trovò dinnanzi alla casa di Giorgio stentò a credere ai suoi occhi. Suo fratello era riuscito a creare un rifugio a sua misura. La casupola sorgeva su un pendio e il pavimento ne sfruttava la naturale inclinazione. Dall'esterno muri, porte e finestre mantenevano una parvenza di normalità grazie alle linee verticali a cui tendevano ma il resto era il frutto di un'alchimia di angoli e segmenti in opposizione. Anche il tetto spiovente contribuiva a mitigarne la stravaganza. Da fuori poteva ancora sembrare solo l'opera di un architetto in vena di sperimentazione. Una volta dentro, invece, le linee inclinate diventavano un tripudio per gli occhi. Sia la struttura della casa che ogni singolo dettaglio dell'arredamento rifuggiva il piano cartesiano delle ascisse. Daniele si figurò con una bolla da falegname in mano, perso a misurare i gradi di fuga di quel tentativo folle di Giorgio di scappare dall'ordine precostituito del mondo.
Si ricordò le lunghe discussioni a letto prima di addormentarsi nella loro cameretta dell'infanzia prima e della giovinezza poi. A letto si poteva dire per lui, per la verità, perché Giorgio aveva modificato il proprio giaciglio con strati di coperte e cuscini trafugati in giro in un solido trapezioidale.
- Tu non puoi capire, - gli diceva Giorgio - non è una fissazione, io semplicemente non lo tollero, non posso vederlo né tanto meno toccarlo.
- Ma vedere e toccare cosa esattamente? - rispondeva Daniele - Prendi il tavolo, per esempio: tu gridi, strepiti e poi basta un libro sotto a una gamba e allora lo puoi vedere e toccare tranquillamente. Non ha senso!
- Non capisci, vedi? Sei come tutti gli altri, come la mamma e papà, come le maestre.
Daniele ci rimaneva male a sentirlo dire così. Non era affatto vero, lui gli voleva bene e lo capiva. O meglio non capiva il motivo di quella ossessione, ma vi intuiva un fondo di verità e per quanto poteva cercava di rendergli la vita più semplice possibile. Andava con lui a giocare nelle salite del paese o nei pendii più impervi dei boschi, attaccava i poster tutti storti nel suo lato della cameretta e spostava con il dito i quadri in salotto, quel poco che bastava a non fare infuriare la mamma e a renderli tollerabili per lui.
Ora, davanti alla casa di Giorgio, dopo il primo momento di sgomento, provò un moto di soddisfazione. Il fratello, del tutto autodidatta, non era neanche riuscito a prendere la licenza media, aveva costruito da solo una casa degna di un architetto modernista.
Se ancora ancora nella casa dei genitori si era creato un suo microcosmo vivibile, a scuola la vita era impossibile. Non bastava modificare l'inclinazione del suo banco, c'erano anche i banchi dei compagni e soprattutto la cattedra. Le cartine geografiche appese al muro non erano un problema, quelle erano già sghembe di per sé, ma la lavagna fissata al muro era una gatta da pelare. Prendeva note di continuo: per aver spezzato il crocifisso, scardinato la porta, sabotato i piedini del proiettore nella sala diapositive. Per non parlare dei brutti voti per i compiti in classe e i quaderni. Righe e quadretti non esistevano per lui. Usava solo fogli bianchi a cui modificava i contorni con le forbici.
Anche a casa non erano sempre rose e fiori. Se con Daniele nella loro stanza avevano un loro particolare equilibrio, così non era con i genitori. Non c'era verso di guardare un film in TV e a tavola la tensione era palpabile. Si sedeva sulle gambe anteriori della sedia, suscitando le ire del padre, e pretendeva di mangiare col piatto mezzo sollevato. Il che era in parte fattibile con pasta e minestra, ma più complesso con la bistecca e il contorno di zucca e patate.
A quei tempi non usava più di tanto cercare di spiegare certe stranezze. I genitori infatti non portarono Giorgio dallo psicologo. La mamma ne aveva forse parlato una volta col pediatra, il quale aveva consigliato una cura ricostituente a base di vitamine.
L'unico che aveva intuito, seppure a suo modo, la natura delle stranezze di Giorgio fu il padre.
- Lo so io di cosa ha bisogno questo ragazzino - disse una volta battendo il pugno sul tavolo sgangherato dai continui tentativi di Giorgio di inclinarne l'orizzontalità.
- Annarosa, - disse alla moglie - prepara qualche panino che andiamo tutti a fare una gita.
Cercando di unire l'utile al dilettevole, il padre di Giorgio pensò di portare tutta la famiglia sul litorale. Due ore e mezzo di macchina erano una sfacchinata ma ne sarebbe valsa la pena. Giorgio avrebbe affrontato una volta per tutte le sue paure.
Il viaggio fu lungo e penoso. Giorgio era infatti convinto che solo ciò che era artificiale andasse a urtare la sua sensibilità: case, muri, lavagne, cattedre, fogli a righe, pavimenti. In natura non esistevano linee rette, tantomeno quelle che tanto temeva lui. Per questo si trovava a suo agio nei boschi. Ma intuiva il motivo del viaggio, aveva letto qualcosa a riguardo sui libri di scuola.
Arrivarono direttamente in spiaggia. Il padre scese dalla macchina trionfante. Giorgio venne fuori controvoglia con lo sguardo rivolto in basso.
- Guarda, Giorgio, guarda! - lo intimò il padre.
- Oh, santo cielo! - piagnucolò Annarosa, forse grazie a una forma di presentimento materno - Quella vista lo ucciderà!
Ma il padre, convinto del potere terapeutico della vista dell'orizzonte nel mare, unica manifestazione naturale della geometria euclidea in Terra, gli afferrò il viso e lo costrinse a guardare. Giorgio rimase a lungo impietrito, paralizzato dal panico. Quando si riprese scappò via, lontano da quel panorama intollerabile.
Quella fu l'ultima volta che lo videro.
Finché arrivò a Daniele una strana lettera. Lui capì subito che era del fratello dalla busta tondeggiante. Ironia della sorte nel foglio c'erano dei numeri, le coordinate della dimora di Giorgio, la casupola di fronte a cui si trovava Daniele adesso.
La porta, se così si può chiamare, era aperta. Daniele entrò e iniziò a chiamare il fratello. Siccome non rispondeva esplorò le stanze. Finché lo vide accasciato su una sghemba poltroncina. Il suo corpo era accoccolato in una posizione quasi fetale. Rifuggiva ancora quell'orizzontalità che tanto aborriva. Se ciò che era inclinato o verticale era un inno alla vita, l'orizzontale, ora Daniele lo capiva, era preludio di morte.