[MI154] Il decadimento del falso vuoto
Posted: Sun Sep 19, 2021 11:33 pm
commento
Traccia di mezzogiorno
È cominciato alla pista d’atletica leggera dietro la scuola. Tenevo la coppa stretta tra le mani, il sudore che mi imperlava la fronte, il cuore che galoppava in petto, e guardavo dal podio la folla esultante sugli spalti, ancora incredula di aver vinto. È accaduto in un battito di ciglia: le tribune, e tutte le persone sopra di esse, sono svanite sotto i miei occhi. Urla si sono sollevate al cielo, mentre la realtà veniva consumata pezzo dopo pezzo. Niente più prato, niente più cielo, niente.
La coppa mi è scivolata lentamente dalle mani. Sono scesa dal podio e mi sono girata dall’altra parte, dove le persone si stavano già accalcando alla rete che delimitava la pista, strillando e piangendo. I miei genitori erano su quelle tribune. I miei amici. Dov’erano adesso?
Presa la rincorsa, mi sono aggrappata alla rete con un salto e l’ho scavalcata. Alle mie spalle, sempre più persone si radunavano alla recinzione, ma solo una piccola parte riusciva a passare perché la agitavano e si tiravano giù l’un l’altro nel tentativo di uscire per primi. C’erano professori, compagni di classe, ragazzi che conoscevo, e dietro di loro il vuoto avanzava. Ho dato loro le spalle, ricacciando indietro le lacrime, e ho iniziato a correre.
Un’auto ha inchiodato quando gli ho tagliato la strada, e l’autista mi ha suonato il clacson, ma il suo volto si è tramutato in una maschera di orrore quando ha visto da cosa stavo scappando. Ha cercato di fare manovra, ma per il panico si è schiantato contro un albero. Mi sono voltata brevemente a guardarlo mentre scendeva dalla portiera, ma era già troppo tardi, ed è scomparso insieme all’auto, all’albero, alla strada e a tutto il resto. C’era la mia scuola, laggiù; adesso non c’era più neanche un “laggiù”.
Le mie gambe andavano da sole, sicure; le scarpe da corsa picchiavano con regolarità sul marciapiede; i capelli stavano iniziando a uscire dalla coda ma non avevo tempo per sistemarla. Altre persone stavano correndo con me, mentre in strada le auto erano ferme in colonna e le biciclette vi facevano lo slalom, e dai palazzi a bordo strada si sentivano grida, e qualcuno si lanciava dalle finestre. Guardavo dritto, dritto avanti a me, e pensavo solo a correre e a lasciarmi alle spalle tutto il resto. Ero nata per correre, mi ripetevo, sarebbe andato tutto bene.
«Cosa sta succedendo?» Mi ha gridato un uomo che stava correndo accanto a me, il fiato corto. Era il commesso della pasticceria in cui mi fermavo tutte le mattine. Ho scosso semplicemente la testa, senza rispondere. Lui è inciampato nelle cassette esposte davanti al fruttivendolo, rovinando tra mele, pomodori e grappoli d’uva. Le mie gambe non hanno rallentato.
Non potevo permettermi di chiedermi cosa fosse quella cosa, dove stavano finendo le persone, dov’era iniziato e dove si sarebbe concluso, se mai si sarebbe concluso. Mi sono fermata solo quando ho visto un corpo sul marciapiede davanti a me, scavalcato dalla folla in fuga. Una donna immobile, rannicchiata, stringeva tra le braccia un bambino. Erano la madre e il fratellino di un mio amico. Doveva essersi gettata dalla finestra col bambino ma, in un ultimo moto materno, doveva averlo protetto dall’impatto col suo corpo. Il piccolo piangeva a squarciagola.
Dietro di noi, il paese stava scomparendo: solo vuoto fino all’orizzonte, dove prima c’erano edifici, strade, parchi. Ed era veloce. Ho preso il bambino in braccio e ho ricominciato a correre. Non mi ha neanche guardato e ha continuato a strillare, e io non gli ho detto nulla. Non c’erano parole che avrebbero messo a posto le cose, solo le gambe potevano.
Dopo poco, però, è arrivata la fatica, e ho rallentato notevolmente. Quando ho visto avvicinarsi una persona in moto, ho gridato «ti prego!», porgendogli il piccolo, ma è sfrecciato via senza uno sguardo. Ho dovuto fermarmi a riprendere fiato, mettendo giù il bambino. I suoi occhi grandi hanno incrociato i miei, mentre le labbra gli tremavano, e il vuoto si avvicinava. Ho lasciato che la sua manina scivolasse dalla mia, e ho ripreso a correre senza guardarmi indietro.
Non so per quanto tempo ho corso; so solo che nel vento che mi muoveva i capelli, il cuore che batteva impazzito, le gambe che bruciavano per l’acido lattico, i piedi che facevano male, non c’era spazio per la paura. Ma per quanto sono veloce, non posso esserlo più del destino.
È un istante quello in cui mi fermo e realizzo che il vuoto non è più solo dietro di me, ma è anche davanti, è anche a lato, e si avvicina. Presto il fatto che ho abbandonato il bambino non avrà più importanza, non avrà più significato. Vorrei avere in tasca il telefono per mandare un ultimo messaggio a mia madre. Che pensiero irrazionale, sorrido. È la fine del mondo, o qualcuno si è salvato? E anche se fosse, a me cosa cambierebbe? C’è qualcosa ad attendermi, dopo, o è la fine di tutto? La mia coscienza vivrà in eterno, o sta per spegnersi come le luci di un palcoscenico? Vorrei avere qualche ultimo pensiero profondo, un’eredità da lasciare al mondo, ma
Traccia di mezzogiorno
È cominciato alla pista d’atletica leggera dietro la scuola. Tenevo la coppa stretta tra le mani, il sudore che mi imperlava la fronte, il cuore che galoppava in petto, e guardavo dal podio la folla esultante sugli spalti, ancora incredula di aver vinto. È accaduto in un battito di ciglia: le tribune, e tutte le persone sopra di esse, sono svanite sotto i miei occhi. Urla si sono sollevate al cielo, mentre la realtà veniva consumata pezzo dopo pezzo. Niente più prato, niente più cielo, niente.
La coppa mi è scivolata lentamente dalle mani. Sono scesa dal podio e mi sono girata dall’altra parte, dove le persone si stavano già accalcando alla rete che delimitava la pista, strillando e piangendo. I miei genitori erano su quelle tribune. I miei amici. Dov’erano adesso?
Presa la rincorsa, mi sono aggrappata alla rete con un salto e l’ho scavalcata. Alle mie spalle, sempre più persone si radunavano alla recinzione, ma solo una piccola parte riusciva a passare perché la agitavano e si tiravano giù l’un l’altro nel tentativo di uscire per primi. C’erano professori, compagni di classe, ragazzi che conoscevo, e dietro di loro il vuoto avanzava. Ho dato loro le spalle, ricacciando indietro le lacrime, e ho iniziato a correre.
Un’auto ha inchiodato quando gli ho tagliato la strada, e l’autista mi ha suonato il clacson, ma il suo volto si è tramutato in una maschera di orrore quando ha visto da cosa stavo scappando. Ha cercato di fare manovra, ma per il panico si è schiantato contro un albero. Mi sono voltata brevemente a guardarlo mentre scendeva dalla portiera, ma era già troppo tardi, ed è scomparso insieme all’auto, all’albero, alla strada e a tutto il resto. C’era la mia scuola, laggiù; adesso non c’era più neanche un “laggiù”.
Le mie gambe andavano da sole, sicure; le scarpe da corsa picchiavano con regolarità sul marciapiede; i capelli stavano iniziando a uscire dalla coda ma non avevo tempo per sistemarla. Altre persone stavano correndo con me, mentre in strada le auto erano ferme in colonna e le biciclette vi facevano lo slalom, e dai palazzi a bordo strada si sentivano grida, e qualcuno si lanciava dalle finestre. Guardavo dritto, dritto avanti a me, e pensavo solo a correre e a lasciarmi alle spalle tutto il resto. Ero nata per correre, mi ripetevo, sarebbe andato tutto bene.
«Cosa sta succedendo?» Mi ha gridato un uomo che stava correndo accanto a me, il fiato corto. Era il commesso della pasticceria in cui mi fermavo tutte le mattine. Ho scosso semplicemente la testa, senza rispondere. Lui è inciampato nelle cassette esposte davanti al fruttivendolo, rovinando tra mele, pomodori e grappoli d’uva. Le mie gambe non hanno rallentato.
Non potevo permettermi di chiedermi cosa fosse quella cosa, dove stavano finendo le persone, dov’era iniziato e dove si sarebbe concluso, se mai si sarebbe concluso. Mi sono fermata solo quando ho visto un corpo sul marciapiede davanti a me, scavalcato dalla folla in fuga. Una donna immobile, rannicchiata, stringeva tra le braccia un bambino. Erano la madre e il fratellino di un mio amico. Doveva essersi gettata dalla finestra col bambino ma, in un ultimo moto materno, doveva averlo protetto dall’impatto col suo corpo. Il piccolo piangeva a squarciagola.
Dietro di noi, il paese stava scomparendo: solo vuoto fino all’orizzonte, dove prima c’erano edifici, strade, parchi. Ed era veloce. Ho preso il bambino in braccio e ho ricominciato a correre. Non mi ha neanche guardato e ha continuato a strillare, e io non gli ho detto nulla. Non c’erano parole che avrebbero messo a posto le cose, solo le gambe potevano.
Dopo poco, però, è arrivata la fatica, e ho rallentato notevolmente. Quando ho visto avvicinarsi una persona in moto, ho gridato «ti prego!», porgendogli il piccolo, ma è sfrecciato via senza uno sguardo. Ho dovuto fermarmi a riprendere fiato, mettendo giù il bambino. I suoi occhi grandi hanno incrociato i miei, mentre le labbra gli tremavano, e il vuoto si avvicinava. Ho lasciato che la sua manina scivolasse dalla mia, e ho ripreso a correre senza guardarmi indietro.
Non so per quanto tempo ho corso; so solo che nel vento che mi muoveva i capelli, il cuore che batteva impazzito, le gambe che bruciavano per l’acido lattico, i piedi che facevano male, non c’era spazio per la paura. Ma per quanto sono veloce, non posso esserlo più del destino.
È un istante quello in cui mi fermo e realizzo che il vuoto non è più solo dietro di me, ma è anche davanti, è anche a lato, e si avvicina. Presto il fatto che ho abbandonato il bambino non avrà più importanza, non avrà più significato. Vorrei avere in tasca il telefono per mandare un ultimo messaggio a mia madre. Che pensiero irrazionale, sorrido. È la fine del mondo, o qualcuno si è salvato? E anche se fosse, a me cosa cambierebbe? C’è qualcosa ad attendermi, dopo, o è la fine di tutto? La mia coscienza vivrà in eterno, o sta per spegnersi come le luci di un palcoscenico? Vorrei avere qualche ultimo pensiero profondo, un’eredità da lasciare al mondo, ma
In fisica quantistica, un falso vuoto è un vuoto ipotetico che è metastabile: è stabile, ma non nello stato più stabile possibile. Potrebbe permanere a lungo in questo stato, ma potrebbe anche decadere in uno stato più stabile, in un evento noto come “decadimento del falso vuoto”. Se il nostro universo fosse in uno stato di falso vuoto, il decadimento potrebbe accadere per nucleazione di una bolla: se una piccola regione dell’universo raggiungesse un vuoto più stabile attraverso fluttuazioni quantistiche casuali, la bolla si espanderebbe fino a inglobare l’intero universo. Gli effetti potrebbero implicare la completa cessazione delle forze fondamentali e la distruzione di tutte le particelle.
Ho commesso una piccola imprecisione, rallentando il vuoto abbastanza da permettere alla protagonista di scappare per un po’: in realtà potremmo star sottovalutando le probabilità che l’universo finisca in tal modo proprio poiché la bolla si espanderebbe alla velocità della luce e ogni informazione su questo evento non potrebbe fisicamente raggiungerci fino all’istante in cui anche noi saremo scomparsi
https://en.wikipedia.org/wiki/False_vacuum_decay
Ho commesso una piccola imprecisione, rallentando il vuoto abbastanza da permettere alla protagonista di scappare per un po’: in realtà potremmo star sottovalutando le probabilità che l’universo finisca in tal modo proprio poiché la bolla si espanderebbe alla velocità della luce e ogni informazione su questo evento non potrebbe fisicamente raggiungerci fino all’istante in cui anche noi saremo scomparsi

https://en.wikipedia.org/wiki/False_vacuum_decay