[MI 154] Pane 'e lande
Posted: Sun Sep 19, 2021 6:36 pm
Traccia di mezzanotte: in cucina.
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Ero solo un bambino ma mi sentivo già grande.
Passavo molto tempo a casa dei nonni, luogo per me fantastico, una campagna infinita davanti al mare con l’isolotto davanti; tante storie di povera epica gente contadina, alcune belle, altre tragiche. Amavo fantasticare seduto dentro la cassa del naufragio buttata nei campi, una grande cassa di legno nero approdata in spiaggia ai tempi della bisnonna, carica di bottiglie di liquori e candele steariche…
Quel giorno in cucina c’era un’aria particolare. La nonna aveva deciso di fare il pane ‘e lande, il pane di ghiande e argilla che si faceva solo in certe occasioni.
C’era anche mia madre, eravamo venuti dai nonni per natale, mentre mio padre era rimasto in città al lavoro. Mia madre tornava bambina quando era con i suoi e io assistevo divertito a questo cambiamento, anche perché con i suoi genitori parlava sempre in sardo, continuando a rivolgersi a me in italiano. Anche mio nonno con me parlava spesso l’italiano, mia nonna non la sentii mai parlare diverso dal sardo, mentre la vecchia bisnonna, all’epoca quasi centenaria, parlava un sardo arcaico che quasi non capivo.
Sapevo che fare il pane ’e lande non era una cosa semplice o breve. Ero seduto vicino al camino con mio nonno. Sentii mia nonna che diceva una preghiera a bassa voce, in un angolo della cucina, facendosi il segno della croce e prendendo una sporta appesa al camino, piena di ghiande che erano state messe ad asciugare da alcuni giorni. Le mise dentro una taxedda, un sacchetto di pelle di capra e chiudendo l’imboccatura con la mano lo sbatté parecchie volte sullo scalino davanti alla porta di cucina. Guardavo divertito quella inusuale violenza. Poi estrasse le ghiande dalle quali si era staccata la pellicola che le rivestiva e le mise dentro su caddargiu, un calderone di rame. In una impastera, una conca di terracotta, la vidi mettere del torco, un bel po’ di argilla rosso ruggine, aggiungendo acqua dalla brocca, che io stesso ero andato a prendere al pozzo. Mescolò il tutto a lungo con un grosso mestolo di legno fino a sciogliere tutta l’argilla e colorando l’acqua come fosse caffelatte. Sopra il calderone dov’erano le ghiande mise un triangolo di legno avvolto di lino e vi versò sopra parte di quell’acqua che tratteneva piccoli grumi di argilla che non si era sciolta. Con l’aiuto di mio nonno mise il calderone sopra un treppiede di ferro che stava nel camino, con il fuoco già acceso da prima. Poi mise in quel miscuglio un pezzo di palma benedetta a Pasqua facendosi il segno della croce, contro il malocchio.
Mentre si aspettava che bollisse, mio nonno mi chiese se avevo letto il libro del bandito Samuele, che mi aveva regalato qualche tempo prima. Era un bandito degli anni Venti a cui tutti davano la caccia allora, una leggenda. Lo aveva comprato alla festa del paese da un vecchietto che girava per le feste con una valigia di cartone vendendo libri di storie e poesie sarde.
— Sì, letto — risposi. Mio nonno sorrise felice, sdentato com’era, annuendo.
— Hai visto — disse — quando i carabinieri stavano per prenderlo nel Supramonte?
— Ho visto. Era circondato.
— Hai visto che un carabiniere era rimasto indietro e andò a sbattere proprio in faccia a Samuele che scappava…
— Ah sì.
— Avevano tutti e due il moschetto e potevano spararsi, lo sai? Ma si guardarono negli occhi e il carabiniere gli disse: “Vai, passa!”
— Perché?
— Perché gli uomini facevano così allora.
Mio nonno si accese una sigaretta Alfa e fumò con sguardo assorto.
Mia nonna aggiungeva acqua al calderone, mano a mano che si addensava e alcun manciate di cenere di sarmenta di vigna, mentre continuava a bollire. Io davo uno sguardo a quella specie di melassa nera fumante, ma l’odore era buono. Ogni tanto veniva rimestata. Si continuava a parlare. Entrò mia madre che mi disse di andare a vedere se nannaj stava venendo. Nessuno la chiamava bisnonna. Era Nannaj. Aveva una cameretta piccola tutta sua in fondo alla casa, un letto con sponde di legno intarsiato, coperte intessute a mano, lenzuola di lino, una specchiera di un paio di secoli, davanti alla quale ogni mattina si pettinava i lunghi capelli bianchi con un pettine vecchissimo, nonostante fosse cieca, raccogliendoli in una crocchia che poi copriva con un turbante rosso sopra il quale metteva il fazzoletto nero. Era sempre vestita completamente di nero da quando aveva perso suo marito e i figli giovanissimi a poca distanza uno dall’altro, all’epoca della spagnola. Ma per lei non erano morti di spagnola, erano stati maledetti da un prete e a volte la sentivo cantare una preghiera sottovoce, seduta, lo sguardo perso all’infinito, dondolando le spalle, chiamando dolcemente i suoi figli.
Prima che io uscissi dalla cucina nannaj entrò con calma, mettendo avanti su bacculi, il bastone. Ricordo che indossava dei grossi scarponi da uomo, dei quali pure curioso non chiesi mai il motivo. La fecero sedere vicino al camino in una sgangherata sedia bassa impagliata e coperta di cuscini colorati, sistemandosi con dignità, come su un trono, senza dire una parola.
Intanto che su pane ‘e lande finiva di cuocere noi intanto si mangiava qualcosa; pane carasau bagnato in acqua calda per ammorbidirlo, con strati di sugo e formaggio grattuggiato e altri strati di pane carasau sopra. Mangiava anche nannaj, con un piatto che si sistemava sopra la gonna, seduta vicino al camino. Non la vidi mai sedersi a tavola con noi, preferiva stare nel suo angolo, in silenzio. Era anche sorda e bisognava alzare la voce per farsi capire. Avevo una grande soggezione di lei, anche per l’aria di rispetto che tutti avevano nei suoi confronti. Le poche volte che si accorse della mia presenza e che mi rivolse la parola lo ricordo ancora come un grande onore per me.
Dopo un bel po’ di tempo mia nonna con un mestolo toglie dal calderone le ghiande che non si sono spappolate mettendole in un tàggeri de ortigu, un vassoio di sughero usato anche per la carne arrosto, patate e fave lessate con lardo, per raffreddare. Continua a rimestare ogni tanto quella brodaglia nel calderone fino a che diventa densa. Poi la toglie con il mestolo mettendola sulla tavola come una polenta e a mano a mano che si raffredda ne fa delle focaccine grandi come amaretti che poi sistema su fogli di sughero grezzo per asciugare. So che quelle focaccine, considerate le più delicate, sono per i bambini, per i malati, per chi ha mal di stomaco, mentre il lande spappolato estratto prima, più robusto, come un torrone nero, viene mangiato dagli uomini che fanno lavori pesanti. La cucina è invasa di un odore dolce, come di prugne secche. Vedo mia nonna e mia madre che dividono le focaccine più delicate preparando dei canestrini con il fondo ricoperto di foglie di mandarino, dove saranno riposte e coperte e nel mentre dicono: questo lo diamo a zio, questo lo diamo a zia, questo al dottore, che ne ha chiesto, questo…
Io intanto gironzolo intorno, assaggio qua e là e mi viene in mente di andare a vedere due grandi belle cose appese alle pareti dell’ingresso, dopo che uscirò dalla cucina.
Ancora oggi ricordo un tappetino di lana che mia madre cucì da bambina, con due tigri arancioni maculate di nero circondate di foglie verdi su fondo bianco. E una foto di mio nonno quando era giovane, con l’alta uniforme dei carabinieri, assieme a tanti altri giovani carabinieri come lui. Non ho mai avuto il coraggio di chiedergli, nel poco tempo che l’ho conosciuto, se era lui il giovane carabiniere che fece passare il bandito Samuele.
Passavo molto tempo a casa dei nonni, luogo per me fantastico, una campagna infinita davanti al mare con l’isolotto davanti; tante storie di povera epica gente contadina, alcune belle, altre tragiche. Amavo fantasticare seduto dentro la cassa del naufragio buttata nei campi, una grande cassa di legno nero approdata in spiaggia ai tempi della bisnonna, carica di bottiglie di liquori e candele steariche…
Quel giorno in cucina c’era un’aria particolare. La nonna aveva deciso di fare il pane ‘e lande, il pane di ghiande e argilla che si faceva solo in certe occasioni.
C’era anche mia madre, eravamo venuti dai nonni per natale, mentre mio padre era rimasto in città al lavoro. Mia madre tornava bambina quando era con i suoi e io assistevo divertito a questo cambiamento, anche perché con i suoi genitori parlava sempre in sardo, continuando a rivolgersi a me in italiano. Anche mio nonno con me parlava spesso l’italiano, mia nonna non la sentii mai parlare diverso dal sardo, mentre la vecchia bisnonna, all’epoca quasi centenaria, parlava un sardo arcaico che quasi non capivo.
Sapevo che fare il pane ’e lande non era una cosa semplice o breve. Ero seduto vicino al camino con mio nonno. Sentii mia nonna che diceva una preghiera a bassa voce, in un angolo della cucina, facendosi il segno della croce e prendendo una sporta appesa al camino, piena di ghiande che erano state messe ad asciugare da alcuni giorni. Le mise dentro una taxedda, un sacchetto di pelle di capra e chiudendo l’imboccatura con la mano lo sbatté parecchie volte sullo scalino davanti alla porta di cucina. Guardavo divertito quella inusuale violenza. Poi estrasse le ghiande dalle quali si era staccata la pellicola che le rivestiva e le mise dentro su caddargiu, un calderone di rame. In una impastera, una conca di terracotta, la vidi mettere del torco, un bel po’ di argilla rosso ruggine, aggiungendo acqua dalla brocca, che io stesso ero andato a prendere al pozzo. Mescolò il tutto a lungo con un grosso mestolo di legno fino a sciogliere tutta l’argilla e colorando l’acqua come fosse caffelatte. Sopra il calderone dov’erano le ghiande mise un triangolo di legno avvolto di lino e vi versò sopra parte di quell’acqua che tratteneva piccoli grumi di argilla che non si era sciolta. Con l’aiuto di mio nonno mise il calderone sopra un treppiede di ferro che stava nel camino, con il fuoco già acceso da prima. Poi mise in quel miscuglio un pezzo di palma benedetta a Pasqua facendosi il segno della croce, contro il malocchio.
Mentre si aspettava che bollisse, mio nonno mi chiese se avevo letto il libro del bandito Samuele, che mi aveva regalato qualche tempo prima. Era un bandito degli anni Venti a cui tutti davano la caccia allora, una leggenda. Lo aveva comprato alla festa del paese da un vecchietto che girava per le feste con una valigia di cartone vendendo libri di storie e poesie sarde.
— Sì, letto — risposi. Mio nonno sorrise felice, sdentato com’era, annuendo.
— Hai visto — disse — quando i carabinieri stavano per prenderlo nel Supramonte?
— Ho visto. Era circondato.
— Hai visto che un carabiniere era rimasto indietro e andò a sbattere proprio in faccia a Samuele che scappava…
— Ah sì.
— Avevano tutti e due il moschetto e potevano spararsi, lo sai? Ma si guardarono negli occhi e il carabiniere gli disse: “Vai, passa!”
— Perché?
— Perché gli uomini facevano così allora.
Mio nonno si accese una sigaretta Alfa e fumò con sguardo assorto.
Mia nonna aggiungeva acqua al calderone, mano a mano che si addensava e alcun manciate di cenere di sarmenta di vigna, mentre continuava a bollire. Io davo uno sguardo a quella specie di melassa nera fumante, ma l’odore era buono. Ogni tanto veniva rimestata. Si continuava a parlare. Entrò mia madre che mi disse di andare a vedere se nannaj stava venendo. Nessuno la chiamava bisnonna. Era Nannaj. Aveva una cameretta piccola tutta sua in fondo alla casa, un letto con sponde di legno intarsiato, coperte intessute a mano, lenzuola di lino, una specchiera di un paio di secoli, davanti alla quale ogni mattina si pettinava i lunghi capelli bianchi con un pettine vecchissimo, nonostante fosse cieca, raccogliendoli in una crocchia che poi copriva con un turbante rosso sopra il quale metteva il fazzoletto nero. Era sempre vestita completamente di nero da quando aveva perso suo marito e i figli giovanissimi a poca distanza uno dall’altro, all’epoca della spagnola. Ma per lei non erano morti di spagnola, erano stati maledetti da un prete e a volte la sentivo cantare una preghiera sottovoce, seduta, lo sguardo perso all’infinito, dondolando le spalle, chiamando dolcemente i suoi figli.
Prima che io uscissi dalla cucina nannaj entrò con calma, mettendo avanti su bacculi, il bastone. Ricordo che indossava dei grossi scarponi da uomo, dei quali pure curioso non chiesi mai il motivo. La fecero sedere vicino al camino in una sgangherata sedia bassa impagliata e coperta di cuscini colorati, sistemandosi con dignità, come su un trono, senza dire una parola.
Intanto che su pane ‘e lande finiva di cuocere noi intanto si mangiava qualcosa; pane carasau bagnato in acqua calda per ammorbidirlo, con strati di sugo e formaggio grattuggiato e altri strati di pane carasau sopra. Mangiava anche nannaj, con un piatto che si sistemava sopra la gonna, seduta vicino al camino. Non la vidi mai sedersi a tavola con noi, preferiva stare nel suo angolo, in silenzio. Era anche sorda e bisognava alzare la voce per farsi capire. Avevo una grande soggezione di lei, anche per l’aria di rispetto che tutti avevano nei suoi confronti. Le poche volte che si accorse della mia presenza e che mi rivolse la parola lo ricordo ancora come un grande onore per me.
Dopo un bel po’ di tempo mia nonna con un mestolo toglie dal calderone le ghiande che non si sono spappolate mettendole in un tàggeri de ortigu, un vassoio di sughero usato anche per la carne arrosto, patate e fave lessate con lardo, per raffreddare. Continua a rimestare ogni tanto quella brodaglia nel calderone fino a che diventa densa. Poi la toglie con il mestolo mettendola sulla tavola come una polenta e a mano a mano che si raffredda ne fa delle focaccine grandi come amaretti che poi sistema su fogli di sughero grezzo per asciugare. So che quelle focaccine, considerate le più delicate, sono per i bambini, per i malati, per chi ha mal di stomaco, mentre il lande spappolato estratto prima, più robusto, come un torrone nero, viene mangiato dagli uomini che fanno lavori pesanti. La cucina è invasa di un odore dolce, come di prugne secche. Vedo mia nonna e mia madre che dividono le focaccine più delicate preparando dei canestrini con il fondo ricoperto di foglie di mandarino, dove saranno riposte e coperte e nel mentre dicono: questo lo diamo a zio, questo lo diamo a zia, questo al dottore, che ne ha chiesto, questo…
Io intanto gironzolo intorno, assaggio qua e là e mi viene in mente di andare a vedere due grandi belle cose appese alle pareti dell’ingresso, dopo che uscirò dalla cucina.
Ancora oggi ricordo un tappetino di lana che mia madre cucì da bambina, con due tigri arancioni maculate di nero circondate di foglie verdi su fondo bianco. E una foto di mio nonno quando era giovane, con l’alta uniforme dei carabinieri, assieme a tanti altri giovani carabinieri come lui. Non ho mai avuto il coraggio di chiedergli, nel poco tempo che l’ho conosciuto, se era lui il giovane carabiniere che fece passare il bandito Samuele.