[MI 154] La cucina della gioia
Posted: Sun Sep 19, 2021 5:39 pm
Traccia di mezzanotte - In cucina
Commento
Di mia nonna ho ricordi un po’ confusi, ma quella che mi è rimasta impressa è la sua cucina.
I miei genitori mi spedivano a ogni estate nella sua casa in campagna, una vecchia cascina nel Canavese, dove lei viveva da sola dopo la morte del nonno.
Ricordo che la cucina era abbastanza piccola, con i pavimenti in legno e un grandissimo acquaio di pietra. C’era una grande stufa, di quelle con i cerchi in ghisa e un armadietto che faceva da dispensa.
Il resto delle camere era avvolto da quella trasandatezza fatta di mobili vecchi, letti coperti da teli sbiaditi, lampade dalla luce incerta, sedie e poltrone tarlate.
Ho ricordi vaghi è vero, ma la cucina l’ho ancora chiara nella mente.
Non che mia nonna fosse quella gran cuoca. Mi preparava sempre le solite cose, gli agnolotti alla piemontese, la frittata verde, l’arrosto, insomma poche cose ma buone.
Spesso venivano a trovarmi i miei cugini e mia nonna non faceva altro che aumentare le dosi e via, tutti ci sedevamo intorno al vecchio tavolo coperto da una cerata a quadretti.
Aveva ancora, a quei tempi, un piccolo pollaio e un orto che ormai regalava solo qualche pomodoro se proprio la stagione era caldissima, un po’ di insalata, qualche erba aromatica, e zucchine a profusione. Aveva anche una mucca, Giustina, abbastanza vecchia ma ancora in grado di fornire il latte sufficiente alla mia colazione.
Comunque pur con quei pochi e scarsi materiali e con quella ancor più scarsa fantasia che la contraddistingueva, ricordo molto bene che da mia nonna mangiavo così bene, ma così bene, che tutta la mia anima era come se ne gioisse tant’è che i miei genitori erano quasi stupiti dalla felicità che mi prendeva alla fine della scuola. In fondo quello di mia nonna era un paese sperduto abitato da poche anime, e anche se avevo la compagnia dei miei cugini, ci si poteva ragionevolmente aspettare che cercassi altri luoghi, altri divertimenti. Invece no, io ero felice lì.
Del resto mia nonna, che conosceva bene le erbe della campagna, me lo diceva sempre: “Qui c’è qualcosa di di magico, lo sai NIna? Per questo tutto quello che ti faccio ti piace, e per questo mangi così di gusto”.
Si cominciava la mattina presto, con l’odore del latte bollito e del pane scaldato sulla stufa.
Mangiavo di corsa e uscivo con la mia bicicletta fiammante, che poi a rivederla adesso non era fiammante per niente, era di un rosa sbiadito e pure con un po’di ruggine. Era estate e tutto intorno a me splendeva di colori accesi, gli alberi che costeggiavano il fiume lasciavano trasparire una luce perlacea che il fiume rifletteva con un luccichio ceruleo.
Mia nonna non mi chiamava per pranzo, sapeva che sarei arrivata affamata dopo una nuotata nel fiume.
A casa correvo direttamente in cucina, non stavo nemmeno a guardare cosa mi avesse preparato la nonna, tiravo giù tutto, perché, certo, ero morta di fame, ma anche perché nella cucina di mia nonna davvero era come se ci fosse qualcosa di magico, qualcosa che rendeva tutto straordinariamente buono, qualcosa che mi rendeva felice. Ovviamente mia madre, sua nuora, un po’ si scocciava. Lei che in quei lontani anni ‘70 cominciava ad
apprezzare i vari cocktail di scampi, i prosciutti in bellavista, le vellutate, gli aspic, lei che cominciava a cucinare al mattino del sabato per ricevere gli ospiti la domenica sera, lei che andava al mercato all’alba con la cameriera per scegliere verdure e pesci freschissimi, lei che apparecchiava con il servizio di nozze e le posate da pesce, lei che cambiava piatto a ogni portata. Lei, mia madre, non si capacitava di come io preferissi mangiare degli agnolotti irregolari e fatti con quello che il misero orto offriva, bere un latte ormai povero di qualsiasi nutrimento, divorare frittate e perfino (incredibile ma vero) minestre di verdura, arrosti di carne in cui la carne era un contorno al sugo di verdura.
Mia madre non si capacitava e nemmeno mio padre, in realtà, che pur essendo figlio della nonna da troppo tempo era lontano dalla campagna, preso dal lavoro, e da quella vita agiata che aveva costruito per sé e per noi in quegli anni. Però mio padre qualcosa si ricordava e quando la mamma brontolava perché io assaggiavo svogliatamente i suoi manicaretti sottolineando che la nonna raccontava di pasti divorati in un nano secondo, lui sorridendo le diceva “Lasciala stare, non te la prendere, lo sai che l’aria di città è pesante, anche io quando stavo da mia madre ero più sereno, vedevo tutto rosa e anche il mio stomaco funzionava meglio, l’aria di campagna è un toccasana”.
Il vero toccasana, i miei genitori lo scoprirono quando la nonna morì, e loro misero in vendita la cascina.
Destino volle che a essere interessato fosse un maresciallo dei carabinieri.
Fu al primo sopralluogo, presente anche l'agente incaricato della vendita.
Il pollaio non c’era più, Giustina era ormai morta, e dell’orto esistevano solo più i solchi aridi e anneriti dal sole.
Ma al maresciallo bastò guardarsi intorno. Oserei dire che gli bastò annusare l’aria.
Perché il piccolo prato che circondava la casa non era più stato tagliato dalla nonna e nemmeno brucato da Giustina, o becchettato dalle galline. E l’orto si era seccato.
Nel prato erano cresciute libere delle piante la cui natura fu immediatamente chiara allo sguardo del maresciallo, così come in un attimo fu chiara a tutti l’origine della mia (e dei miei cugini e di mio padre) felicità nello stare dalla nonna…
La sua era davvero la cucina della gioia!
Commento
Di mia nonna ho ricordi un po’ confusi, ma quella che mi è rimasta impressa è la sua cucina.
I miei genitori mi spedivano a ogni estate nella sua casa in campagna, una vecchia cascina nel Canavese, dove lei viveva da sola dopo la morte del nonno.
Ricordo che la cucina era abbastanza piccola, con i pavimenti in legno e un grandissimo acquaio di pietra. C’era una grande stufa, di quelle con i cerchi in ghisa e un armadietto che faceva da dispensa.
Il resto delle camere era avvolto da quella trasandatezza fatta di mobili vecchi, letti coperti da teli sbiaditi, lampade dalla luce incerta, sedie e poltrone tarlate.
Ho ricordi vaghi è vero, ma la cucina l’ho ancora chiara nella mente.
Non che mia nonna fosse quella gran cuoca. Mi preparava sempre le solite cose, gli agnolotti alla piemontese, la frittata verde, l’arrosto, insomma poche cose ma buone.
Spesso venivano a trovarmi i miei cugini e mia nonna non faceva altro che aumentare le dosi e via, tutti ci sedevamo intorno al vecchio tavolo coperto da una cerata a quadretti.
Aveva ancora, a quei tempi, un piccolo pollaio e un orto che ormai regalava solo qualche pomodoro se proprio la stagione era caldissima, un po’ di insalata, qualche erba aromatica, e zucchine a profusione. Aveva anche una mucca, Giustina, abbastanza vecchia ma ancora in grado di fornire il latte sufficiente alla mia colazione.
Comunque pur con quei pochi e scarsi materiali e con quella ancor più scarsa fantasia che la contraddistingueva, ricordo molto bene che da mia nonna mangiavo così bene, ma così bene, che tutta la mia anima era come se ne gioisse tant’è che i miei genitori erano quasi stupiti dalla felicità che mi prendeva alla fine della scuola. In fondo quello di mia nonna era un paese sperduto abitato da poche anime, e anche se avevo la compagnia dei miei cugini, ci si poteva ragionevolmente aspettare che cercassi altri luoghi, altri divertimenti. Invece no, io ero felice lì.
Del resto mia nonna, che conosceva bene le erbe della campagna, me lo diceva sempre: “Qui c’è qualcosa di di magico, lo sai NIna? Per questo tutto quello che ti faccio ti piace, e per questo mangi così di gusto”.
Si cominciava la mattina presto, con l’odore del latte bollito e del pane scaldato sulla stufa.
Mangiavo di corsa e uscivo con la mia bicicletta fiammante, che poi a rivederla adesso non era fiammante per niente, era di un rosa sbiadito e pure con un po’di ruggine. Era estate e tutto intorno a me splendeva di colori accesi, gli alberi che costeggiavano il fiume lasciavano trasparire una luce perlacea che il fiume rifletteva con un luccichio ceruleo.
Mia nonna non mi chiamava per pranzo, sapeva che sarei arrivata affamata dopo una nuotata nel fiume.
A casa correvo direttamente in cucina, non stavo nemmeno a guardare cosa mi avesse preparato la nonna, tiravo giù tutto, perché, certo, ero morta di fame, ma anche perché nella cucina di mia nonna davvero era come se ci fosse qualcosa di magico, qualcosa che rendeva tutto straordinariamente buono, qualcosa che mi rendeva felice. Ovviamente mia madre, sua nuora, un po’ si scocciava. Lei che in quei lontani anni ‘70 cominciava ad
apprezzare i vari cocktail di scampi, i prosciutti in bellavista, le vellutate, gli aspic, lei che cominciava a cucinare al mattino del sabato per ricevere gli ospiti la domenica sera, lei che andava al mercato all’alba con la cameriera per scegliere verdure e pesci freschissimi, lei che apparecchiava con il servizio di nozze e le posate da pesce, lei che cambiava piatto a ogni portata. Lei, mia madre, non si capacitava di come io preferissi mangiare degli agnolotti irregolari e fatti con quello che il misero orto offriva, bere un latte ormai povero di qualsiasi nutrimento, divorare frittate e perfino (incredibile ma vero) minestre di verdura, arrosti di carne in cui la carne era un contorno al sugo di verdura.
Mia madre non si capacitava e nemmeno mio padre, in realtà, che pur essendo figlio della nonna da troppo tempo era lontano dalla campagna, preso dal lavoro, e da quella vita agiata che aveva costruito per sé e per noi in quegli anni. Però mio padre qualcosa si ricordava e quando la mamma brontolava perché io assaggiavo svogliatamente i suoi manicaretti sottolineando che la nonna raccontava di pasti divorati in un nano secondo, lui sorridendo le diceva “Lasciala stare, non te la prendere, lo sai che l’aria di città è pesante, anche io quando stavo da mia madre ero più sereno, vedevo tutto rosa e anche il mio stomaco funzionava meglio, l’aria di campagna è un toccasana”.
Il vero toccasana, i miei genitori lo scoprirono quando la nonna morì, e loro misero in vendita la cascina.
Destino volle che a essere interessato fosse un maresciallo dei carabinieri.
Fu al primo sopralluogo, presente anche l'agente incaricato della vendita.
Il pollaio non c’era più, Giustina era ormai morta, e dell’orto esistevano solo più i solchi aridi e anneriti dal sole.
Ma al maresciallo bastò guardarsi intorno. Oserei dire che gli bastò annusare l’aria.
Perché il piccolo prato che circondava la casa non era più stato tagliato dalla nonna e nemmeno brucato da Giustina, o becchettato dalle galline. E l’orto si era seccato.
Nel prato erano cresciute libere delle piante la cui natura fu immediatamente chiara allo sguardo del maresciallo, così come in un attimo fu chiara a tutti l’origine della mia (e dei miei cugini e di mio padre) felicità nello stare dalla nonna…
La sua era davvero la cucina della gioia!