D.P. - Something about us
Posted: Thu Aug 19, 2021 12:20 am
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D.P. - Something about us
«Sai, non pensavo che una Venusiana fosse così dolce.»
Vexha sorrise, mostrando a Mark i suoi canini appuntiti e sporgenti. Poi gli rispose con voce suadente: «Mark, anche nel mio pianeta esistono tanti pregiudizi verso gli umani, ma la verità è che ogni essere è unico. E tu sei il ragazzo più buono che ho mai incontrato in trecento anni».
Mark distolse lo sguardo da lei e si mise ad ammirare le stelle, brillanti e colorate, pronte a riempire il buio ed il vuoto dell’universo.
«Perché passare la vita ad odiare qualcuno o qualcosa? La vita è così breve per noi umani, non ha senso sprecarla.»
Vexha continuò a posare i suoi occhi di ghiaccio sul giovane. In fondo per lei quello spettacolo luminoso non aveva più lo stesso sapore, dopo tutto quel tempo.
«Vexha…» disse Mark, mentre osservava una meteora.
«Dimmi.»
«È vero che voi Venusiane non invecchiate mai?»
«Non invecchiamo nella pelle, ma anche noi moriremo, prima o poi.»
Mark tornò a guardarla con i suoi occhi scuri e profondi, poi con la mano le accarezzò la spalla, scendendo sul braccio.
«Sei così perfetta, hai una pelle fantastica. Poi l’azzurro è uno dei miei colori preferiti» aggiunse, sorridendo.
Vexha gradì il complimento, ma le scappò una piccola smorfia, quasi impercettibile, che Mark non colse.
Prese la mano del ragazzo e lo invitò ad alzarsi da quella panchina.
«Vieni, andiamo a fare due passi, ti voglio mostrare una cosa.»
Lo accompagnò oltre la strada, sul brullo suolo lunare: una distesa irregolare di roccia color avorio, illuminata solamente dalla volta celeste.
La Luna quella sera era più silenziosa del solito, il frastuono robotico, a cui Mark e Vexha erano abituati, stava scomparendo in lontananza.
I due passeggiarono mano nella mano per tanto tempo, allontanandosi da tutto ciò che li legava a quel pianeta: le macchine estrattrici del sottosuolo lunare, forse l’ultima fonte di energia davvero importante rimasta agli uomini.
Vexha volle portarlo nel punto più distante da tutto, a pochi metri dalla cupola trasparente che avvolgeva e abbracciava il pianeta in una bolla di ossigeno.
Si fermò, scrutò il cielo come mai aveva fatto quella sera, poi puntò il dito in direzione di una manciata di stelle.
«La vedi quella piccola costellazione a forma di aquilone?»
«Sì» rispose Mark.
«Si chiama Trephis, in realtà non è piccola, è soltanto lontana. Io sono nata lì, per l’esattezza nel terzo pianeta che ruota attorno alla stella più luminosa.»
«Ma non sei Venusiana?»
«Sì, ma non sono nata su Venere. Mio padre era un generale delle Forze Venusiane, ed aveva il compito di conquistare quella costellazione. Sai, anche noi Venusiani non siamo un popolo così pacifico. Così, una volta conquistata Trephis, a mio padre fu ordinato di presiedere quella piccola galassia. Poi dopo qualche secolo nacqui io…»
«Wow! Figlia di un Generale delle Forze Venusiane, tu si che hai una storia da raccontare. Io invece? Figlio, nipote e pronipote di una famiglia di estrattori, sai che noia! Ti invidio, sai? Hai visitato mondi e pianeti così lontani e così diversi. Un giorno mollerò tutto questo per vedere cosa c’è oltre questa cupola. Non voglio fare la fine di mio padre.»
«A volte si sta meglio dentro una cupola. L’universo non è come uno se lo immagina, almeno, non è come io me lo immaginavo.»
«Parli come una vecchietta stanca della vita» disse Mark, sorridendo.
Vexha sfilò la mano dal giovane e rispose: «Non sono stanca della vita, ma crescendo ti accorgerai che l’ottimismo di gioventù si schianta inevitabilmente contro la realtà di questi mondi.»
Mark la osservò per un attimo, poi la chiamo a sé.
«Scusami, non volevo offenderti.»
«Non ti preoccupare, è tutto a posto.»
I due rimasero alcuni minuti a scrutare le stelle. Si respirava una certa magia quella notte.
In lontananza una navicella decollò lentamente verso lo spazio profondo. Si lasciò dietro di sé una scia biancastra, che sfumava pian piano.
Tutto sembrò rallentare, a tal punto da immortalare quegli attimi nelle memorie dei due.
Ad un tratto Vexha buttò a terra lo sguardo, poi disse: «Torniamo indietro? Domani devo partire presto, lo sai».
Mark lo sapeva bene, ma sperava che quel momento non venisse mai.
«Cosa c’è Mark?»
«È… che… in realtà tu non ti sei mai aperta con me. Io ti ho detto tutto di me, ma di te so poco o niente, ho scoperto solo stasera da dove vieni. Sei come bloccata con me, e mi dispiace.»
«Non sono bloccata con te, anzi, di solito certe cose non le dico a nessuno. Sono una donna riservata, dovresti saperlo ormai. Però con te mi sento libera di parlare, e mi capita con pochissimi altri.»
A Mark però non bastò quella risposta così ragionata.
«Allora dimmi, cos’è successo per farti vivere così? Sempre con lo scudo alzato?»
«Ah… io speravo in un addio più rispettoso.»
«No tu speravi in un addio meno doloroso, invece io voglio sapere chi sei veramente, visto che tu mi piaci, e io mi sono aperto con te!»
Vexha lo guardò con un sorriso amaro, rifletté ancora un po’, poi gli disse: «Sai Mark, io invidio voi umani che vivete tutto in quanto? Novant’anni? Sai perché? Quando passano i secoli, tutto sembra ripetersi. E in effetti è così, la vita mi scorre una goccia alla volta, così prevedibile, così fredda.
Lo sapevi che noi Venusiane non possiamo avere figli? O meglio, non possiamo decidere quando averli, e quanti averne».
«Come mai?»
«La nostra specie deve mantenersi controllata nel numero delle nascite, il Governo lo decise ormai venti secoli fa. Così feci come tutte noi, aspettai che mi diedero il permesso di avere un figlio. E finalmente quel giorno arrivò, io fui felice come una bambina a cui regalarono il dono più bello. Ero già sposata da alcuni decenni e anche lui fu contento della notizia. Pochi anni dopo nacque Matiax…»
La voce di Vexha si fece più sottile, e per un attimo ci fu silenzio. Poi sorrise e riprese a raccontarsi: «Era una bambino stupendo, bello, allegro, straripante di vita. Mi fece aprire gli occhi su tante cose. Sono stati bei momenti.»
Mark cambiò espressione e inspirò più del solito. Forse per la prima volta non sapeva cosa dire, e per un po’ non disse niente.
«Cos’è successo dopo?» le chiese, per scioglierle quel nodo in gola.
Vexha si schiarì la voce e rispose: «Dopo Mathiax è cresciuto, ed essendo figlio, nipote, pronipote di una stirpe di militari del cazzo, gli fu assegnata subito una missione. Mio padre lo volle a capo di una stupida battaglia per conquistare un’altra stupida galassia. Aveva solo 33 anni…» Mark notò per la prima volta scendere una lacrima dal volto delicato di Vexha, «pochi anni dopo lasciai il mio uomo, e anche se mi mettessi tutto alle spalle e mi innamorassi nuovamente di qualcuno, non potrei comunque più avere figli.
Così iniziai a commerciare pietra lunare. Ora eccomi qua, a rimbalzare come un fantasma tra un pianeta ed un altro. Essere Venusiana non è poi così bello, vedi?»
Mark la ascoltò con profonda attenzione e, prima di aprire bocca, volle ponderare bene le sue parole.
«Ora capisco… e credimi, quello che ti è successo è una coltellata al cuore, ma se ti limiti a sopravvivere, è come se fossi già morta.»
«Non mi sento morta. Ma ho perso la fiducia in tutto questo, e non è facile recuperarla.»
Mark non seppe cosa dire per consolarla.
«Dai, andiamo, sennò faccio davvero tardi» disse Vexha, facendo un piccolo cenno con la testa.
«Andiamo…» rispose Mark, un po’ giù di corda.
I due, a pochi passi l’uno dall’altro, si voltarono e intrapresero il cammino verso la base.
Così vicini, eppure così soli e silenziosi. Ognuno perso nel suo viaggio interiore, dove ci si abbandona ad alcuni cupi sentimenti. Vi era una strana quiete purificatrice; stavano cercando di lavarsi di dosso quei mesi trascorsi assieme. Ogni sorriso, ogni sguardo, andava cauterizzato prima che la ferita diventasse troppo profonda.
Anche la Luna sembrava soltanto uno spoglio ammasso di rocce morte.
Non si dissero una sola parola per tutto quel tempo, fino a che, ormai nei pressi della base, Vexha notò alcuni suoi colleghi intenti a portare alcune valigie nella loro navicella.
«Ma dov’eri finita? È un’ora che ti cerchiamo?» le disse uno dei due Venusiani.
Vexha si fermò ad alcune decine di metri da loro e rispose che sarebbe arrivata a momenti.
Si voltò verso Mark, non sapendo bene che dire: «Grazie di tutto Mark…»
Vexha non fece in tempo a continuare che il giovane Mark la prese per un braccio, la fissò dritto negli occhi e le disse con voce ferma: «Lascia il tuo lavoro, i tuoi rimpianti, le vostre stupide regole e rimane qui con me. Ti prometto che darò tutto per te. Poi quello che sarà, sarà.»
Vexha non riuscì a reggere lo sguardo del giovane, e fu costretta a guardare altrove, cercando di trattenere una lacrima. Tirò su col naso e, poco dopo aver visto la sua astronave, chiuse gli occhi.
Mark la strinse più forte, quasi a volerle lasciare un segno sul braccio, poi se la portò a sé.
Lei non potè far altro che tornare a reggere lo sguardo di lui, poi gli disse: «Mark… non avrebbe senso. Ti vedrei invecchiare e morire senza che capiti lo stesso anche a me.»
Il giovane mollò leggermente la presa su di lei e sorridendo le rispose: «Almeno saprò che non dovrò badare a te durante la vecchiaia».
Mark riuscì a strappare un breve sorriso anche a lei, ma poi Vexha tornò a combattere con i suoi rimpianti e le sue paure.
«Vexha, smetti di fare la ragazzina, vieni a darci una mano» urlò un venusiano.
«E sta' zitto un attimo!» ribattè Mark, senza neanche voltarsi. Poi, con il cuore in mano, le disse: «Dammi questa opportunità, non te ne pentirai».
Vexha rimase lì, in silenzio, a guardare quegli occhi così tesi e profondi, cercando di vedere oltre l’animo dolce e gentile di Mark.
Quella notte avrebbe cambiato per sempre le loro vite.
Per qualche secondo Vexha sembrò sorridere.
Per qualche secondo Vexha tornò a vivere per davvero.
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«Sai, non pensavo che una Venusiana fosse così dolce.»
Vexha sorrise, mostrando a Mark i suoi canini appuntiti e sporgenti. Poi gli rispose con voce suadente: «Mark, anche nel mio pianeta esistono tanti pregiudizi verso gli umani, ma la verità è che ogni essere è unico. E tu sei il ragazzo più buono che ho mai incontrato in trecento anni».
Mark distolse lo sguardo da lei e si mise ad ammirare le stelle, brillanti e colorate, pronte a riempire il buio ed il vuoto dell’universo.
«Perché passare la vita ad odiare qualcuno o qualcosa? La vita è così breve per noi umani, non ha senso sprecarla.»
Vexha continuò a posare i suoi occhi di ghiaccio sul giovane. In fondo per lei quello spettacolo luminoso non aveva più lo stesso sapore, dopo tutto quel tempo.
«Vexha…» disse Mark, mentre osservava una meteora.
«Dimmi.»
«È vero che voi Venusiane non invecchiate mai?»
«Non invecchiamo nella pelle, ma anche noi moriremo, prima o poi.»
Mark tornò a guardarla con i suoi occhi scuri e profondi, poi con la mano le accarezzò la spalla, scendendo sul braccio.
«Sei così perfetta, hai una pelle fantastica. Poi l’azzurro è uno dei miei colori preferiti» aggiunse, sorridendo.
Vexha gradì il complimento, ma le scappò una piccola smorfia, quasi impercettibile, che Mark non colse.
Prese la mano del ragazzo e lo invitò ad alzarsi da quella panchina.
«Vieni, andiamo a fare due passi, ti voglio mostrare una cosa.»
Lo accompagnò oltre la strada, sul brullo suolo lunare: una distesa irregolare di roccia color avorio, illuminata solamente dalla volta celeste.
La Luna quella sera era più silenziosa del solito, il frastuono robotico, a cui Mark e Vexha erano abituati, stava scomparendo in lontananza.
I due passeggiarono mano nella mano per tanto tempo, allontanandosi da tutto ciò che li legava a quel pianeta: le macchine estrattrici del sottosuolo lunare, forse l’ultima fonte di energia davvero importante rimasta agli uomini.
Vexha volle portarlo nel punto più distante da tutto, a pochi metri dalla cupola trasparente che avvolgeva e abbracciava il pianeta in una bolla di ossigeno.
Si fermò, scrutò il cielo come mai aveva fatto quella sera, poi puntò il dito in direzione di una manciata di stelle.
«La vedi quella piccola costellazione a forma di aquilone?»
«Sì» rispose Mark.
«Si chiama Trephis, in realtà non è piccola, è soltanto lontana. Io sono nata lì, per l’esattezza nel terzo pianeta che ruota attorno alla stella più luminosa.»
«Ma non sei Venusiana?»
«Sì, ma non sono nata su Venere. Mio padre era un generale delle Forze Venusiane, ed aveva il compito di conquistare quella costellazione. Sai, anche noi Venusiani non siamo un popolo così pacifico. Così, una volta conquistata Trephis, a mio padre fu ordinato di presiedere quella piccola galassia. Poi dopo qualche secolo nacqui io…»
«Wow! Figlia di un Generale delle Forze Venusiane, tu si che hai una storia da raccontare. Io invece? Figlio, nipote e pronipote di una famiglia di estrattori, sai che noia! Ti invidio, sai? Hai visitato mondi e pianeti così lontani e così diversi. Un giorno mollerò tutto questo per vedere cosa c’è oltre questa cupola. Non voglio fare la fine di mio padre.»
«A volte si sta meglio dentro una cupola. L’universo non è come uno se lo immagina, almeno, non è come io me lo immaginavo.»
«Parli come una vecchietta stanca della vita» disse Mark, sorridendo.
Vexha sfilò la mano dal giovane e rispose: «Non sono stanca della vita, ma crescendo ti accorgerai che l’ottimismo di gioventù si schianta inevitabilmente contro la realtà di questi mondi.»
Mark la osservò per un attimo, poi la chiamo a sé.
«Scusami, non volevo offenderti.»
«Non ti preoccupare, è tutto a posto.»
I due rimasero alcuni minuti a scrutare le stelle. Si respirava una certa magia quella notte.
In lontananza una navicella decollò lentamente verso lo spazio profondo. Si lasciò dietro di sé una scia biancastra, che sfumava pian piano.
Tutto sembrò rallentare, a tal punto da immortalare quegli attimi nelle memorie dei due.
Ad un tratto Vexha buttò a terra lo sguardo, poi disse: «Torniamo indietro? Domani devo partire presto, lo sai».
Mark lo sapeva bene, ma sperava che quel momento non venisse mai.
«Cosa c’è Mark?»
«È… che… in realtà tu non ti sei mai aperta con me. Io ti ho detto tutto di me, ma di te so poco o niente, ho scoperto solo stasera da dove vieni. Sei come bloccata con me, e mi dispiace.»
«Non sono bloccata con te, anzi, di solito certe cose non le dico a nessuno. Sono una donna riservata, dovresti saperlo ormai. Però con te mi sento libera di parlare, e mi capita con pochissimi altri.»
A Mark però non bastò quella risposta così ragionata.
«Allora dimmi, cos’è successo per farti vivere così? Sempre con lo scudo alzato?»
«Ah… io speravo in un addio più rispettoso.»
«No tu speravi in un addio meno doloroso, invece io voglio sapere chi sei veramente, visto che tu mi piaci, e io mi sono aperto con te!»
Vexha lo guardò con un sorriso amaro, rifletté ancora un po’, poi gli disse: «Sai Mark, io invidio voi umani che vivete tutto in quanto? Novant’anni? Sai perché? Quando passano i secoli, tutto sembra ripetersi. E in effetti è così, la vita mi scorre una goccia alla volta, così prevedibile, così fredda.
Lo sapevi che noi Venusiane non possiamo avere figli? O meglio, non possiamo decidere quando averli, e quanti averne».
«Come mai?»
«La nostra specie deve mantenersi controllata nel numero delle nascite, il Governo lo decise ormai venti secoli fa. Così feci come tutte noi, aspettai che mi diedero il permesso di avere un figlio. E finalmente quel giorno arrivò, io fui felice come una bambina a cui regalarono il dono più bello. Ero già sposata da alcuni decenni e anche lui fu contento della notizia. Pochi anni dopo nacque Matiax…»
La voce di Vexha si fece più sottile, e per un attimo ci fu silenzio. Poi sorrise e riprese a raccontarsi: «Era una bambino stupendo, bello, allegro, straripante di vita. Mi fece aprire gli occhi su tante cose. Sono stati bei momenti.»
Mark cambiò espressione e inspirò più del solito. Forse per la prima volta non sapeva cosa dire, e per un po’ non disse niente.
«Cos’è successo dopo?» le chiese, per scioglierle quel nodo in gola.
Vexha si schiarì la voce e rispose: «Dopo Mathiax è cresciuto, ed essendo figlio, nipote, pronipote di una stirpe di militari del cazzo, gli fu assegnata subito una missione. Mio padre lo volle a capo di una stupida battaglia per conquistare un’altra stupida galassia. Aveva solo 33 anni…» Mark notò per la prima volta scendere una lacrima dal volto delicato di Vexha, «pochi anni dopo lasciai il mio uomo, e anche se mi mettessi tutto alle spalle e mi innamorassi nuovamente di qualcuno, non potrei comunque più avere figli.
Così iniziai a commerciare pietra lunare. Ora eccomi qua, a rimbalzare come un fantasma tra un pianeta ed un altro. Essere Venusiana non è poi così bello, vedi?»
Mark la ascoltò con profonda attenzione e, prima di aprire bocca, volle ponderare bene le sue parole.
«Ora capisco… e credimi, quello che ti è successo è una coltellata al cuore, ma se ti limiti a sopravvivere, è come se fossi già morta.»
«Non mi sento morta. Ma ho perso la fiducia in tutto questo, e non è facile recuperarla.»
Mark non seppe cosa dire per consolarla.
«Dai, andiamo, sennò faccio davvero tardi» disse Vexha, facendo un piccolo cenno con la testa.
«Andiamo…» rispose Mark, un po’ giù di corda.
I due, a pochi passi l’uno dall’altro, si voltarono e intrapresero il cammino verso la base.
Così vicini, eppure così soli e silenziosi. Ognuno perso nel suo viaggio interiore, dove ci si abbandona ad alcuni cupi sentimenti. Vi era una strana quiete purificatrice; stavano cercando di lavarsi di dosso quei mesi trascorsi assieme. Ogni sorriso, ogni sguardo, andava cauterizzato prima che la ferita diventasse troppo profonda.
Anche la Luna sembrava soltanto uno spoglio ammasso di rocce morte.
Non si dissero una sola parola per tutto quel tempo, fino a che, ormai nei pressi della base, Vexha notò alcuni suoi colleghi intenti a portare alcune valigie nella loro navicella.
«Ma dov’eri finita? È un’ora che ti cerchiamo?» le disse uno dei due Venusiani.
Vexha si fermò ad alcune decine di metri da loro e rispose che sarebbe arrivata a momenti.
Si voltò verso Mark, non sapendo bene che dire: «Grazie di tutto Mark…»
Vexha non fece in tempo a continuare che il giovane Mark la prese per un braccio, la fissò dritto negli occhi e le disse con voce ferma: «Lascia il tuo lavoro, i tuoi rimpianti, le vostre stupide regole e rimane qui con me. Ti prometto che darò tutto per te. Poi quello che sarà, sarà.»
Vexha non riuscì a reggere lo sguardo del giovane, e fu costretta a guardare altrove, cercando di trattenere una lacrima. Tirò su col naso e, poco dopo aver visto la sua astronave, chiuse gli occhi.
Mark la strinse più forte, quasi a volerle lasciare un segno sul braccio, poi se la portò a sé.
Lei non potè far altro che tornare a reggere lo sguardo di lui, poi gli disse: «Mark… non avrebbe senso. Ti vedrei invecchiare e morire senza che capiti lo stesso anche a me.»
Il giovane mollò leggermente la presa su di lei e sorridendo le rispose: «Almeno saprò che non dovrò badare a te durante la vecchiaia».
Mark riuscì a strappare un breve sorriso anche a lei, ma poi Vexha tornò a combattere con i suoi rimpianti e le sue paure.
«Vexha, smetti di fare la ragazzina, vieni a darci una mano» urlò un venusiano.
«E sta' zitto un attimo!» ribattè Mark, senza neanche voltarsi. Poi, con il cuore in mano, le disse: «Dammi questa opportunità, non te ne pentirai».
Vexha rimase lì, in silenzio, a guardare quegli occhi così tesi e profondi, cercando di vedere oltre l’animo dolce e gentile di Mark.
Quella notte avrebbe cambiato per sempre le loro vite.
Per qualche secondo Vexha sembrò sorridere.
Per qualche secondo Vexha tornò a vivere per davvero.